CAPITOLO 1
ANTEFATTO
INCESSANTE PIOGGIA DI PRIMAVERA
Un punto imprecisato della pianura; un giorno indefinito del quarto[i] mese dell’ottavo anno di regno dell’Imperatore Yoshio Ryokin.
La cortina di pioggia incessante impediva di distinguere i contorni del mondo. Da giorni, forse da intere settimane, continuava quel maltempo umido e grigio. Il cielo non si era più aperto e tra i contadini c’era chi bisbigliava che la dea Sole fosse irata col popolo dello Si-hai-pai e non sarebbe più apparsa in cielo.
Le nuvole, spesse e cineree come cotone usato dal carbonaio per detergersi il viso, fluttuavano sopra le valli e accarezzavano le cime dei monti più alti, ancora agghindate con il loro candido vestito invernale. Una nebbia bianca e compatta si insinuava tra i tronchi dei grandi pini e nelle foreste di bambù che ricoprivano i fianchi delle colline; come una valanga di umida foschia scendeva verso le valli sottostanti, in cui le risaie non riuscivano più ad arginare l’acqua eccessiva che aveva sommerso più del necessario i fragili steli del riso appena trapiantato. Le gocce di pioggia battevano sulla superficie dell’acqua con un suono martellante e continuo che era divenuto il sottofondo della vita dei contadini disperati, che già contavano i danni causati da quel nuovo diluvio. Nessuno osava uscire dalla propria casa se non per necessità, poiché le strade si erano mutate in fiumi di fango giallastro che si snodavano sinuosi confondendosi con i canali dritti e ben costruiti, le cui chiuse erano state tutte aperte nella speranza di far fluire più rapidamente quella immensa quantità d’acqua.
Un alito di vento agitò gli steli verdi del riso, facendoli piegare fino a immergere la testa delle spighe nell’acqua sporca. Un suono ritmico, come il battito di un cuore agitato, si sovrappose al familiare ticchettio della pioggia, e dalla bruma che si levava dalla strada emerse la sagoma scura di un cavaliere, che piegato sulla sella spronava e incitava il cavallo con grida e insulti che si perdevano nel frastuono degli zoccoli che affondavano, rischiando spesso di scivolare, nel terreno fangoso e insicuro. Il mantello di paglia, che aveva indossato per proteggere quello di stoffa nera, di cui si intravedevano i lembi agitati dalla furia della sua cavalcata, era lacero in più punti e a stento tratteneva le gocce; i pantaloni scuri e larghi avvolgevano completamente le gambe, ed erano macchiati del fango che schizzava in ogni direzione insozzando anche le zampe dell’animale, che galoppava come se alle sue spalle ci fossero tutti i demoni degli inferi a inseguirlo.
Improvvisamente una vipera acquatica scivolò fuori dalla sua tana e attraversò la strada proprio di fronte al frettoloso viaggiatore. Il cavallo, impaurito, si impennò nitrendo e sbuffando, rischiando di cadere all’indietro sopra il suo cavaliere, il quale però si afferrò saldamente alle redini e avvolse con i polpacci il ventre dell’animale ricordandogli i suoi doveri, poi si piegò verso le orecchie del cavallo, completamente abbassate contro la testa, e gli sussurrò qualche frase gentile che lo calmò in pochi istanti. La bestia, di nuovo docile e ubbidiente, tornò a poggiarsi sulle quattro zampe, e il contraccolpo fece sobbalzare il cavaliere e spezzare il laccio del suo cappello di paglia a tesa larga. Il copricapo cadde a terra liberando una folta chioma di capelli neri che si agitò sinuosa nell’aria, come le onde del mare in tempesta. Lei non ci badò e colpendo il costato del cavallo lo convinse a riprendere la marcia accelerando ulteriormente l’andatura.
Chariza alzò gli occhi verso il cielo e si strinse nel mantello pesante di stoffa scura, poi si voltò per controllare che il suo compagno di viaggio non fosse rimasto troppo indietro. Sbuffò, perché il paesaggio, che sembrava non voler cambiare mai, le faceva provare una spiacevole sensazione di fastidio fisico data dall’impressione di avanzare troppo lentamente. Tirò le redini del cavallo per farlo rallentare un poco in attesa del messaggero che la accompagnava, finché questi non comparve da una curva della strada.
– Andiamo! – gridò all’uomo, che fu costretto a sollevare un braccio per ripararsi il viso con l’ampia manica della giacca per riuscire a distinguere chiaramente la sagoma di Chariza avvolta dalla pioggia.
– Signora, ti prego, rallenta! – rispose lui, respirando affannosamente tanto quanto la sua cavalcatura.
Chariza fermò il cavallo e lo fece girare più volte su se stesso. – Non sei stato tu a dire che era urgente? – chiese in tono brusco, e senza risparmiare all’incolpevole messaggero un’occhiata colma di risentimento.
Una sferzata di vento agitò i suoi capelli, che frustarono il suo viso dai lineamenti affilati, e innervosì ulteriormente la sua fremente cavalcatura, così Chariza la incitò e riprese a galoppare come una furia fissando con aria di sfida l’orizzonte sfuocato che le si parava davanti, ignorando il compagno di viaggio e le sue lamentele.
Il messaggero tremò, per il freddo e per la sottile sensazione di timore che Chariza gli faceva provare, ma la seguì, continuando però a borbottare fra sé e sé.
Chariza non aveva nessuna intenzione di perdere un solo istante lungo la strada ora che era quasi giunta a destinazione.
Fidandosi del passo sicuro del cavallo, si abbandonò ai pensieri che da giorni agitavano la sua mente e il suo animo.
Non era la prima volta che il Drago d’Oro preferiva richiedere i suoi servigi piuttosto che affidare qualche delicata missione ai cavalieri Ryokin della sua guardia o a delle guarnigioni mandate dall’Alleanza per rinforzare l’esercito imperiale. Ma questa volta Chariza avvertiva che c’era qualcosa di diverso, qualcosa che aveva letto tra le righe di quella strana lettera, qualcosa che la costringeva a scrutare l’orizzonte nella speranza di veder comparire al più presto l’ultima collina, dietro alla quale avrebbe scorto la capitale e la sua destinazione.
L’Imperatore aveva molti nemici, e aveva dovuto imparare che la sua fiducia non poteva essere riposta neppure nei membri dell’Alleanza dopo che il Drago Rosso aveva cercato di spodestare la dinastia dei Ryokin. Aveva anche sperato che dopo quell’episodio la sua vita e quella della sua famiglia sarebbero state più al sicuro, solo per scoprire che qualcun altro vagheggiava di alterare l’ordine millenario sul quale si reggeva lo Si-hai-pai. Chariza credeva che, in fondo, Ryokin non sarebbe mai stato completamente al riparo da attentati e congiure, ma sapeva anche che era un uomo abbastanza intelligente da sapersi difendere perfino dai suoi stessi alleati. Quindi quel richiamo frettoloso e insistente, quel messaggio che non lasciava possibilità di scelta, la cui unica risposta era stata quel viaggio improvviso, la turbava ancora più profondamente.
“Cosa può essere successo?” si chiedeva mentre stringeva i fianchi del cavallo, cercando con lo sguardo il punto in cui la strada avrebbe cominciato a salire. “Chi cerca di governare lo Si-hai-pai?”
Chariza urlò qualcosa all’animale, che accelerò, in una nuvola d’acqua fangosa, lasciando nuovamente indietro il suo compagno di viaggio.
Il messaggero stava già immaginando se stesso immerso in una tinozza d’acqua bollente, circondato da splendide fanciulle che danzavano attorno a lui portando oli profumati e pomate da spalmare sulla sua schiena dolorante, oppure si vedeva comodamente seduto a un tavolo imbandito con ogni leccornia che la stagione potesse offrire, imboccato sempre da altrettante meravigliose ragazze.
Era così perso nei suoi sogni che non si accorse neppure che Chariza aveva fermato il cavallo. La sua povera giumenta, sfinita almeno quanto lui, andò a sbattere contro il posteriore del morello della donna, riportandolo così alla dura realtà. E alzando lo sguardo di fronte a sé, il messaggero fu costretto ad ammettere che la realtà era ben peggiore di quel che ricordava. Quattro uomini vestiti di nero su cavalli altrettanto scuri sbarravano loro la strada. Avevano il viso coperto e portavano ognuno una spada corta. Il messaggero li fissò più sconsolato che spaventato, perché ormai non aveva più neppure la forza per sentire la paura.
– Lasciateci passare! – ordinò Chariza ai quattro uomini.
Il messaggero si scosse, ritrovando quel tanto di lucidità che gli serviva per intuire che presto ci sarebbe stato un combattimento e che lui sarebbe stato solo di intralcio.
– Lasciarti passare? – risero loro squadrando Chariza. – E perché dovremmo farlo? Sei solo una donna e non mi pare che il tuo amico laggiù abbia intenzione di aiutarti.
Chariza non si voltò neppure per vedere cosa stesse facendo il messaggero, che, in realtà, si stava lentamente allontanando per nascondersi dietro a qualche pietra di segnalazione lungo la strada. Lei sorrise beffardamente, accorciò le redini e le strinse nella mano destra.
– Bene, vorrà dire che mi occuperò io di voi!
I quattro uomini grugnirono infastiditi dal tono di scherno e di sfida di Chariza, e sfoderarono le spade in un unico sibilo metallico.
– Allora fatti sotto! – Spronarono i cavalli e si lanciarono verso di lei fissandola con odio crescente.
Chariza trattenne qualche istante il cavallo, poi, quando riuscì a vedere il bianco degli occhi dei suoi nemici, lo lanciò a sua volta contro di loro con l’intento di passare tra i due centrali. La mano sinistra scivolò rapida verso l’elsa della spada e le dita della donna si strinsero attorno a essa con decisione; la sfoderò un attimo prima che i cavalieri le fossero completamente a fianco e, disegnando un arco di fronte a sé, raggiunse prima quello alla sua sinistra, che si accorse di avere il ventre squartato appena prima di cadere nel fango ormai privo di vita, poi quello alla sua destra, trafiggendolo con la coda del fendente che lo separò in due metà esatte.
Chariza superò i due avversari rimasti e li fissò, assaporando l’incredulo terrore dipinto sui loro volti. – Allora? Tutto qui? Fatevi avanti!
Gli uomini lanciarono grida feroci, più per infondersi coraggio che per incutere paura nella donna, e la affrontarono nuovamente, ma Chariza li colpì entrambi prima che questi avessero la possibilità di far cadere le lame delle loro spade su di lei.
– In nome degli Dèi! – esplose il messaggero, che era uscito dal suo nascondiglio e si stava avvicinando alla scena del massacro, meravigliato e rassicurato dall’abilità di Chariza con la spada, ma anche profondamente intimorito, oltre che disgustato dallo spettacolo orrendo che i corpi mutilati dei cavalieri offrivano.
Chariza fece trottare il cavallo attorno a loro, poi scese vicino al corpo di quello che l’aveva sfidata per primo e si inginocchiò, allungò una mano e la infilò sotto la camicia frugando tra le pieghe.
– Che state facendo? – chiese il messaggero, sempre più disgustato.
– Cerco i soldi! – ammise Chariza con assoluto candore. – E degli indizi. Qualcuno li ha mandati. Non sono certo cavalieri Ryokin, anche se indossano vesti nere. E io voglio scoprire di quale colore era il loro cuore. – Sfilò da una tasca dell’uomo un sacchetto, lo aprì e vide che era colmo di monete d’argento, ma non trovò nessun segno del mandante. – Mmm. – Si alzò e prese una moneta. – È una comunissima moneta imperiale – commentò sollevandola sopra il suo viso, mentre la pioggia continuava a scivolarle addosso.
– Certo! – sbottò il messaggero. – Quanti tipi di monete credete che esistano?
Chariza ripose la moneta nella borsa, che si legò alla cintura, e sorrise in modo accondiscendente al messaggero. – Più di quanti immagini, ti assicuro, più di quanti immagini. Ora andiamo! – ordinò infine, rimontando in sella.
La donna riprese la sua folle corsa verso la capitale, ma questa volta, oltre alla ruga di preoccupazione che le attraversava la fronte, le sue labbra disegnarono sul suo viso un’espressione di malcontento che il messaggero non sapeva se attribuire alla scarsità di denaro trovata addosso ai loro aggressori oppure al fatto che Chariza stesse cercando qualcosa che non aveva trovato.
La collina era rimasta avvolta dalla nebbia per tutta la mattina, ma Chariza non l’aveva mai persa di vista un attimo, ignorando la pioggia che le pizzicava il viso. Conosceva bene quella strada, poiché l’aveva percorsa un’infinità di volte da quando era tornata nello Si-hai-pai. Sapeva che dalla cima di quell’ultima altura avrebbe avvistato le mura di Hoh-ma, la Splendente, capitale dell’Impero, e che avrebbe lasciato le strade di terra battuta per prendere una delle cento vie lastricate che entravano in città.
Solo quando fu arrivata al culmine della collina ricoperta da pascoli, lieta che lassù la pioggia fosse meno fitta e più lieve, fermò il cavallo e aspettò che il messaggero la raggiungesse e si portasse al suo fianco.
– Siamo arrivati – disse indicando la pianura sotto di loro. – Laggiù, nascosta da questa foschia innaturale e da questa pioggia che sembra vapore, c’è Hoh-ma.
L’uomo si sforzò di vedere attraverso il muro di fumo bianco che scivolava dalle cime che circondavano la Valle del Chiaro di Luna, giù nel bacino, ma non riuscì a scorgere nulla.
– Riconoscerei Hoh-ma anche a occhi chiusi – mormorò Chariza, sorridendo per la prima volta da quando si erano messi in viaggio. – Sbrighiamoci! – disse. Avvolse il costato del cavallo con i polpacci, questa volta con maggior leggerezza, e lo spinse al galoppo.
Il messaggero non aveva mai percorso tanto rapidamente la distanza che separava la regione di Birodo, dove sorgeva il feudo del nobile Kaoru in cui era riuscito a scovare Chariza, e la capitale, e aveva perso la cognizione del tempo a causa della marcia forzata imposta dalla donna. Non era quindi certo che l’intuizione della sua compagna di viaggio fosse esatta, tuttavia la stanchezza, la fatica e la fame erano troppo forti e, unite alla speranza di scendere dalla sella per stendersi in un letto caldo e morbido, lo costrinsero a fidarsi una volta di più di Chariza.
La seguì lungo il fianco della collina, sorridendo però solo quando le luci delle cento torri di Hoh-ma apparvero come spettri nella foschia; finalmente anche il messaggero prese un profondo, soddisfatto respiro quando vide le alte mura che gli erano parse fino a poco prima così vicine e così irraggiungibili, con i loro fuochi di segnalazione, le guarnigioni calde, i magazzini pieni.
Chariza però fermò il cavallo sul ciglio della strada e smontando avanzò tra l’erba bagnata. Il messaggero sbuffò e la seguì con lo sguardo, domandandosi che cosa avesse ancora in mente quella donna. Lei si inginocchiò scomparendo tra i giunchi e l’uomo dovette alzarsi sulle staffe per notare il cadavere sul quale era china. Il viso era riverso nel fango e Chariza fu costretta a voltare il corpo per esaminare la sua uniforme. Il drago dorato che si intravide tra le macchie di sangue, terra ed erba non lasciò dubbi alla guerriera.
Chariza staccò dalla cintura del soldato un tubo di bambù chiuso con la ceralacca e, rialzandosi, ruppe il sigillo facendo poi scivolare nella mano destra la lettera che, come aveva immaginato, era indirizzata a lei e scritta con la stessa elegante calligrafia corsiva del messaggio che la stava riportando a Hoh-ma.
– Signora… che cosa è successo? – chiese il messaggero, esortandola a sbrigarsi, sentendosi poco sicuro così esposto lungo la strada. – La città è vicina.
Chariza annuì, nascose la lettera all’interno della manica della giacca e si diresse verso la porta scura che si intravedeva, come le fauci di un enorme demone, oltre la pioggia che non accennava a diminuire di intensità.
Le guardie si pararono di fronte a loro, ma si scostarono immediatamente quando lo stendardo imperiale, che il messaggero aveva portato sulle spalle per tutta la durata del viaggio, uscì dall’ombra del grande arco di pietra. Chariza chinò il capo in segno di saluto e i due uomini, in armatura nera, risposero con un profondo inchino; per quel che ne sapevano, lei poteva essere il giovane rampollo di una nobile famiglia. Non a tutti, infatti, era consentito viaggiare mostrando il simbolo del casato Ryokin.
La lunga e ampia via principale si apriva ora di fronte a lei e al suo compagno di viaggio. Al termine di essa si potevano già scorgere le Mura Celesti, l’imponente cerchia entro la quale si trovavano il Palazzo Imperiale e le ville dei nobili. Chariza si guardò attorno in cerca di eventuali spie o mercenari pronti ad attaccarli, e tirò un sospiro di sollievo quando fu assolutamente certa che il benvenuto ricevuto lungo la strada sarebbe stato l’unico, almeno per quel giorno.
Avanzando tra le vie Chariza cercava di mantenere un’andatura spedita, benché non potesse più lanciarsi al galoppo verso la sua destinazione, e il messaggero le stava dietro domandandosi con una certa inquietudine dove la guerriera lo avrebbe condotto. Le strade, normalmente affollate di persone, sulle quali si affacciavano numerosi negozi che vendevano i prodotti provenienti da ogni parte dell’Impero, erano deserte e le insegne colorate delle botteghe erano state ritirate, così la città appariva triste e spenta, priva di quegli odori intensi e di suoni vivaci che la caratterizzavano. Solo raramente qualcuno, annoiato dalla lunga permanenza tra le mura domestiche, si affacciava alle finestre e alle porte, incuriosito dal passaggio della bizzarra coppia di viandanti che spezzava la monotonia di quelle giornate grigie e che avrebbe dato di che discutere per almeno un paio giorni.
Chariza lanciò loro qualche divertito sguardo con la coda dell’occhio, ma evitò di passarci davanti troppo lentamente.
“Così potranno crogiolarsi in ipotesi assurde!” pensò, mentre osservava una bimba che la scrutava con occhi sognanti e impauriti, come se avesse visto una donna-serpente, demone della pioggia.
Voltandosi verso il suo compagno di viaggio gli fece cenno di seguirla e lo guidò attraverso l’intrigo di ampie strade e vicoli, in zone della città in cui non era mai stato e che neppure immaginava esistessero, fiancheggiando case e templi, botteghe e ristoranti, locande e baracche, finché il messaggero non si accorse di trovarsi sotto le Mura Celesti, da cui spuntavano i tetti a pagoda, di tegole rosse, legno scuro e decorazioni dorate, delle ville dei nobili e dei ricchi signori dell’Impero. Ma Chariza non alzò neppure lo sguardo e continuò ad avanzare costeggiando quelle splendide mura, dirigendosi verso una porta di legno dipinta di rosso sulla cui sommità erano stati intagliati due draghi stretti in un appassionato abbraccio.
Il messaggero, stupefatto, provò più volte a protestare. – Ti prego… signora… aspetta – la implorò tentando di affiancarla. Quello era l’ingresso del quartiere dei piaceri, lui non vi era mai entrato e non desiderava farlo ora, per seguire una donna dal carattere brusco e dai modi sgarbati.
– Taci! – ordinò Chariza, confermando l’opinione che l’uomo aveva di lei, e proseguendo senza neppure voltarsi a controllare se la stesse ancora seguendo o se, alla fine, l’avesse abbandonata.
Lui però era ancora lì; deglutì e fissò gli occhi sgranati dei due draghi. “Santo cielo, sono un uomo” pensò, mentre il suo cavallo superava i piloni della porta. “Un uomo rispettabile, ma, per gli Dèi, pur sempre un uomo. Se entra lei e con tanta disinvoltura, perché io non dovrei seguirla?”
Il messaggero fissava incredulo le facciate, intonacate di un bianco abbagliante nel luccichio della pioggia, delle case a due piani, nascondendo la testa tra le spalle a ogni improvviso scoppio di risa che da esse proveniva. Vedeva le sagome delle donne che si muovevano dietro quelle finestre, come libellule nere che danzavano al suono soffocato di flauti e chitarre a cinque corde, ne udiva il canto melodioso e ne immaginava i profumi delicati. Rosso in volto a causa dei pensieri che attanagliavano la sua mente, e i suoi lombi, era talmente impegnato a celarsi nel suo mantello che non si accorse di aver superato Chariza, finché lei non lo chiamò facendolo arrossire ancora di più per l’imbarazzo.
Chariza si era fermata di fronte alla locanda Kankaku e aveva alzato lo sguardo verso la figura ammiccante dell’insegna, sorridendo mentre abbassava leggermente il capo come in segno di saluto.
– Non vorrete entrare qui, signora? – chiese indignato il messaggero, che fissava con falso disgusto l’insegna, mentre Chariza, che era scesa da cavallo, stava spostando la tenda color amaranto dell’ingresso.
Lei si fermò e si voltò verso di lui sforzandosi di metterlo a tacere definitivamente con l’espressione infastidita dipinta sul suo volto, anche se la mano destra stava già accarezzando l’elsa della spada.
– Ho detto “taci”! – gli ricordò, tornando a scrutare l’ingresso scuro della locanda.
All’interno numerosi uomini di tutte le età e condizioni sociali si intrattenevano bevendo liquori e tè, discutendo tra loro e con le affascinanti fragili ragazze che, come farfalle colorate, volteggiavano nelle stanze dispensando sorrisi, cantando, recitando poesie e danzando, lasciando scie di delicati profumi floreali.
Chariza assaporò quell’odore misto di riso bollito ed essenza di calendula che caratterizzava la locanda Kankaku, e cercò con lo sguardo la vecchia proprietaria o qualcuna delle kiniru che aveva conosciuto nella sua ultima visita alla capitale, ricordando con affetto il periodo in cui aveva vissuto presso di loro. Avanzò tra i bassi tavoli attorno ai quali erano seduti i clienti, trascinandosi dietro il messaggero che, con le guance arrossate, fissava le ragazze che lo provocavano lanciandogli baci, ammiccando, sorridendo e spostando le vesti di seta per mostrare la nuca e le spalle dalla pelle bianca e delicata.
– Benedetti siano gli Dèi! – La voce dell’anziana donna colpì Chariza alle spalle e la fece voltare tanto rapidamente che urtò il messaggero, mandandolo a cadere tra le braccia di due esperte kiniru, che cominciarono a lasciargli i segni di appassionati baci sul viso e sul collo mentre lui si dimenava per liberarsi e invocava l’aiuto di Chariza, che si era dimenticata di lui.
– Sei tornata giusto in tempo, figlia mia! – la accolse la vecchia Oku[ii], abbracciandola come se fosse stata davvero una figlia, e invitandola con un gesto della veste di seta a seguirla nei più tranquilli appartamenti privati oltre la parete di carta sul fondo della stanza principale della locanda.
Chariza però non poteva aspettare e, non appena furono fuori dalla portata degli orecchi dei clienti, strinse il braccio dell’anziana donna imponendole di fermarsi.
– Non ho tempo – le disse fissandola con sguardo implorante.
– È davvero così grave? – chiese la donna liberandosi dalla presa. – Non avrei mai pensato di vedere l’impassibile Chariza alle prese con l’impazienza! – la canzonò poi, cercando di alleggerire la tensione che sentiva scorrere in tutte le membra della giovane amica. – Non sarai stata colpita da una nuova maledizione?
Chariza si sforzò di rispondere allo scherzo con un sorriso, ma non smise di dirigersi verso una porta in fondo a uno scuro corridoio.
– Io no di certo, ma pare che lui… – Si fermò mordendosi il labbro. – Forse tutto lo Si-hai-pai è stato colpito da una maledizione!
La vecchia donna sospirò, sfilò dall’ampia manica un mazzo di chiavi e cominciò ad aprire i numerosi lucchetti che chiudevano la porta che le kiniru usavano per raggiungere la residenza imperiale quando dovevano andare a servire i nobili.
– Non vorrai presentarti così? – chiese poi, accarezzandole i capelli gocciolanti che cadevano scomposti sulle spalle.
– Ti prego… – sbottò Chariza aggrottando la fronte. – Non è il momento.
La vecchia si sfilò un bastoncino di legno dalla crocchia in cui teneva legati i lunghi capelli argentati e lo avvolse attorno a quelli di Chariza, sistemandole l’acconciatura come meglio poté.
– Fai attenzione – le disse la Oku, aprendo la porta e guardandola con affetto. – Se le cose dovessero andare per il peggio nessuno di noi sarebbe più al sicuro all’interno delle Mura Celesti!
– Lo so – disse Chariza. – Ma lui ha bisogno del mio aiuto… ancora una volta.
Detto questo scomparve nell’oscurità del passaggio che conduceva dalla locanda Kankaku alle stanze private dell’Imperatore. Mentre camminava, Chariza affondò la mano in una tasca della giacca e trovò un foglietto di carta spiegazzato: il messaggio che l’aveva posta nuovamente in viaggio. Chariza lo strinse come se fosse un tesoro e si domandò cosa avrebbe trovato alla fine di quel lungo corridoio.
I ricordi andarono al giorno in cui aveva ricevuto quella breve lettera e la sua vista si offuscò: l’immagine del castello del nobile Kaoru riapparve, inondata dalla luce del caldo sole di quei giorni.
Castello del nobile Kaoru, prefettura di Birodo; seconda settimana del terzo mese dell’ottavo anno di regno dell’Imperatore Yoshio Ryokin.
Chariza attraversò il grande arco di pietra che segnava l’ingresso nel primo cortile, lasciando gli ombrosi e ripidi sentieri del giardino interno della residenza privata del nobile Kaoru, presso cui prestava servizio da qualche settimana poiché egli, come molti signori di provincia, temeva per la sua vita e le sue ricchezze.
Il sole stava ormai tramontando e Chariza dovette pararsi gli occhi con la manica della giacca di seta blu, che indossava sopra degli ampi pantaloni a gonna e a una camicia, per poter scorgere i soldati seduti nella veranda che si affacciava sui lati corti del cortile e dalla quale si accedeva agli appartamenti della guarnigione. Appena gli uomini si accorsero di lei smisero di svolgere qualsiasi attività, di lucidare le spade, di pulire gli stivali, di affilare le lance, di cucire le uniformi, e si voltarono a fissarla incuriositi. Lei, algida come sempre, li osservò inespressiva cercando di cogliere nell’ombra della sera qualche viso conosciuto, poi li salutò con un leggero cenno del capo e attraversò l’ampio spazio in terra battuta, dove alcuni soldati si stavano allenando nella scherma, avvicinandosi alle torri che fiancheggiavano il portone d’accesso. Entrò senza che le guardie, accaldate dalle pesanti armature che erano costrette a indossare, provassero a fermarla e salì sui bastioni delle mura esterne.
Da quel punto d’osservazione privilegiato poteva godere di tutta la bellezza della vallata sottostante l’altura su cui il castello del nobile Kaoru era stato costruito. Le colline che circondavano la valle erano ricoperte da boschi di pini e cedri, nella parte più alta, e di castagni e bambù dove i fianchi scendevano dolci verso la pianura, nella quale si potevano scorgere, nell’intrigo di strade rialzate, canali d’irrigazione, campi e alcuni piccoli villaggi di contadini. Il sole a occidente aveva i contorni sfumati per la foschia serale che già iniziava ad alzarsi, ma splendeva di un intenso color arancio mentre si nascondeva lentamente dietro le colline. Chariza osservandolo pensò che nel punto in cui le due alture si incrociavano passava una strada che conduceva alla capitale dell’Impero.
Tutta la vallata era stata inondata da una marea dorata che riportava alla memoria della giovane donna lo sfarzo e la ricchezza dei palazzi di Hoh-ma e degli abiti dei nobili residenti nelle Mura Celesti, ma, più d’ogni altra cosa, i colori del tramonto le facevano tornare alla mente l’immagine del Drago d’Oro.
Il vento soffiò dalla pianura, agitando le chiome dei pini e portando fin sui bastioni il profumo di resina e di qualche susino che cominciava a fiorire. Chariza chiuse gli occhi scuri e prese un profondo respiro, lasciando che la sua immaginazione ricreasse la scena di un uomo avvolto da un’ampia veste di seta nera bordata d’oro che, solo, sedeva in una veranda sorseggiando tè profumato al gelsomino e ammirava i boccioli di ciliegio agitati dalla brezza di primavera.
Quando finalmente si fu decisa a lasciare andare quel fugace ricordo e ad aprire gli occhi, la notte aveva già fatto la sua comparsa e le prime stelle brillavano trepidanti in cielo. Chariza fu percorsa da un brivido, si strinse nella giacca e si diresse verso le scale per tornare alla residenza. Una folata gelida proveniente da nord la colpì in viso e fece sciogliere la crocchia con cui aveva tenuto fermi sopra la nuca i lunghi capelli neri. Chariza si voltò verso il vento con aria di sfida, poiché qualcosa dentro di lei l’aveva fatta sussultare: avvertiva una sensazione di disagio che non sapeva spiegarsi, e assumendo la sua consueta espressione severa e contrariata scrutò il cielo sopra le cime dei monti a nord, dove ammassi di nuvole temporalesche cominciavano ad addensarsi.
Qualche giorno più tardi il nobile Kaoru la congedò prima del consueto e lei ne approfittò per tornare ad ammirare il paesaggio. Stava passeggiando sui bastioni delle mura quando la sua attenzione fu attirata da una nuvola di polvere che avanzava lungo la strada in salita che portava al castello.
Chariza si era sentita turbata non appena l’aveva avvistata. Stringendo i pugni sulle pietre cui si era appoggiata, senza accorgersi che le mani erano diventate fredde e sudate, mentre in volto si sentiva avvampare, si sporse per osservare meglio chi si stava avvicinando con tanta rapidità al castello, e vide un uomo vestito completamente di nero che avanzava al galoppo sfrenato portando sulla schiena una bandiera rettangolare, anch’essa nera, su cui era dipinto un drago dorato che sembrava aver preso vita tanto era agitato dalle sferzate d’aria che colpivano lo stendardo.
Una goccia di sudore scese lungo la tempia della donna.
– Ryokin – sussurrò mentre osservava, immobile e vinta da una viva apprensione cui non osava dare il nome di paura, il messaggero che fermava il cavallo tirando violentemente le redini e si apprestava a urlare le sue credenziali alle guardie del portone, che presto si aprì nel frastuono degli argani di metallo.
“Ho una gran brutta sensazione” pensò, alzando gli occhi verso il cielo che cominciava a farsi grigio. – Se ha mandato un messaggero imperiale significa che non ha nulla di buono da comunicarmi – disse tra sé, osservando un ammasso di gonfie nuvole scure che si erano radunate sopra i monti e che minacciavano di scendere nella valle da un momento all’altro.
Il messaggero era stato accolto dai soldati della guarnigione, che gli stavano chiedendo insistentemente notizie della capitale mentre offrivano acqua e cibo per lui e per la giumenta baia su cui era arrivato, che era così esausta e mal ridotta che due stallieri le avevano dovuto immediatamente portare del fieno e la stavano già strigliando per ripulirla dal sudore e dalla fanghiglia di cui era coperta.
Appena Chariza fu giunta nel cortile, il messaggero si voltò a osservarla con sguardo indagatore e lei restituì quell’occhiata celando così la sua preoccupazione. L’uomo era coperto di polvere da capo a piedi, la treccia in cui aveva legato i capelli all’inizio del viaggio si era sciolta nell’impeto della cavalcata, il viso era scavato, gli occhi lucidi per la stanchezza. Non aveva un aspetto dignitoso, ma Chariza non aveva dubbi sulla sua identità e provenienza: era un messaggero appartenente ai cavalieri Ryokin, la guardia dell’Imperatore, e veniva senz’altro dalla capitale.
– Siete Chariza? – chiese l’uomo, avvicinandosi timoroso di alzare lo sguardo sulla donna che lo stava ancora esaminando. – Siete Chariza del monte Tōmei? – disse sforzandosi questa volta di incontrare gli occhi neri di lei.
– Sì, sono io – si limitò a rispondere Chariza, convinta che una parola di più avrebbe tradito la tensione che la attraversava, facendole tremare la voce.
– Ho un messaggio per voi. – L’uomo si rilassò per la gioia di aver trovato il destinatario della missiva e sorrise a Chariza, ma nel suo sguardo la donna leggeva l’ansia che doveva essere provocata dal contenuto del messaggio. – Ecco… L’Imperatore ha bisogno di voi a Hoh-ma. Ordina che rientriate subito a corte.
Chariza si ritrasse sconcertata. – L’Imperatore ordina? A me? – chiese sorridendo in modo beffardo di quelle affermazioni inverosimili. Lei sapeva perfettamente che Ryokin avrebbe tutt’al più chiesto, ma mai ordinato, a lei di fare qualcosa, ma era cosciente del fatto che per un cavaliere Ryokin ogni parola proferita dall’Imperatore non poteva essere altro che un ordine.
– Sì, signora – si limitò a rispondere il messaggero, che aggrottò la fronte contrariato dalla poca serietà con cui Chariza aveva accolto l’ordine del sovrano e sforzandosi di osservarla meglio per tentare di capire perché la donna fosse tanto sorpresa, anche se in realtà stava ancora cercando di determinare perché, con tutti i soldati e i guerrieri dello Si-hai-pai, l’Imperatore lo avesse mandato in giro per metà dei territori dell’Impero a cercare quella donna armata di spada e che a lui non pareva neppure molto attraente.
Chariza notò lo scontento del messaggero alla sua reazione e tornò seria. – Così l’Imperatore vuole che torni a Hoh-ma. Avrà sicuramente i suoi buoni motivi, ma lui sa bene che io non rispondo agli ordini di nessun Drago, quindi dovrà sforzarsi un po’ di più se vuole convincermi a lasciare un lavoro per il quale sono molto ben pagata.
– Lo aveva previsto – disse il messaggero. – Mi ha consegnato questa. – Sfilò dalla tasca interna della giacca un rotolo sigillato con della ceralacca su cui brillava il drago rampante.
Chariza perse immediatamente l’espressione ironica, che ancora le faceva brillare gli occhi di una furbizia volpina, e con la quale aveva stuzzicato il messaggero. Gli strappò il rotolo dalle mani senza più preoccuparsi di mostrare a tutti gli uomini della guarnigione che quella lettera dell’Imperatore turbava l’impassibile compostezza del suo animo.
– Dice che è urgente – aggiunse il messaggero, mentre Chariza si voltava dandogli le spalle per evitare di esporre ulteriormente agli sguardi curiosi dei presenti l’inquietudine che si era impadronita di lei e che sapeva trasparire dal suo viso pallido.
Il cielo divenne scuro con una rapidità quasi innaturale, le nuvole grigio-violacee coprirono il sole e la pioggia cominciò a scendere leggera e fitta. Una goccia cadde sulla guancia di Chariza e lei si accarezzò il volto per asciugarsi mentre scorreva le frasi scritte con una calligrafia corsiva, elegante e delicata.
Quando ebbe finito di leggere le poche righe che componevano la lettera, Chariza si voltò, di nuovo padrona di se stessa, fissando con severità il messaggero. – Se è così urgente partiamo immediatamente! – disse, stropicciando la lettera che stringeva nella mano. Si voltò verso gli uomini della guarnigione del castello e sospirò notando i loro sguardi sconsolati, quasi afflitti. – Ma insomma! Siete soldati o concubine? Che vi prende? Cosa sono quei musi lunghi? Invece di star lì a fissarmi come se mi vedeste per la prima volta, portatemi carta, pennello e un panetto di inchiostro. Non posso certo abbandonare il nobile Kaoru senza una parola. E voi tre… – gridò diretta a dei ragazzini che avevano da poco terminato l’addestramento ed erano stati mandati al castello per il tirocinio come guardie. – Andate a prepararmi un cavallo! Il più veloce che abbiamo. E delle provviste. – Poi Chariza si ricordò del messaggero e, nuovamente, ma con maggior interesse, ne valutò l’aspetto. – Portate anche una cavalcatura per il nostro amico, quella povera bestia con cui è arrivato morirebbe lungo la strada se non la lasciassimo riposare.
Un giovane soldato le porse gli strumenti necessari per scrivere, inchinandosi rispettosamente, ma Chariza, che era riuscita a intravedere il suo viso prima che egli lo nascondesse, capì che quello era solo un misero tentativo per evitare che lei vedesse le lacrime che inumidivano i suoi occhi.
– Grazie – sussurrò la donna, prendendo gli strumenti dalle mani del giovane. Poi diede ancora uno sguardo al primo cortile del castello del nobile Kaoru e ai soldati che, pur cercando di rimanere concentrati nelle loro faccende quotidiane, non smettevano di fissarla. Lei si ritrovò invece a valutare quanto fosse ben protetta la residenza del nobile Kaoru, sia per la sua ottima posizione rialzata, sia per le sue solide mura, sia per la presenza di coraggiosi e onesti soldati.
“Andrà tutto bene, qui. Se la caveranno anche senza di me” pensò, dirigendosi verso i suoi alloggi per scrivere la lettera di congedo. “E poi tra qualche mese molti di loro torneranno a Hoh-ma e allora potremmo anche rincontrarci. Questi sciocchi soldati… Anche se questo è uno dei luoghi dove ho trascorso più tempo da quando sono tornata nello Si-hai-pai, non capisco perché dovrei soffrire a lasciarlo… Sarà che mi dispiace perdere la paga di questa settimana…”
Un paio d’ore più tardi due cavalli perfettamente equipaggiati per un lungo viaggio attendevano i cavalieri al centro del cortile. Chariza montò in sella, sistemò la sua spada Kageboshi in modo che non la infastidisse durante la cavalcata e ordinò ai soldati di aprire il portone. Davanti a lei si apriva la vastità delle colline e delle vallate che separavano la regione di Birodo dalla Valle del Chiaro di Luna; tutto sembrava avvolto da un incantesimo, poiché la pioggia faceva brillare i germogli che riempivano i rami delle betulle, dei noccioli e delle querce che crescevano poco al di sotto dei pini secolari che circondavano le mura del castello. La strada che conduceva alla capitale si perdeva tra le colline e spesso scompariva alla vista a causa della nebbia che saliva dal terreno ormai umido.
Chariza colpì il costato del cavallo che immediatamente si lanciò al galoppo giù dalla collina, lungo il sentiero che ne seguiva le morbide, ondulate forme. Così lasciò il castello e si mise nuovamente in viaggio per raggiungere la capitale, per raggiungere l’Imperatore, che era stato il suo miglior datore di lavoro, ma soprattutto per trovare una risposta ai dubbi che quella lettera aveva suscitato in lei.
Ora, mentre attraversava il passaggio delle kiniru, quei dubbi che l’avevano tormentata stavano per trovare una risposta, perché l’aria si faceva più secca e fresca e un delicato profumo cominciava a pizzicarle le narici. La fine del corridoio era vicina, poteva già vedere la debole luce attorno ai cardini della porta dalla quale sarebbe uscita. Esitò. Gettò il mantello di paglia e prese un profondo respiro.
– Lui mi sta aspettando – si disse, appoggiando la mano all’elsa della spada per infondersi coraggio.
Non appena Chariza ebbe aperto la porta facendo scorrere il pannello di legno, un fresco profumo di incenso la avvolse e lei si sentì accapponare la pelle sotto la forza dei ricordi.
“Non è il momento di essere sentimentali!” pensò, ordinando al suo corpo di rimanere calmo e impassibile.
Le donne che si occupavano degli appartamenti reali nell’ala occidentale del palazzo non erano ancora passate a bloccare con le assi di legno le pareti di quelle stanze, la fioca luce entrava quindi filtrata dalla carta bianca dei pannelli chiusi, mentre alcuni erano stati lasciati aperti in corrispondenza della veranda che congiungeva quell’ala del palazzo a un’altra dove si trovavano le residenze provvisorie dei consiglieri. Chariza si guardò attorno sorpresa dal fatto che nessuna guardia stesse facendo la ronda in quella zona della residenza imperiale, ma il suo istinto le suggeriva che anche quell’accortezza doveva essere stata studiata appositamente per favorire il suo passaggio.
Spostò un pannello e percorse un corridoio stretto tra le pareti di carta e illuminato solo dalla luce delle lampade a olio accese all’interno delle stanze. Arrivò così di fronte a una porta di legno massiccio cui erano di guardia due cavalieri Ryokin. Chariza appoggiò entrambe le mani sulla pesante porta della camera imperiale e la spinse con tutta la forza che le rimaneva finché non riuscì a spalancarla, incurante delle lamentele e delle suppliche che le guardie le rivolgevano amichevolmente tentando di fermarla.
Tutte le persone che si trovavano all’interno si voltarono sconcertate per l’inaspettata intrusione e la guardarono per qualche istante senza riconoscerla, pronte a gridare per chiamare i soldati. I medici di corte si ritrassero spaventati dietro una delle tende del baldacchino, mentre i dignitari cercarono nella stanza il luogo in cui avevano deposto le armi per poter essere pronti a impugnarle; i generali invece strinsero immediatamente le elaborate else delle loro spade cominciando a sfilarle dai foderi.
Chariza non aveva un aspetto molto rassicurante. Il suo mantello gocciolava copiosamente sul pavimento di legno, gli stivali infangati avevano lasciato impronte lungo tutto il suo tragitto, ciocche di capelli umidi le cadevano sulla fronte nascondendola in parte, l’espressione tesa del suo viso era resa ancor più inquietante dal pallore delle guance e dalla luce vitrea degli occhi scuri. Chiunque l’avrebbe creduta un demone, venuto magari per cibarsi dell’anima dell’uomo disteso al centro dell’imponente letto a baldacchino.
Lei alzò il volto fissando quel poco che si poteva riconoscere di lui, avvolto com’era dalle numerose coperte, si slacciò il mantello lasciandolo cadere a terra e si ripulì il viso con una manica della camicia per rendersi più presentabile.
Il suo sguardo freddo e indecifrabile indusse tutti ad allontanarsi, tra inchini e borbottii, abbassarono il capo per nascondere i loro volti avviliti e privi di speranza. Chariza non badò a nessuno di coloro che erano nella stanza, come se non fossero neppure presenti, poiché la sua attenzione era tutta concentrata sul malato. Si sedette in un angolo del letto accanto a lui e allungò una mano verso quella dell’uomo che vi era steso, stringendola e sentendo con orrore che era gelida. Cercò solo allora una rassicurazione nei volti dei presenti, ma nessuno di loro osò ricambiare il suo sguardo. Poi avvertì un movimento impercettibile e tornò a fissare il viso del sovrano scavato dalla malattia.
– Yoshio – lo chiamò sottovoce, sorpresa lei stessa di aver osato chiamare l’Imperatore per nome.
Lui volse il capo verso di lei e aprì gli occhi sbattendo le palpebre, come se stesse cercando di mettere a fuoco la vista. – Chariza? – chiese con un filo di voce, volendo accertarsi di non essere in preda a una qualche allucinazione.
– Sì, Heika, sono io, sono proprio qui – rispose lei, sforzandosi di rimanere seria e impassibile così come era sempre stata nei loro precedenti incontri. – Mi avete fatto chiamare e io sono venuta.
– Sì, come sempre – disse lui. – Che cosa vedono i miei occhi? Chariza, non sarai preoccupata per un Drago? – cercò poi di canzonarla per allentare la tensione che leggeva nella sua espressione.
L’Imperatore allungò la mano libera verso il viso di Chariza, ma un attacco di tosse interruppe la loro conversazione attirando l’attenzione dei medici e dei consiglieri.
– Lasciatemi in pace! – ordinò il sovrano. – Volete farmi morire prima del tempo?
All’udire quelle parole Chariza fu attraversata da un brivido. “Allora sta morendo?” si chiese.
Osservò l’uomo che cercava di agitarsi per allontanare i medici, il suo viso aveva assunto quel colorito giallastro tipico delle persone che non vivono all’aria aperta e le guance piene erano ora scavate, gli occhi scuri e un tempo penetranti erano lucidi e velati, pesanti borse e occhiaie ne segnavano il contorno, le mani erano secche e rugose. Quell’uomo malato, invecchiato anzitempo, non poteva essere l’Imperatore che lei ricordava, non poteva essere il giovane che sfidava la sua pazienza facendo leva sul suo insano amore per i soldi, per poi affidarle qualche incarico assurdo e rischioso. Non si erano incontrati che in quelle occasioni, riunioni d’affari per lo più, ma lei una volta gli aveva salvato la vita e da allora tra loro era nato un bizzarro legame di rispetto reciproco. Tanto bizzarro in quanto lei era una ladra, un’assassina, una mercenaria che vendeva la sua abilità con la spada al miglior offerente oltre che, secondo il punto di vista di alcuni, una traditrice dell’ordine a cui era appartenuta la sua vita prima che la maledizione dell’avidità la colpisse, mentre lui era la luce dello Si-hai-pai, il Drago d’Oro, l’Imperatore, il fulcro di quel vasto Stato sottoposto al rigido controllo dell’Alleanza.
Chariza si allontanò di qualche passo da lui, per permettere ai medici di avvicinarsi al paziente e per nascondere al sovrano il reale stato delle sue condizioni di salute che in quel momento avrebbe potuto leggere senza difficoltà sul suo viso.
Questa volta era arrivata tardi, non aveva potuto impedire ai nemici del Drago d’Oro di prendersi la loro vendetta su di lui, non era riuscita a salvare l’unico Drago che si era meritato la sua fiducia, l’unico che lei ritenesse degno di prendersi cura dello Si-hai-pai.
Chariza si sorprese di provare un dolore tanto acuto al petto. Non stava dando peso alla presenza degli ori, dei gioielli, delle sete e dei broccati, nulla di tutto ciò che avrebbe potuto risvegliare il suo demone riusciva a raggiungere il suo animo, tutto ciò a cui riusciva a pensare era l’Imperatore morente, circondato solo da medici e consiglieri.
Dopo tanti anni era riuscita a dominare al meglio gli istinti provocati dalla maledizione che l’affliggeva, ma in quel momento non era la sua ferrea volontà a prevalere sull’avidità, era una sincera preoccupazione, un dispiacere intenso, un’ansia crescente. Si era affezionata a quell’uomo che la trattava come un suo pari anche quando le dava degli ordini, che non la faceva sentire colpevole quando le rimproverava qualche furto, e che la ricompensava lautamente quando portava a termine con successo una missione; quell’uomo che, lo sapeva, un tempo aveva avuto paura di lei e della sua furia, ma che presto non l’aveva sentita poi così lontana dal suo stesso risentimento contro chi lo aveva attaccato.
Alle spalle di Chariza la parete scorrevole che univa la camera dell’Imperatore a quella della moglie si aprì, e l’Imperatrice comparve attorniata da sei delle sue ancelle. Chariza si voltò a guardarla rimanendone affascinata. Anche se il suo aspetto non lo rivelava, era stata istruita dalle figlie del Drago Verde. La Signora del monte Heisei in persona l’aveva scelta come prima sposa dell’Imperatore, perché figlia di una nobile casata devota all’Alleanza. Si diceva che fosse così devota al Drago Verde da aver ricevuto da esso non solo una bellezza impareggiabile, ma anche un animo forte e generoso.
Chariza l’aveva incontrata solo in rare occasioni nelle sue precedenti visite al Palazzo, e non le era mai sembrata tanto splendida come in quel momento. Sembrava un fiore rosso di peonia circondato da delicati boccioli. Indossava una lunga veste cremisi con ampie maniche bordate d’oro e stretta in vita da un’alta fascia color zafferano; i capelli scuri erano raccolti sopra la nuca in un’elaborata acconciatura, dalla quale spuntavano bastoncini di legno su cui erano avvolti gli steli di fiori di loto bianchi; dalle orecchie piccole e perfette pendevano orecchini in oro e corallo, e il trucco, che sottolineava con pennellate nere la forma squisita degli occhi a mandorla e con altrettanta sapienza il cuore rosso delle labbra, faceva risaltare la delicatezza dei tratti del viso. Le sue dame parevano delle sue copie in piccolo e la scortavano agitando le sciarpe di seta dorata che pendevano dalle loro braccia in una coreografia armoniosa.
L’Imperatrice sfilò, con un rapido ed elegante gesto della mano, un ventaglio da una manica e lo agitò davanti al volto con movenze che sembravano quelle di una coccinella. Chinò appena il capo per salutare i presenti, che risposero piegando il busto e prostrandosi a terra a seconda del loro grado, e raggiunse Chariza a fianco del letto del sovrano.
Chariza la fissò incantata mentre le si avvicinava con piccoli passi che sembravano non sfiorare il pavimento, e pensò che dietro quei movimenti aggraziati come una danza dovesse esserci lo studio e l’allenamento di una vita, poiché conosceva le sofferenze delle donne che indossavano gli alti zoccoli di legno con i quali l’Imperatrice pareva invece essere perfettamente a suo agio.
– Chariza – la chiamò con un filo di voce, mentre faceva sparire nuovamente il ventaglio. – Ero sicura che saresti venuta. Sono felice che tu abbia ricevuto la mia lettera in tempo!
Chariza arrossì, confusa dalla gentilezza del tono di quella voce soave e dal profumo di cardamomo. – Vi… vi ringrazio, maestà – rispose, ricordandosi di inchinarsi. – Ho intuito che era vostra dalla calligrafia sottile.
– Suvvia, mia giovane amica, non credo che tra noi debbano esserci tutte queste formalità – replicò la donna sorridendo con affetto a Chariza, che era rimasta immobile a metà del suo inchino a fissarla sbigottita. – Tu hai salvato la mia vita e quella del mio sposo, credo questo basti ad abbattere ogni barriera tra noi.
– Sì, maestà – rispose Chariza. – Ma ora ditemi, vi prego, cosa è accaduto?
L’Imperatrice sospirò e si voltò a guardare il marito che, nel frattempo, si era calmato ed era rimasto a osservare con sguardo sognante l’incontro di quelle due donne tanto diverse nell’aspetto, ma forse non poi così lontane nel cuore. Lui annuì e sorrise a entrambe prima di accoccolarsi nelle lenzuola e abbandonarsi a un riposo ristoratore.
– È successo ormai due settimane fa – cominciò l’Imperatrice, invitando Chariza ad accomodarsi dietro un paravento con un ampio gesto della manica. – Non sappiamo né come sia accaduto né quando. In realtà è proprio questo il problema. – Mentre si sedeva a un basso tavolino di legno scuro l’espressione del suo viso divenne tesa e afflitta, come se il tormento per la sorte del marito stesse consumando anche lei. – Abbiamo trovato diversi veleni: nel cibo, nel tè, perfino nell’incenso che l’Imperatore usa nelle cerimonie per venerare gli antenati… Ah, erano talmente tanti e così diversi che gli Dèi soltanto sanno quale sia stato la causa della sua malattia!
Le ancelle volteggiarono attorno a Chariza e all’Imperatrice portando delle tazze e una teiera, e la sovrana le congedò in modo sbrigativo, incrociando con un sorriso lo sguardo di Chariza mentre si apprestava, inaspettatamente, a versare il tè per entrambe.
– Non mi fido più di nessuno, neppure delle mie fedeli dame! – le spiegò sorseggiando per prima il caldo liquido amaro. – Chariza, so che lui ti avrebbe fatto chiamare, ma non è sempre lucido come lo vedi oggi, quindi ho preferito anticiparlo. So per certo che ha una missione per te, ma ti prego, non discutere con lui, accetta qualsiasi cosa ti chieda di fare! – La sovrana guardava Chariza con occhi colmi di un’implorante preghiera, e la ragazza fu costretta ad abbassare il capo di fronte a quello sguardo così inusuale per un’Imperatrice.
– Maestà, io non credo che voi abbiate bisogno di rivolgervi così a me – provò a rispondere, ancora vinta da un profondo imbarazzo. – Ho sempre accettato gli incarichi dell’Imperatore e non vedo perché in questo caso dovrebbe essere diverso.
L’Imperatrice appoggiò la tazza di tè che stava sorseggiando e scrutò la profondità degli occhi di Chariza. – Sai, è strano… non hai ancora parlato del compenso. Hai imparato bene a dominare la tua maledizione.
Chariza si ritrasse, leggermente offesa da quell’accenno alla sventura che l’aveva colpita. – No, maestà, non così bene. Solo che in quest’occasione credo di poter dominare il mio demone dirigendo altrove i suoi interessi. Nel vostro palazzo ci sono così tanti oggetti preziosi che non sarà difficile dimenticarsi per un po’ del compenso per una missione, solo spero che non ve la prenderete se scomparirà qualcosa di gran valore!
Chariza si sforzava di scherzare, ma dentro di lei sentiva riprendere ad agitarsi l’avidità che la spingeva a desiderare ogni soprammobile, ogni stoffa, ogni gioiello, ogni cosa rara e preziosa che le si parava di fronte in quegli appartamenti principeschi.
L’Imperatrice sorrise per la battuta della donna e fece un cenno di assenso. Il brontolio delle lamentele dell’Imperatore giunse fin dietro il paravento con cui si erano appartate, e la sovrana si illuminò ancor più esibendo un sorriso gioioso e alzandosi con un unico fluido movimento per dirigersi al fianco del marito. Chariza la seguì, sospirando sollevata di aver terminato quel colloquio.
– I medici non sanno come curarmi – disse l’Imperatore. – Tutti i veleni che hanno trovato erano abbastanza simili, quindi hanno usato un po’ quella cura e un po’ quell’altra, così mi hanno tenuto in vita fino a oggi.
Si sforzò di sorridere, ma nei suoi occhi Chariza vedeva la paura della morte, e sapeva che non era dovuta all’idea stessa di lasciare il mondo dei viventi, ma alla preoccupazione per la sorte dell’Impero che non aveva ancora un Erede e che sarebbe stato dilaniato dalle guerre feudali.
– Ma… non avete chiamato le monache del monte Heisei? – si azzardò a chiedere Chariza, infastidita dal fatto che dei membri dell’Alleanza potessero essere l’ultima speranza per l’Imperatore. – Il Drago Verde dovrebbe conoscere ogni sorta di rimedio.
– Lo abbiamo chiamato – rispose l’Imperatrice. – Dovrebbe arrivare a Hoh-ma oggi o domani al più tardi.
Chariza annuì e lanciò un’occhiata severa all’Imperatore. – Bene, Heika, per quale motivo mi avete convocata alla capitale? Devo mettermi sulle tracce dell’esecutore del vostro avvelenamento? Oppure desiderate che scopra chi è il mandante?
L’Imperatore si limitò a scuotere il capo; fu la sovrana a rispondere a Chariza. – È passato troppo tempo, il sicario avrà già lasciato la città, e per quel che riguarda il mandante, sai bene che difficilmente i membri corrotti dell’Alleanza lasciano tracce dietro di loro. Se è stato un Drago a ordinare l’assassinio dell’Imperatore non scopriremo mai di quale colore era la sua livrea.
Chariza la fissò. – Ma allora? Cosa…
– Il tuo incarico sarà molto più lungo e delicato – la informò l’Imperatore. – Io non so ancora se sopravvivrò, ma so che dalla salvezza della mia stirpe, più che da quella della mia persona, dipende il futuro del regno. Dovrà esserci sempre un Drago d’Oro sul trono dello Si-hai-pai, dovrà esserci sempre un Ryokin a mantenere l’equilibrio nell’Alleanza, e non importa se non sarò io, ma… mio figlio. Dovrai proteggere l’Imperatrice e l’Erede che è in lei. E quando il Principe sarà nato, desidero che tu diventi la sua guardia del corpo personale. Niente lamentele! – la anticipò il sovrano, che aveva notato l’espressione di scontento che si era lentamente dipinta sul volto di Chariza. – Non ho nessun altro a cui affidare un incarico tanto delicato. Inoltre tu sei stata cresciuta sui Monti Sacri, hai vissuto nei templi, conosci le regole dell’Alleanza, l’addestramento dei loro guerrieri. Potresti istruire il Principe affinché sappia contrastare eventuali nuovi attentati alla dinastia Ryokin.
– Ma, Heika, anche voi siete stato cresciuto dai Maestri! – protestò Chariza. – Cosa potrei insegnare io a un Principe, che i Draghi non faranno già durante l’apprendistato?
L’Imperatore sorrise beffardamente. – A non fidarsi dei Draghi – rispose, sollevandosi a sedere. – Io sono stato cresciuto dai Draghi e mi sono fidato di loro finché tu non mi hai portato le prove che uno di essi era mio nemico. Io non sono stato tradito dai Draghi profondamente come lo sei stata tu. Insegnerai all’Erede ciò che io ho appreso troppo tardi.
Chariza lo osservò sollevando un sopracciglio e assumendo un’espressione indifferente. – E perché dovresti fidarti di me? Ricordati che io mi batto solo per denaro. E finora non me ne hai offerto molto per questo lavoretto – rispose, sfidandolo con un sorriso beffardo e con tono irriverente. – Come puoi essere certo che dopo la tua morte qualcuno non mi paghi per tradirti?
L’Imperatore accennò a sua volta un timido sorriso. – Lo so perché ti conosco – rispose in modo dolce e gentile, sforzandosi di sorridere perché quella conversazione aveva preso il tono scherzoso tipico delle contrattazioni che già in altre occasioni lui e Chariza avevano affrontato. Chariza sapeva che alla fine avrebbe accettato e l’Imperatore ne era altrettanto sicuro, ma quel balletto verbale era divenuto quasi un rito per loro.
Chariza si finse per qualche istante frastornata e lusingata dalle parole dell’Imperatore, poi ricambiò il suo sorriso e lo guardò mentre, più rilassato, si stendeva nuovamente nel letto.
– Accetto perché credo che la presenza del tuo casato sul trono sia meno dannosa dell’assoluto controllo dell’Alleanza sullo Si-hai-pai – rispose Chariza, arrendendosi alla fiducia smisurata che il Drago d’Oro le dimostrava.
Lui la squadrò con aria severa. – Vedi? Conosco il tuo cuore e il tuo pensiero. Contavo proprio su questo.
Come aveva annunciato l’Imperatrice, il Drago Verde si presentò a Palazzo la sera seguente l’arrivo di Chariza.
Chariza, persa nei suoi cupi pensieri, stava osservando lo scorrere delle gocce di pioggia sui petali dei lilium bianchi che crescevano attorno a un laghetto artificiale in uno dei tanti cortili su cui si affacciavano le stanze reali, quando la sua attenzione fu attratta da una lenta processione di monache dalla livrea verde che le venivano incontro sulla veranda. Lei, il Drago Verde, camminava davanti a tutte le altre avvolta da una lunga tunica di seta smeraldina, stretta in vita da un’alta fascia di tonalità più chiara; le ampie maniche coprivano completamente le mani, e un velo, calato fino a metà del viso, impediva a sguardi indiscreti di scorgere il volto della Signora. La donna apparve a Chariza come una coriacea foglia di bambù, brillante e affusolata, stretta intorno alla sua guaina, mentre le sue dame, anch’esse vestite della tunica rituale su cui brillava lo stemma del Drago d’Oro, erano i teneri germogli che le crescevano attorno.
Il Drago Verde e il suo seguito sfilarono accanto a lei ignorandola e continuando a salmodiare le loro preghiere, ma a Chariza parve che da dietro la sua cortina ricamata la Signora le avesse lanciato un rapido sguardo e che in quel momento le sue labbra si fossero piegate in un sorriso beffardo.
La monaca entrò nella stanza del sovrano e subito fece cacciare tutti fuori dalle sue ubbidienti ancelle. Preparandosi ad armeggiare con erbe e unguenti, si levò il velo e rimase con indosso solo un’ampia camicia e un paio di comodi pantaloni a gonna, nelle cui tasche conservava sacchetti e boccette con le pozioni più potenti e segrete che non voleva ancora condividere con le sue discepole. Queste avevano formato un cerchio attorno al letto dell’Imperatore e si erano inginocchiate per assistere e sostenere la Signora con la forza dei loro incantesimi.
Per tutta la notte dalla camera del sovrano si levarono gemiti e urla. All’eco dei canti sommessi delle monache rispondeva quello straziante del malato e poi di nuovo quello del Drago Verde che invocava la sua magia. Nessuno in tutto il Palazzo Imperiale poté dormire quella notte, e neppure la pioggia, che continuava a battere in modo insistente sulle tegole dei preziosi tetti, riusciva a coprire quei suoni che ricordavano una lotta tra demoni, anzi, spesso pareva che le gocce si piegassero al ritmo degli incantesimi e ne costituissero il sottofondo ideale.
Chariza si accoccolò in un angolo della grande sala antistante quella dell’Imperatore, in cui tutti i membri più importanti della corte erano stati stivati in attesa del verdetto, e rimase a guardare quei volti chiedendosi se tra le rughe d’ansia che li corrugavano si nascondesse una segreta speranza, se quell’angoscia non fosse solo simulata e celasse in realtà un desiderio. Poteva nascondersi tra loro il traditore? Chariza pensava di sì, credeva che se Ryokin le avesse dato il permesso di indagare avrebbe scovato il serpente velenoso proprio fuori dalla tana del drago.
Si addormentò faticosamente e solo per brevi periodi, sempre con questa idea nella mente, finché non si accorse che qualcuno le aveva gettato sulle spalle una coperta e che una presenza estranea era entrata nella stanza. Sollevò una palpebra e scrutò nell’ombra, notando la figura minuta di una fanciulla con un pigiama grigio che camminava in punta di piedi tra i letti improvvisati tentando di non calpestare gli occupanti, sbadigliando e strofinandosi gli occhi, mentre si affrettava a togliere i pannelli notturni per far entrare un po’ di luce e di aria fresca.
“È già giorno” pensò Chariza, chiudendo nuovamente gli occhi affaticati quando la giovane serva le passò accanto. “Sarà riuscito il Drago Verde a salvare l’Imperatore?” si chiese, accorgendosi solo in quel momento che non proveniva più nessun suono dalla camera reale.
Chariza si alzò e guardò un fascio di luce quasi bianca che penetrava nella sala attraverso un pannello di carta, si mise in ascolto e assunse la sua consueta espressione contrariata; uscì sulla veranda e alzò lo sguardo al cielo, che era ancora coperto e carico di pioggia. “È solo luce, non è sole” constatò, mentre alle sue spalle l’intera corte riprendeva lentamente vita e i notabili si svegliavano e impartivano ordini con quel tono di supponenza e arroganza che Chariza detestava. Presto ricominciò il via vai di valletti, chi portava vesti pulite, chi bacinelle piene d’acqua per lavarsi il viso, chi cestini con la colazione. Nel giro di pochi minuti la ricca sala del Palazzo Imperiale assomigliò a una piazza di mercato, e Chariza si allontanò da quel brusio di inchini e assensi, di ordini e lamentele.
Si sedette sulla veranda e per qualche istante pensò di approfittarne per lasciare il Palazzo, Hoh-ma e magari lo Si-hai-pai. Il suo desiderio in quel momento era trovare chi aveva avvelenato l’Imperatore, l’idea di essere stata convocata per far da balia a una donna incinta e poi a un bambino la faceva sentire inutile e impotente. Inoltre non sapeva quanto il suo demone interiore avrebbe sopportato di rimanere in quell’ambiente sfarzoso senza cedere alle lusinghe dell’oro e dei gioielli, per quanto tempo le avrebbe permesso di rimanere così padrona di se stessa prima di prendere il controllo e commettere qualche azione di cui si sarebbe certamente pentita.
Se l’era sempre cavata di fronte a esseri ultraterreni e avversari umani ma altrettanto spietati, il sicario che aveva colpito questa volta non poteva essere peggio di tutto ciò che aveva già incontrato. Strinse i pugni in un moto di rabbia e si voltò, nella sala era stato steso, dietro una piattaforma rialzata di legno, lo stemma del Drago d’Oro, e Chariza lo fissò tentando di convincersi che avrebbe potuto portare a termine quell’incarico, ma una vita sedentaria all’interno delle Mura Celesti e, per di più, costretta negli appartamenti delle dame, non era fatta per lei. Era da quando viveva sui Monti che non passava più del tempo insieme a un gruppo di donne, anche se era stata ospite della locanda Kankaku per qualche tempo, e anche in quell’occasione si era resa conto che la sua educazione come Guerriera della Trasparenza l’aveva resa troppo diversa dalle ragazze di città, perfino dalle disinibite kiniru.
“Non posso restare” si disse. “Neppure lui può chiedermi una cosa simile! Già la sento agitarsi… Presto prenderà il sopravvento sulle mie azioni e inconsciamente comincerò a rubare. L’oro, la ricchezza, lo splendore degli oggetti raccolti in questi palazzi… È una tortura!”
Chiuse gli occhi e provò a concentrarsi sul suo demone per placarlo, per dominarlo, ma era difficile in quella situazione, perché non riusciva a trovare la pace necessaria alla meditazione. Ogni volta che provava ad abbandonare il mondo sensibile per entrare in contatto con la sua psiche, il volto dell’Imperatore sofferente le si parava davanti agli occhi, ed era come se la stesse implorando, come se le stesse chiedendo di non fuggire, di non abbandonarlo. Chariza faticava a trattenere l’avidità che la divorava.
“Se solo avessi qualche moneta d’oro da stringere tra le mani… potrei calmarla, potrei distrarla. Ma così è una tortura. Sembra che voglia spingermi a desiderare perfino le tegole del tetto che mi ripara dalla pioggia. No, non posso rischiare di perdere il controllo che tanto faticosamente ho guadagnato sulla maledizione, solo per assecondare il desiderio di un Drago morente! Appena sarò sicura che è salvo partirò, tornerò al castello del nobile Kaoru e continuerò la mia vita! Certo! Perché mai dovrei piegarmi ai suoi ordini? Non è altro che un Drago, in fondo! Devo smetterla di pensare a lui come all’Imperatore benevolo che protegge lo Si-hai-pai. Ryokin è un Drago, il capo dell’Alleanza… Anche lui è colpevole delle mie disgrazie tanto quanto i suoi compagni.”
Chariza aprì gli occhi e guardò la pioggia. – Me ne andrò da qui al più presto. Io sono Chariza la mercenaria, non Chariza la custode della famiglia imperiale! Che chieda alle sue guardie di badare alla moglie e al figlio! Io non posso e non voglio restare!
Chariza cominciò a ispezionare con lo sguardo le mura del giardino per cercare un punto adatto per la fuga. Se l’Imperatore le avesse proibito di lasciare il Palazzo Imperiale non avrebbe esitato a scivolargli tra le mani e a far perdere le sue tracce per sempre.
Era ancora intenta a organizzare piani di fuga quando il sommesso mormorio dei nobili la distrasse dai suoi propositi. Tutti si erano radunati attorno alla porta della camera del sovrano, che era stata spalancata facendo emergere il Drago Verde, visibilmente provato da quella notte di cure e di veglia. Per la prima volta Chariza poté vederlo in volto: le occhiaie cerchiavano gli occhi stanchi e vitrei, ai cui lati notò alcune piccole rughe; i capelli cadevano sulle spalle in modo disordinato; le maniche della camicia erano state tirate su fino alle spalle e sulle braccia erano evidenti segni di graffi e alcuni lividi che cominciavano a diventare visibili.
“Il Drago Verde ha compiuto bene il suo lavoro” pensò Chariza, affacciandosi con il capo nella sala per darle un’ultima occhiata prima di allontanarsi. “Ora potrò andarmene.”
Salì i sentieri tortuosi dei numerosi giardini, attraversò sale e verande in cui pannelli dipinti creavano ambienti e temi diversi per ognuna, ignorò le dame e le serve che al suo passaggio le aprivano il cammino accostandosi ai muri e inchinandosi con un rispetto che Chariza non credeva di meritare. Cercò di ricordare le vie che aveva percorso in altre occasioni per raggiungere un luogo che le era rimasto profondamente nel cuore, e quando finalmente lo trovò si sentì tranquilla e sicura. L’Haru-in era in assoluto la zona del Palazzo che più amava, mentre l’Aki-jo, dove si trovava ora l’Imperatore, era troppo legata ai ricordi della morte del Drago Rosso.
In quel luogo, ora che l’ansia per la sorte del sovrano non avrebbe più interferito con le capacità di autocontrollo acquisite quando non era altro che una ragazzina, avrebbe potuto placare la maledizione e prepararsi a tornare a Birodo entro quella sera stessa.
Passeggiò sulla veranda che si affacciava sul giardino privato dell’Imperatore, quello in cui avevano bevuto insieme tè profumato ammirando la fioritura del suo ciliegio preferito. La pioggia, che non accennava a voler cessare, aveva fatto scivolare via dai rami i giovani petali, che in buona parte erano caduti nel piccolo lago artificiale che il sovrano aveva fatto scavare per i suoi pesci rossi; tutt’attorno delle canne di palude creavano una cornice giallastra allo specchio d’acqua di un verde scuro, e dietro a esse un piccolo tempio di pietra era attaccato dal muschio fin sull’ultimo masso. Era una scena affascinante nonostante avesse un che di triste e malinconico. L’erba del prato attorno al laghetto brillava dei riflessi argentei dell’acqua, e gli aceri che ne segnavano il perimetro agitavano le chiome nel debole vento caldo e umido.
Chariza si portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli che era sfuggita alla coda in cui li aveva legati e alzò gli occhi verso il cielo ancora minaccioso, sospirò abbassando il capo e osservò una rana che saltava fuori dall’acqua per mettersi a riposare su una pietra. Fece un passo e fu anche lei sotto la pioggia, che le accarezzava il viso scivolando lungo le guance pallide; chiuse gli occhi e allargò le braccia rimanendo immobile, nella speranza che la pioggia costante lavasse via le sue preoccupazioni permettendole di tornare a essere abbastanza lucida per valutare l’incarico che l’Imperatore le aveva proposto.
Chariza sapeva che se a offrirle lo stesso lavoro fosse stato un nobile di provincia, avrebbe accettato senza porsi troppe domande. Si sarebbe limitata a contrattare sul prezzo, come faceva sempre. Non poteva negare che in quella proposta ci fossero numerosi punti vantaggiosi: come avere vitto e alloggio almeno per altri sette, otto anni. Per una persona che rischiava spesso di avere il cielo come coperta e l’erba per guanciale non era una questione da sottovalutare. Ma restare a vivere con l’Imperatrice avrebbe significato per lei essere sempre sottoposta a una terribile pressione per via dei mille oggetti che avrebbero attirato la maledizione. E non era da trascurare il fatto che quella missione, apparentemente banale, quasi ridicola se non si fosse trattato dell’Erede dell’Impero, nascondeva una quantità di pericoli e rischi che in altre occasioni Chariza avrebbe affrontato con più serenità e fermezza di propositi.
Non aveva paura di rischiare la vita e tanto meno temeva di dover vivere sotto la continua minaccia di agguati e attentati, quello che la preoccupava era la possibilità di fallire spinta inconsciamente dall’odio che provava verso i Draghi. Dopotutto, l’Erede era il cucciolo di un Drago.
Chariza pregò la pioggia di liberare la sua mente dai dubbi e di aiutarla a trovare una risposta.
“Come posso accettare sapendo che potrei divenire io stessa un pericolo per l’Erede? Ryokin non capisce la mia situazione. Come può essere sicuro che il suo nemico non mi offrirà del denaro per tradirlo? Come può dichiararsi certo che io non lo tradirò, se perfino io dubito della mia lealtà? Quell’uomo è pazzo! Avergli salvato la vita una volta non ha nessun significato per me, perché lui deve invece pensare che ne abbia? Perché sono dovuta correre qui appena lui mi ha chiamata?”
Chariza era profondamente irata con se stessa. – Maledetti Draghi! – gridò. – Tutti! Che siate stramaledetti! Anche tu, Drago d’Oro! – Avrebbe voluto andare da lui e dirgli in faccia quel che pensava, avrebbe voluto rifiutare e andarsene. Ciò nonostante Chariza non si decideva a lasciare il Palazzo.
Chariza chiuse gli occhi e si abbandonò ad ascoltare il ticchettio della pioggia sulle foglie, cercò di non pensare all’Imperatore e ai Draghi. Cercò soltanto di calmarsi.
Un rumore di passi rapidi e leggeri la distrasse dalle sue meditazioni, aprì gli occhi controvoglia e piegò appena il collo per poter vedere con la coda dell’occhio una figura femminile che le veniva incontro. Chariza attese finché la donna non si trovò alle sue spalle, poi si volse di nuovo verso il cielo, ignorandola completamente.
– Sei innamorata di lui? – chiese senza preamboli una voce secca e decisa.
Chariza si lasciò scappare un sorrisetto divertito, e si costrinse a voltarsi per fronteggiare il Drago Verde. – Tra tutte le cose che potevi chiedermi, questa è davvero la più ridicola! – esordì, affrontando la Signora che la stava squadrando con i suoi occhi indagatori. – È ovvio che non lo sono. Dovresti sapere bene anche tu che non mi è così facile provare dei sentimenti sinceri per le persone. La mia maledizione interferisce spesso anche in queste faccende! Desiderare tutto ciò che è bello, raro e prezioso… – Chariza sospirò in modo esagerato per schernire la donna che la stava ancora fissando con severità. – Certo non c’è nulla di più prezioso dell’Imperatore! Avrai tratto le tue conclusioni quindi, mia cara Midori, ma hai sbagliato! Non sono così sciocca da permettere a una maledizione di controllare i miei sentimenti. Chi credi che io sia? Una delle tue ragazze inesperte?
La donna rimase in silenzio, altera e inflessibile, eretta sulla persona, a fissare Chariza da capo a piedi senza tradire un’ombra di sentimento.
L’ultima volta che Chariza aveva incontrato il Drago Verde, la Signora del monte Heisei, era stato quando era ancora una bambina. La Signora l’aveva scelta, insieme ad altre che non erano state riportate a casa dai genitori, per inviarla al Drago Bianco del monte Tōmei.
– È un grande onore, piccola Chariza – le aveva detto sorridendo gentilmente, e Chariza le aveva creduto, ma a quell’epoca aveva creduto a tante cose.
Midori non era cambiata tanto quanto Chariza si aspettava. Doveva avere tra i cinquanta e sessanta anni, forse di più, ma era difficile stabilire la vera età dei Draghi. Il suo aspetto era quello di una florida quarantenne dalla pelle liscia come porcellana, con capelli ancora di un castano intenso, nessuna ruga profonda circondava gli occhi color nocciola e le labbra sottili, erano appena percettibili solo lievi segni delle sue espressioni così rigide, e le mani bianche erano ancora lisce e delicate come quando aveva accarezzato la guancia di Chariza molti anni prima nel giorno della sua partenza. Avvolta dalla tunica verde del suo ordine, che la faceva sembrare un giovane albero, Midori appariva ancora giovane e bella, e neppure nella sua voce si avvertiva l’ombra del tempo.
Chariza avanzò verso la veranda, riuscendo a vedere nella sua interezza il volto dai lineamenti sottili della donna, che prima era rimasto in parte nascosto dall’ombra della grondaia, e lo osservò con sguardo serio. Questa volta il Drago Verde non l’avrebbe convinta tanto facilmente a fare qualcosa per l’Alleanza, Chariza era decisa a essere sgarbata e risoluta con la donna che considerava in parte artefice delle sue sventure.
– Sei tutta bagnata – constatò Midori, squadrando Chariza da capo a piedi. – Bisognerà che ti cambi d’abito.
– Non cercare di essere gentile con me. Dimmi cosa vuoi! – le ordinò Chariza, appoggiandosi con il gomito a un pilastro di legno, continuando a ignorare l’acqua che segnava la sua figura snella, agile e forte.
– Chariza del monte Tōmei, non credere che io non conosca le tue sofferenze. Io ti capisco, figlia… – Midori protese le braccia come per avvolgerle attorno alle spalle di Chariza, ma lei si ritrasse e le lanciò un’occhiata colma di rabbia e risentimento.
– No, no, tu non capisci! – la rimproverò mentre il suo viso si deformava in un’espressione irata. – Tu non puoi capire. Tu non sei stata tradita dalla persona di cui più ti fidavi al mondo. Tu non sei stata sfruttata dall’uomo che consideravi come un padre. Tu non sei stata colpita da una maledizione. Tu non sei stata per anni oltre i confini della tua terra sperando ogni notte di poter tornare a casa. Quindi, Drago Verde, non dire che mi capisci, perché… scusa tanto… ma non è così.
– Quanta rabbia! – si limitò ad analizzare Midori. – Non sei cambiata, sei sempre orgogliosa e fiera.
– Ti sbagli, ti sbagli di grosso, Midori. Io sono cambiata e tu non immagini neppure quanto – rispose Chariza, calmandosi e desiderando di poter dire qualcosa che ferisse l’animo apparentemente asettico della donna. – Non sono più una bambina da poter plagiare. Non sono la figlia di nessun Drago. Appartengo solo a me stessa!
– Bene. Eppure servi il Drago d’Oro. Tanto mi basta per considerarti un’alleata della mia causa. – Midori lanciò un’occhiata alla pioggia che sembrava accennare a diminuire per la prima volta da settimane, poi tornò e fissare Chariza. – Ubbidisci all’Imperatore, accetta l’incarico che ti ha affidato. Prima o poi il Principe dovrà prendere il suo posto e molti saranno quelli che in questi anni cercheranno di ucciderlo o di… manovrare. Credi che il Drago Verde desideri vedere la famiglia Ryokin spodestata? Ti sbagli! Non siamo noi monache del monte Heisei che desideriamo la fine dell’Alleanza. Cosa credi che accadrebbe se i Draghi venissero cacciati dallo Si-hai-pai?
Chariza la osservò, ancora indecisa se credere alle sue parole. – Non mi può certo bastare la tua parola!
Tentò di concentrarsi sulle questioni pratiche, dissimulando il più possibile il suo turbamento per quell’ultima frase che continuava a ronzarle nella testa. “Cosa accadrebbe se i Draghi venissero cacciati dallo Si-hai-pai?” se lo chiese e se lo richiese. Non era la prima volta. Da quando il Drago Bianco le aveva affidato quella prima sfortunata missione si era immaginata spesso un mondo senza Draghi e senza Alleanza, ma ogni volta non riusciva a trovare alternative a quell’ordine delle cose che durava da un tempo talmente lontano da sembrare che non fosse mai esistito. Che cos’erano i Draghi e che cos’era l’Alleanza? Chariza era cresciuta sui Monti Sacri, avrebbe dovuto saperlo, sicuramente lo aveva saputo in passato. Lo aveva forse dimenticato? Non riusciva a trovare la risposta nei suoi ricordi. Era confusa, sconcertata e nervosa, perché quei pensieri la infastidivano: lei aveva abbandonato i Draghi, lei li odiava e c’era stato un tempo in cui aveva desiderato vederli scomparire dallo Si-hai-pai.
L’Alleanza che controllava tutto e tutti, che teneva in pugno anche le sorti del casato imperiale, i cui domini andavano ben oltre i confini montuosi dello Si-hai-pai; i Draghi che presiedevano a ogni cosa accadesse nel regno, la cui influenza investiva tutti.
Chariza scosse il capo, per la prima volta valutò un fatto che era sempre stato di fronte ai suoi occhi resi ciechi dall’odio: nessuno nello Si-hai-pai era libero dai Draghi, non solo i nobili e le famiglie con blasoni e titoli che portavano lo stemma del loro Drago protettore sulle vesti, ma neppure il contadino di quel villaggio di Xi-Ja dove aveva trovato rifugio una volta, neppure il venditore ambulante di riso bollito all’angolo del ponte Aizu, neppure la vecchia proprietaria della locanda Kankaku. Tutti, in un modo o nell’altro, avevano un colore, tutti invocavano un Drago, che fosse nelle maledizioni, negli insulti, nelle benedizioni o nelle esclamazioni di gioia. Tutti erano legati a un Drago. E che cosa sarebbe successo se i Draghi avessero lasciato lo Si-hai-pai?
“Che cos’è realmente un Drago? Perché perfino io, che li detesto, ho finito per legarmi a uno di loro?” si chiese mentre Midori, il Drago Verde, la fissava attendendo una qualche risposta.
La Signora sorrise. – Ho risvegliato il tuo interesse, mi pare – disse. – Colui che mira a sedere sul trono della famiglia Ryokin potrebbe essere un Drago, ma anche non esserlo. Nessuno sa chi si nasconde dietro questo complotto. – Midori guardò di sottecchi il viso teso di Chariza, ma questa volta non aspettò una risposta. – E chissà… potremmo essere destinati a non scoprirlo mai. Ma quello che interessa a me non è conoscere il volto o il nome del nemico dell’Impero, quanto il cuore e l’animo dei nostri alleati. Sarai nostra alleata? Se non mia, almeno del Drago d’Oro? – Midori sollevò un sopracciglio. – Non ti sto chiedendo di tornare a essere fedele ai Draghi, solo di riconsiderare l’offerta del Drago d’Oro e di pensare a ciò che ti ho detto oggi.
Si voltò facendo volteggiare la lunga veste di seta e si allontanò scomparendo nell’ombra delle stanze interne del palazzo, lasciando Chariza a riflettere su quelle parole enigmatiche e sui dubbi che esse avevano sollevato.
– Potrebbe non essere un Drago – mormorò. “Ma potrebbe anche esserlo” si disse, sempre diffidente verso chi ubbidiva alle regole dei Monti Sacri. “Anzi, sono sicura che lo sia.”
Poi salì sulla veranda e rimase in silenzio a guardare la pioggia che, almeno così le sembrava, stava cadendo meno fitta.
– La dea Sole tornerà forse a sorriderci? – chiese rivolta al cielo che la sovrastava, poi, sorpresa di quelle sue parole, si avviò lungo i corridoi del palazzo.
La sera era giunta con insospettabile rapidità e si era portata via la pioggia, all’orizzonte già si potevano scorgere squarci di cielo azzurro tra le masse grigie che si dissolvevano. Qualcuno in un’altra ala del palazzo stava suonando un flauto, e la melodia giungeva ovattata ai consiglieri e ai generali che bisbigliavano osservando le tre donne celate in fondo alla sala dietro le cortine di bambù intrecciato.
Sedute attorno allo stesso tavolo, il Drago Verde, Chariza e l’Imperatrice non potevano costituire che uno spettacolo raro e terrificante. A stento si guardavano in faccia l’un l’altra, o almeno Chariza stava evitando accuratamente gli sguardi delle sue compagne, e la conversazione arrancava pericolosamente su un punto dal quale Chariza non si sarebbe mossa tanto facilmente: il compenso per quella missione che l’avrebbe tenuta legata al casato Ryokin per anni.
– Con tutte le testarde incallite di questo paese, proprio l’unica che il Maestro non è riuscito a soggiogare mi doveva capitare! – sbuffò Midori lanciando una frecciata a Chariza, la quale si alzò e si inchinò all’Imperatrice.
– Benissimo – disse lei. – Allora lascia che io continui per la mia strada e tu per la tua.
– No, no – fece la sovrana, allungando una mano per afferrare la manica della camicia scura di Chariza. – Ti prego, rimani. Troveremo una soluzione.
– È ovvio che preferisce vedere questo Paese dilaniato dalla guerra civile piuttosto che ammettere che un Drago abbia ragione – sbottò Midori. – Ma a lei cosa importa? La ricchezza è la sua unica preoccupazione. Che i suoi amici, gli Sciri dell’ovest, cavalchino pure sui resti dell’Impero. Che gli Yukari del nord saccheggino Hoh-ma, la Splendente. Che gli Arashi del sud arrivino sulle nostre coste con le loro navi veloci. Che gli eserciti dei Rigashi prendano alloggio entro le Mura Celesti. A lei non importerà se potrà ricavare ricchezza dalla nostra disfatta.
– Ma cosa stai dicendo? – urlò Chariza in uno scoppio d’ira, e a stento trattenne la mano che stava per colpire la guancia della monaca. Si fermò e chiuse il pugno a mezz’aria, lo sguardo fisso sul viso impassibile di Midori.
Lentamente il senso di quella lunga giornata cominciava a prendere forma, e nello scorrere di immagini e sensazioni che l’avevano bombardata anche l’esistenza dei Draghi e dell’Alleanza sembrava avere un senso. Lo Si-hai-pai era circondato da nemici a cui lei non aveva mai fatto caso, il Drago d’Oro non manteneva solo la pace all’interno del regno ma anche con i vicini, più o meno agguerriti che fossero.
– Ricordati che io sono stata tradita dai tuoi Draghi, e anche l’Imperatore – continuò Chariza, sempre scrutando il viso di Midori. – Amo la mia terra, ma ci sono cose nel modo di agire dell’Alleanza che ancora non capisco. So anch’io che è solo la presenza della dinastia Ryokin a garantire l’ordine delle cose…
– Allora accetta il pagamento che ti viene offerto – disse l’Imperatrice, incontrando lo sguardo furibondo di Chariza. – Proteggi me e proteggerai l’Impero.
Midori sorrise. – È l’oro ciò che vuoi? Benissimo. Nessuno ti chiederà di più del tuo meglio come guerriera, e finché il Principe non sarà affidato ai tutori per l’addestramento dovrai mantenerlo in vita. Ma se accetti di proteggerlo sarai pagata tre volte il compenso che chiedi di solito ai nobili. – Midori aprì un ventaglio e si nascose il viso dietro di esso mentre rideva divertita. – Pensi forse di poter guadagnare di più passando da un castello all’altro?
Chariza si voltò verso il Drago Verde, profondamente irata. – Tre volte il mio compenso – ripeté seccata. – Farò ciò che mi chiedete.
Chariza avvertiva la nota fitta allo stomaco provocata dalla maledizione, sapeva di non poter rifiutare. Midori aveva fatto leva sul suo punto debole, ben sapendo che nessuno sforzo di volontà avrebbe permesso a Chariza di far prevalere il suo disgusto per i Draghi al suo attaccamento all’oro. A ogni modo era determinata a non farsi strumentalizzare e quindi a imporre fin da subito le sue regole.
– Ma partiremo domani e non fate sapere a nessuno in quale residenza vi sposterete – terminò Chariza.
[i] Il calendario nello Si-hai-pai identifica il primo mese dell’anno nel nostro febbraio. I mesi dal primo al terzo, quindi da febbraio ad aprile, sono quelli primaverili. Quelli da maggio a luglio (quarto, quinto e sesto mese dell’anno) costituiscono l’estate. Dal settimo mese (agosto) al nono (ottobre) lo Si-hai-pai cade nell’autunno, e dal decimo al dodicesimo mese (cioè da novembre a gennaio) è stretto nella morsa dell’inverno.
[ii] Madre, titolo delle tenutarie di locali come la locanda Kankaku.
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