Ma dopo il grande errore della ragione, altri Abomini, e fra essi il più potente.
Non uno, ma tutti hanno parte. Anche quelli che guidano al Non Essere, alla minaccia che viene dall’Origine.
Il Nulla ha ritrovato la via. Trovate gli antichi segreti, la soluzione è in ciò che sta oltre i regni.
Indegni, eppur prescelti.
Due sangue di regina e dolore del deserto, uno dalle stanze del piacere.
Due per la saggezza, uno per la follia.
Due nel deserto vivente, uno oltre le cime rosa.
Le tre chiavi riannodano i fili. Il quarto, mano lontana che può scioglierli.
Solo i puri portano alla luce, e il più potente è uno di essi.
Non può morire ciò che non è vivo, ciò che è morto non può essere ucciso.
Ciò che è unito non può essere diviso, ciò che è diviso non può essere riunito.
Ma ciò che è spezzato deve ricongiungersi.
Questa è la chiave del nuovo equilibrio.
Vi sia forza fra i figli di Anaba, per prepararsi a ciò che deve venire.
PARTE PRIMA
1
In un cielo alquanto livido e nebbioso il sole era ormai prossimo al tramonto. La capitale Pline non aveva nulla di monumentale o solenne, ma di solito appariva accogliente come un paesino di campagna abitato da brava gente ospitale. Per questo viaggiatori e mercanti vi si fermavano volentieri, anche se Deresia era un regno secondario. Le basse casette di pietre tondeggianti color ocra, con le piccole finestre in legno e i tetti rivestiti di ardesia grigiastra, le strette strade diritte acciottolate, sempre pulite, i colori dei panni appesi ad asciugare, tutto questo rendeva familiare il paesaggio ed era la bellezza stessa di un regno che, di suo, non godeva di particolare fama, ricchezze o attrattive, ma grazie al clima favorevole e alla saggezza di una dinastia poco ambiziosa era sempre riuscito ad assicurarsi neutralità, quiete e buoni commerci, pur negli scenari più turbolenti.
Eppure quella sera la calma e la serenità tanto famosi, apprezzati e decantati, apparivano offuscati dal malinconico tramonto, da quel cielo sporco.
Chiunque avrebbe potuto avvertirne il disagio, anche i più superficiali. Le persone superstiziose evocavano strani presagi di sventura. Ma anche i più cinici e concreti, purtroppo, sapevano che quelle erano tutt’altro che favole senza fondamento, e che ogni segnale aveva una ragione, specie gli impercettibili cambiamenti del clima, nell’equilibrio sconvolto dei regni.
Anche nella taverna, affollata in quell’ora serale, il tempo e l’aspetto del cielo erano l’argomento principale di conversazione. Il locale, dai bassi soffitti a volta, aveva mura in pietra affumicate da innumerevoli giornate di fuoco, nell’ampio camino in fondo alla sala, dotato di ben tre focolari diversi, unica fonte di calore e cucina, intorno a cui si affaccendavano donne e garzoni.
Era una taverna antichissima e molto rinomata, anche se alla buona, tanto che i prezzi erano alla portata di tutte le tasche. Così, l’affollava un’umanità variegata, viaggiatori, giocatori, soldati, mercanti, contadini ripuliti, piccoli funzionari locali, fanciulle e ragazzi dei giardini di eliestra venuti a cercare un po’ di svago, che ridevano senza troppe pretese delle battute salaci che si sentivano continuamente rivolgere. Si notava persino qualche nobile riccamente vestito, interessato alla cucina, attento a non mescolarsi col volgo e circondato da una scorta ossequiosa.
Non era del tutto spiacevole l’odore di cibo, vino e fumo che ristagnava nell’aria, sovrastando quello della varia umanità. E il vociare diffuso non era così caotico da non poter parlare a bassa voce, nei tavoli più appartati.
Così stava facendo un gruppetto di quattro persone, all’apparenza stranieri in Deresia, seduti accanto a una finestra, intorno a un robusto tavolaccio in legno massiccio. Di tanto in tanto fissavano il cielo, oppure, insistentemente, la porta di ingresso, come aspettassero qualcuno, e bisbigliavano fra loro in una lingua che solo i viaggiatori più esperti avrebbero potuto riconoscere come un oscuro dialetto Farni. Eppure, non uno solo di loro aveva l’aria di provenire dalla mitica Farnisia.
Il gruppetto, a dire il vero, non aveva un aspetto molto rassicurante, a cominciare da un uomo maturo, alto e grosso, dai folti baffi scuri, che sembrava esserne il capo. Tutti erano vestiti di cuoio e stoffa spessa, tipico abbigliamento da soldati in viaggio, ma senza insegne di alcuna casata o esercito. Portavano armi alla cintola, spade corte e tozze e pugnali, che non si erano sfilati neppure per sedere sulle panche, nonostante la scomodità che questo doveva comportare. Altro segnale non proprio raccomandabile.
Il capo occupava da solo la panca più larga. Di fronte a lui era seduto un tipo magro sulla trentina, dai capelli sottili, rossastri e slavati, la pelle bianca e i lineamenti aguzzi, che quando parlava aveva l’abitudine di muovere nell’aria le lunghe mani dalle dita ossute, ostentando una strana aria di eleganza del tutto fuori luogo; accanto, un uomo di poco più giovane, scuro di capelli e un po’ stempiato, con occhi di un limpido azzurro. I casi della vita o forse gli eccessi ne avevano duramente provato il fisico e l’aspetto, ma si intuiva ancora una bellezza di ragazzo che doveva essere stata notevole. Parlava poco, sembrava preferire ascoltare e osservare.
Faceva eccezione nel gruppetto il quarto personaggio: una ragazzina, magra e curva come un passero denutrito, che stava seduta, anzi, appollaiata su un basso sgabello, con l’aria di non voler disturbare nessuno. Indossava un ruvido abito a sacco, da serva; i capelli castani erano corti e arruffati, i mobilissimi occhi verdi erano l’unico segno di vita, e parevano seguire nell’aria le tracce delle conversazioni, quasi che a lei fossero visibili come scie di fumo.
Al centro del tavolo troneggiavano un pentolone di stufato, una grande pagnotta e una caraffa di vino quasi vuota. Il capo stava servendosi per la seconda volta proprio in quel momento, con una mestolata di zuppa fumante, mentre gli altri erano intenti a lucidare le ciotole col pane. Tranne la ragazza, che non aveva neppure un coperto davanti.
– Dovrebbe già essere qui – borbottò il capo, la testa china sulla sua ciotola, immergendo il cucchiaio. – Sta per fare buio.
– Abbi pazienza, Zoern – replicò l’uomo magro. – Speriamo piuttosto che porti buone notizie.
– Tu dici? Per me non è un buon segno che tardi tanto. Accidenti a noi e alla nostra idea di infognarci in questo paesino. Ehi, piantala, Deter, ha già mangiato abbastanza.
Si riferiva al fatto che l’uomo dagli occhi azzurri aveva appena passato alla ragazzina un pezzo di pane intriso di sugo. Lei l’aveva afferrato velocemente e si era rannicchiata a divorarlo.
– Non esagerare, Zoern – replicò Deter, che aveva una bella voce bassa e calda, dalla perfetta dizione priva d’accenti. – Non vedi che è ancora affamata? Vuoi che crolli per terra?
– Tanto per cominciare sono io che decido. Vorrei che te lo ricordassi più spesso. E certo non sono i miei servi a dovermi dire cosa fare dei miei servi.
L’uomo dagli occhi azzurri divenne più pallido, all’insulto, ma chinò la testa senza replicare, mentre l’altro, quello magro, si lasciava andare a un sorrisetto maligno. Però, poco dopo, passò anche lui un pezzetto di pane alla ragazzina.
Zoern lo notò ma questa volta si limitò a sbuffare. – Se volete digiunare, affari vostri. Per stasera non ordineremo altro cibo, deve bastare per tutti. Questa qui vi impietosisce con i suoi occhietti da uccellino e voi ci cascate.
Non passò molto tempo che la porta si aprì. Entrò una donna ancora giovane, non molto alta, robusta, vestita in abiti maschili e armata. Lei sì, che si poteva classificare subito come Farni, per la pelle olivastra, gli zigomi pronunciati, i lunghi capelli bronzei e gli elaborati orecchini.
Si guardò intorno brevemente, e individuato il gruppetto lo raggiunse al tavolo.
– Siediti, Siastra – la incoraggiò Zoern, quasi con benevolenza. – Venja, vai a farti dare una ciotola e un boccale.
La ragazzina obbedì prontamente. La nuova arrivata si sedette dal lato dei due uomini, appoggiando la schiena al muro e sospirando. Appariva molto stanca.
– Non porto niente di buono, purtroppo – annunciò, scuotendo la testa. – Ho fatto il giro di tutti i mercati, dei caravanserragli, delle locande di lusso. Mi sono informata se partivano carovane, convogli, se qualche ricco aveva bisogno di scorta, se qualcuno era a corto di personale…Niente da fare. È tutto il giorno che parlo e cammino, non ne posso più.
– Strano – osservò l’uomo magro – Non è mica inverno, né stagione di tempeste. Dovrebbe essere pieno di viaggiatori, in ogni direzione. Possibile che siano tutti al completo?
Zoern emise una specie di sbuffo, un suono sordo come un raschio. – Ah, l’avevo detto io, Lin. Questo posto è un mortorio, non dovevamo infilarci qui, ma seguire altre rotte. Altro che commerci…
– Non è questo – replicò Siastra. – È peggio, sono tutti bloccati. C’è una Ferita. Poco a nord di qua, e si estende. Hanno paura a partire, aspettano notizie, sperano che arrivino i Sanatori o cercano percorsi alternativi, per nave, se la strada al mare è sgombra. È un maledetto caos. Anche quelli diretti a sud aspettano notizie, non si fidano.
Si interruppe, per versarsi un boccale di vino che vuotò d’un fiato. Venja, la ragazzina, tornata rapidamente con quanto richiesto si era rimessa sul suo sgabello, e pareva ascoltare con ancora maggiore attenzione.
Zoern si lasciò andare a una fila di improperi che coinvolgevano vecchie divinità e attività sessuali di varia natura.
– Una Ferita – mormorò Deter, incredulo, quasi fra sé. – Così distante dalle pianure maledette. Ecco perché arriva questa luce strana. È sempre peggio. Presto non si potrà più viaggiare, presto non riusciremo a coltivare abbastanza cibo per tutti…
L’uomo magro replicò, beffardo: – Stai attento, qualcuno potrebbe capire questa lingua, e per chi parla così, lo sai, ci sono tenaglie e forca. Vietato dubitare del potere dei Sanatori e della Regola.
– Concentriamoci sul nostro problema – esortò Zoern – che è già abbastanza grave. Contavamo di trovare qualche risorsa per andarcene di qui. Ci sono rimasti i cavalli, le armi e qualche spicciolo – frugò con cautela nella saccoccia che portava alla cintola. – Le armi ci servono, ma anche i cavalli sono fuori discussione, se li vendiamo siamo finiti. Non troveremo più lavoro neanche a spalare letame.
– Potremmo vendere qualcuno. Venja non vale un gran che, muta e quattr’ossa com’è, ma Deter…
L’interpellato scattò in piedi, senza potersi trattenere. – Piantala, Linedhr. Non sei divertente. Lo sai benissimo che un servo a termine non si può vendere: per il resto ti garantisco che quando sarò un uomo libero la prima cosa che farò sarà levarti la pellaccia di dosso.
Siastra rivolse ai due uno sguardo di pesante commiserazione. – E smettetela, sempre a litigare. E tu piantala con le tue vecchie battute, Linedhr. Non c’è molto da ridere qui.
Il capo ascoltava appena. Pareva riflettere per conto suo, la testa china a fissare il piano del tavolo, da cui traeva piccole scaglie con il coltello. – Non c’è mica molta scelta. Se non troviamo una soluzione domani digiuniamo. Senza contare che magari fra poco bloccano le strade e chissà quanti controlli. Dobbiamo filarcela di qui alla svelta e aggirare quella Ferita. Piuttosto andiamo a sud, anche se quel paese di rammolliti non è l’ideale per noi. E oltre non si va. Ma se il nord è bloccato…
Deter, che era di Cromia, il regno “di rammolliti” cui alludeva Zoern, fece una smorfia. Linedhr osservò, cauto: – Non è che possa uscirci del lavoro per noi, con questa Ferita?
– Ma sei tutto scemo? – sbottò Siastra. – Farsi arruolare dai Sanatori? Che bella idea, gente con un passato come il nostro, proprio. Finiremmo a marcire in galera o appesi per il collo.
– Sì – annuì Zoern seguendo un suo ragionamento – dobbiamo agire in fretta: procurarci qualche soldo, giusto per le provviste, e andarcene stanotte stessa.
– Che intendi dire con procurarci, Zoern? – chiese Siastra, che dentro di sé conosceva già la risposta.
– Lo sai. Lo abbiamo già fatto altre volte. Qualche ripulitura di fino. Non dovrebbero mancare i candidati, qui intorno.
– Accidenti, no. Sono stufo di rischiare la galera. Non può andarci sempre bene.
L’uomo magro appariva veramente sconfortato. Il capo lo rimbrottò, sarcastico, abbassando ancora il tono di voce: – Proprio tu fai tanto lo schizzinoso, Lin? Che hai tagliato più gole di un boia? E da quando in qua? Che differenza fa una volta in più o in meno? E poi non sarà niente di terribile. Ci cerchiamo qualcuno con l’aria un po’ tonta, magari ubriaco, lo seguiamo qui fuori in qualche angolo buio, un colpetto in testa e via.
– E se poi non ha soldi e abbiamo fatto tutto per niente? E se ci vedono? E se…
– Oh, smettila, Lin. Sembri un lattante che piagnucola. Non è mica un paese di guerrieri questo. Sarà facile, lo troviamo, il tipo giusto. Aspettiamo, magari più tardi, quando fa buio.
– Neanche a me va molto, Zoern – intervenne Siastra, a voce bassa e cauta. Deter, invece, visto il pessimo umore del padrone, taceva per non beccarsi altri insulti, ma il suo sguardo scettico era evidente.
– Se hai un’idea migliore, sentiamo. – Un silenzio sconfortato seguì quella frase. Allora Zoern riprese: – Oh, insomma, ma che avete tutti quanti? Mi siete diventati dei fifoni, con questi scrupoli? Perché, massacrare la gente in guerra è meglio, è più pulito?
– È questa aria che c’è intorno – borbottò Deter, trovando finalmente il coraggio di parlare. – È una sera di cattivi presagi.
Era evidente che gli altri due sembravano d’accordo. Per non parlare della ragazzina che aveva piantato le unghie nel tavolo, fino a farle sanguinare, anche se nessuno badava a lei. Zoern alzò gli occhi al cielo come chi è al colmo dell’esasperazione.
Lui non pareva avvertire alcun presagio infausto, e la sua natura collerica, ostinata e poco dotata di pazienza lo rendeva, per reazione, sempre più deciso sulle sue posizioni.
– Basta! – sbottò, con un tono che, insieme con il suo aspetto massiccio, faceva capire come si fosse conquistato la sua autorità. – Non tollero altre discussioni e altri dubbi. Ho deciso, si fa come dico io. Deter e lo sgorbietto, qui, vengono con me perché non hanno scelta. Voi due, se non vi va, filate via e non fatevi più vedere. Non c’è altro da aggiungere.
Dopo qualche minuto di pesante silenzio, Siastra borbottò: – Non è vero che posso andarmene. Lo sai.
Linedhr le fece eco. – Lo stesso per me. Faremo come vuoi.
– Bravi. Che sarà poi, sfilare una borsa. Cominciate a guardarvi intorno. Senza farvi notare, però. Lin, esci facendo finta di controllare i cavalli e cerca di capire se ci sono vicoli adatti, qui vicino, abbastanza bui e senza finestre, per appostarci e non essere visti.
L’uomo magro annuì rapidamente e si alzò. Ma in quell’attimo la ragazzina gli prese un braccio, cominciando a scuotere la testa e ad emettere dei mugolii.
– Che ha? – chiese Zoern, corrucciato.
– Non so, non riesco a capirla. Sembra una delle sue crisi, mi pare abbia paura.
O Zoern stava andando sempre più in collera, per le continue offese alla sua autorità, o cominciava a provare inquietudine anche lui e non voleva ammetterlo neppure con se stesso.
Ne fece le spese la povera Venja. Strappandola a Linedhr la afferrò e la gettò per terra, e sempre tenendola con una mano, con l’altra cominciò a percuoterla, colpi sempre più forti, sulla testa, sulla schiena, con il pugno, e schiaffoni sul viso. Sottolineava quelle botte sibilando: – Di questo avevi paura, eh? Brava, non ne avrai mai abbastanza. Sono stufo delle tue lagne, ormai non ne indovini più una, sei sempre terrorizzata, sempre piagnucolona. Ti avviso, sto perdendo la pazienza con te.
– E basta, Zoern – intervenne Linedhr, con aria imbarazzata. – Non possiamo farci notare proprio ora.
Questa seconda frase ottenne il risultato di farlo smettere, anche se per la verità un padrone che massacrava un servo di botte non era scena così insolita da suscitare attenzione nel locale. Infatti nessuno aveva alzato lo sguardo o interrotto le conversazioni. La ragazzina si rannicchiò tremante, appoggiata al tavolo. Aveva un occhio gonfio e dal labbro spaccato le colava del sangue.
Ansimando, Zoern cercò di calmarsi. – E tu sei ancora qui? – apostrofò Linedhr, che si affrettò a eclissarsi ed eseguire gli ordini.
Deter aveva assunto anche lui un’aria imbarazzata. Siastra, invece, come ogni buon Farni era rimasta indifferente allo spettacolo, continuando a spazzolare lo stufato fino in fondo al tegame. Il silenzio si era fatto pesante.
– Andiamo – borbottò Zoern, cupo – questa ha bisogno di svegliarsi. Sarà anche muta, sarà anche tonta, ma abbiamo dato troppo peso alle sue premonizioni, e più di una volta ci ha portati fuori strada. Da quando siamo a Deresia, poi, non ha fatto che procurarci guai.
– È vero – annuì Siastra, con la bocca piena, finendo di inghiottire l’ultimo boccone di pane. – Piagnucola, gesticola, e non si capisce cosa voglia dire. Neanche Linedhr ci riesce, ormai. Prima lui ci capiva qualcosa, almeno.
– Per me sta uscendo di testa del tutto. Prima o poi me ne dovrò sbarazzare, non è stata un buon affare, e se non riesce a fare neanche i suoi lavoretti ci sarà solo di peso. Adesso rialzati, e siediti, stupida.
L’espressione di Zoern cambiò di colpo, e si disinteressò della ragazzina. Stava guardando di sottecchi una figura che era entrata nel locale, da sola, e si era seduta a un piccolo tavolo al centro, spazzolandolo con un fazzoletto prima di poggiarvi i gomiti.
– Perfetto – mormorò. – Quello è perfetto.
Siastra, che appoggiata al muro di traverso riusciva a seguire la direzione dello sguardo, osservò a sua volta il nuovo venuto. Deter invece gli dava le spalle e non poteva voltarsi senza attirare l’attenzione.
– Ma è un uomo o una donna? – chiese la Farni.
– E che ne so. Però è da solo, disarmato, e ha l’aria di avere una borsa piena.
– Non mi piace, Zoern, sembra troppo facile. Possibile che un riccone così ben vestito se ne vada in giro di sera senza scorta e senza armi?
– Controlleremo. Se c’è una scorta qui fuori Lin la vedrà senz’altro. Ma di solito se li portano dentro. No, ascolta me: è chiaro che questo è uno di quei tipi che non si curano del pericolo, è troppo smorfioso e pieno di boria per pensare che qualcuno possa aggredirlo. Mi sa di un qualche cortigiano, un poeta, un musicista… uno di quegli artisti parassiti, insomma. È quasi un piacere ripulire uno così. Aspettiamo che esca, faremo un lavoretto silenzioso.
Incuriosito dalla conversazione, alla prima occasione, fingendo di raccogliere un oggetto caduto, Deter si chinò e diede un’occhiata furtiva.
Vide una persona molto giovane, vestita di un completo di lussuoso velluto marrone ornato di pizzi: braghe attillate e un giubbotto lungo dal collo alto. I capelli chiari erano abbastanza corti e mossi, il viso pareva avere una traccia di belletto. Eppure, nell’insieme, sia per un certo non so che nell’aspetto, sia per il fisico, sottile ma privo di forme, sembrava più un uomo che una donna. Lo sguardo degli occhi scuri mostrava disgusto per l’intero universo.
Per una volta si sentì di dar ragione a Zoern: quello era un tipo molto strano ma non pareva pericoloso.
Per parte sua, Venja, dalla posizione in cui era, senza neppure voltarsi, sembrava aver avvertito la nuova presenza. Aveva gli occhi dilatati in un terrore infinito, come chi ha visto un demonio in persona, e se in quel momento Zoern avesse continuato a ucciderla di botte, non se ne sarebbe neppure accorta.
Avrebbe dovuto essere il momento più bello della sua vita. Temlan se lo ripeteva di continuo, amaramente, mentre passeggiava fuori città, nei campi, lontano dalla vista di tutti.
Invece sul suo cuore era sceso l’inverno, non le importava più niente di sé e neppure del mondo esterno, ogni mattina si alzava senza desiderio di vita, ogni notte piangeva e non riusciva a prendere sonno, ogni giorno rifiutava il cibo.
Il ricordo stesso della felicità, del recente passato, di ogni singolo istante di gioia o speranza, quando ancora non poteva immaginarsi quell’orribile incubo che era il presente, le riusciva amaro come il veleno, beffardo come uno scherzo atroce della sorte, e non vedeva più alcun futuro davanti a sé.
Non era che la comune malattia dell’amore disperato, respinto. Eppure ciascun singolo mortale che l’aveva provata nel corso del tempo aveva creduto il suo caso unico, peggiore di chiunque altro, irrisolvibile, fonte di un dolore che non si poteva contenere o misurare.
Più il malcapitato era giovane, più gravi e drammatici erano di solito i sintomi. E Temlan non aveva neppure vent’anni.
La cosa più ridicola era che qualunque ragazza, nel paese di Lianlai, la terra dell’Acqua, ignara del suo attuale dolore avrebbe provato invidia per lei, per tutto quanto era: bella, intelligente, saggia, dotata, tanto da essersi guadagnata la tunica azzurra, e appartenere alla schiera delle persone più influenti, potenti e rispettate, i Tramiti, Uomini e Donne d’Acqua.
Fin da bambina, da quando i maestri esortavano gli allievi a provare il Contatto, lei era stata una dei più bravi. Istintivamente comunicava con la Grande Matrice e imparava in fretta a dominare il pensiero e lo slancio.
L’avevano avviata con pochi altri eletti alla Scuola dove si formavano i futuri reggitori. Terminati i corsi con i migliori giudizi, era partita come tradizione per l’anno di raccoglimento e di esilio, nell’eremo delle cento fontane, prima di affrontare la prova finale nella piazza della capitale, di fronte al fiume Anello, insieme con gli altri allievi.
La Grande Matrice l’aveva onorata e benedetta con un’onda e un gorgo più spaventosi e imponenti di quelli di tutti gli altri. Aveva indossato con orgoglio, pazza di felicità, la tunica azzurra che d’ora innanzi sarebbe stata la sua divisa. E non vedeva l’ora di svolgere i suoi compiti per il bene del paese e del popolo.
Non mancava che un tassello, alla perfezione assoluta… un tassello solo.
Ed era stato proprio allora che il mondo le era crollato addosso.
Riviveva mille volte quella scena, come a farsi del male.
Enlan era stato suo compagno di giochi e di confidenze, fin da piccoli. Erano stati vicini di casa, vicini a scuola, almeno fino a quando le prove dell’Acqua non li avevano divisi nel destino; eppure questa differenza non sembrava pesare tra loro.
Il loro atteggiamento non era mai cambiato. Dalle scorribande in campagna, agli scherzi, alle lunghe chiacchierate, ai sorrisi, fino a quelle emozioni nello stare vicini, nello scoprire i sentimenti e i primi baci, tutto era stato così spontaneo e naturale, emozionante e insieme tranquillo; a vederli parevano proprio fatti per stare insieme. Lo dicevano tutti.
Lei non avrebbe mai potuto amare nessuno quanto amava Enlan. Sentiva il suo cuore traboccare di un affetto che non si poteva esprimere, che faceva venir voglia di piangere di gioia e di ringraziare la sorte ogni istante. E lui la ricambiava con la stessa sincera intensità, le giurava di continuo amore eterno.
Se la loro passione non era arrivata a compimento, era solo perché l’anno di raccoglimento, per chiamare e custodire in sé il potere dell’Acqua, richiedeva un animo puro e tranquillo, per essere affrontato con serenità. Anche se troppe volte le loro mani ansiose, frugando sotto i vestiti, erano state vicine a trasgredire.
Si era allontanata da lui con malinconia e rimpianto ma senza alcun timore. Per un anno aveva vissuto solo per l’idea di poterlo rivedere, ripetendosi nella mente i giuramenti e le parole di quel commiato, continuando a raffigurarsi ogni suo gesto, ogni lineamento con lo sguardo della mente.
Non l’aveva visto alla cerimonia. Già questo avrebbe dovuto inquietarla. Ma era così sicura da non avervi fatto caso, da immaginare un qualsiasi contrattempo o la paura di emozionarsi troppo.
Era andata a cercarlo, godendo di quell’attimo, pregustandolo: lo avrebbe rivisto, lo avrebbe stretto fra le braccia, avrebbe potuto finalmente chiedergli di sposarla. Doveva essere lei a farlo, certo. Era il più alto in grado a dichiararsi, per tradizione. Del resto, chi non sarebbe stato orgoglioso e felice di sposare una delle persone più importanti di Lianlai? Nessuno poteva rifiutarlo, non era neppure prevista un’idea del genere. Anche perché la sensibilità eccezionale portata dalla comprensione stessa dell’Acqua non poteva ingannarsi al momento della scelta. Né erano mai accaduti litigi o separazioni, un compagno di una tunica azzurra lo era fino alla morte.
Così, sicura e fiduciosa, aveva raggiunto la casa di Enlan, che studiava ancora per diventare, un giorno, un costruttore di ponti.
Non aveva fatto caso allo sguardo strano con cui l’aveva accolta la madre di lui, senza abbracciarla né farle complimenti, ma tenendo la testa bassa e parlando per mezze frasi, come in preda all’imbarazzo. Immaginò che fosse per soggezione della tunica. Ancora era cieca e sorda, nessun sospetto.
Enlan era venuto fuori, le aveva sorriso, l’aveva abbracciata, ma senza calore. In quel momento, solo in quel momento, una punta di gelo si era insinuata nel suo animo.
Le aveva chiesto di andare in giardino, per parlare. Aveva avuto almeno la sensibilità di capire perché fosse venuta, e non le aveva lasciato l’imbarazzo di dichiararsi. Aveva parlato lui per primo.
A voce bassa, tenendo la testa china, tutto d’un fiato e senza mai interrompersi le aveva detto che le voleva ancora molto bene, ma in quell’anno erano successe molte cose…aveva incontrato una ragazza, una come lui…
Aveva detto proprio così, “una come lui”, ed era stato allora che il cuore era divenuto ghiaccio, traboccante dello smarrimento di non aver capito nulla, di essere stata una sciocca, una presuntuosa, a credere che a lui non importasse essere diverso da lei. Ormai sentendosi una statua di pietra senza vita, aveva ascoltato il resto del discorso.
Aveva udito il nome dell’altra (la conosceva, l’aveva sempre giudicata insignificante) e che erano fidanzati e stavano per sposarsi.
Poi lo aveva sentito pronunciare le solite scuse, che mille e mille volte gli uomini traditori hanno ripetuto e ripeteranno: che lei era speciale, eccezionale, diversa da tutti, che lui non la meritava, non l’aveva mai meritata, e avrebbe trovato sicuramente qualcuno migliore, più degno di lei, nel suo nuovo ruolo, e l’avrebbe presto dimenticato…
Ma come faccio a dimenticarti, io amo te, solo te! Ti prego, non lasciarmi.
Solo allora era sbottata, pronunciando quelle frasi di supplica e di umiliazione cocente, di cui poi si sarebbe vergognata in eterno. La compassione distaccata di lui era stata già una punizione, che sentiva di meritare. Ed era fuggita in lacrime.
Da allora era iniziato l’inferno dei rimpianti, della nostalgia, del desiderio che si mescolava a una sorta di odio, forte quanto l'amore. Un distillato di tormenti che pervadeva ogni attimo. Se non lo vedeva, andava a cercare i luoghi che frequentava, sperando di incontrarlo. Se lo incontrava anche solo in lontananza, un tuffo al cuore, la vista che si oscurava e le gambe fragili come vetro erano l’unica risposta, e fuggiva per non affrontarlo. Aveva provato il desiderio irrefrenabile di far del male a lei, all’altra. Persino di scatenare l’Acqua, per vendetta.
Ma si era vergognata di quel pensiero sacrilego. Non era certo così che l’avrebbe riavuto per sé, l’avrebbe maledetta e odiata in eterno, la società l’avrebbe scacciata e l’Acqua stessa rifiutata, sarebbe morta coperta di disprezzo.
Sperava che col tempo le ferite, piano piano, si sanassero, ma non era così, anzi, ogni giorno portava con sé un tormento e un rimpianto e una desolazione più grandi, cui si aggiungevano la vergogna e lo smarrimento per il rifiuto.
Che Donna d’Acqua da poco, era, che non riusciva neppure a tenersi accanto il suo amore eterno. Umiliata, rifiutata per una rivale senza qualità. Le pareva che tutti la segnassero a dito, fra biasimo e compassione, anche se era solo una fantasia del suo delirio.
E così, giorno dopo giorno, era maturata la convinzione folle: non meritava il suo ruolo, non meritava la tunica, non meritava neppure la vita: l’Acqua avrebbe fatto giustizia di lei, le avrebbe dato finalmente l’unica pace.
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