PROLOGO
Nel buio umido della sua cella si era stretto le ginocchia al petto, rannicchiato nell’angolo più lontano dalla porta aveva coltivato la sua sofferenza nei giorni che erano seguiti la cattura.
Gli avevano lasciato il tempo per riflettere.
Aveva urlato, pianto e stretto quel corpo senza vita. L’aveva abbracciata, incurante del sangue e aveva lasciato che si mescolasse alle sue lacrime. Il dolore era stato così intenso che ancora gli bruciava nel petto.
Lui era uno specchio infranto in mille e mille pezzi.
Come polvere di vetro che si disperde nell’aria, così aveva visto svanire il vago tepore della gioia che quella ragazza gli aveva offerto. Mentre il corpo di lei scivolava via dalla sua stretta, aveva sentito la speranza sfuggirgli tra le dita e con essa la forza di reagire.
Sentiva di non avere ragioni per lottare. Perfino il peso del suo stesso corpo era un onere troppo gravoso da sopportare. Non gli importava che lo trascinassero a forza lungo il corridoio scuro che conduceva alla sala del consiglio. Non gli importava quale sarebbe stato il verdetto. Non gli importava della sua sorte.
Aveva già conosciuto quella sensazione, molto, molto tempo prima, quando un’altra donna che amava era morta e lui non aveva potuto seguirla. Lo aveva desiderato, ma quando ormai si stava lasciando andare qualcuno gli aveva teso una mano e lo aveva riportato nel mondo. Benché non lo avesse strappato del tutto alla morte.
Ora, invece, avrebbe potuto riprendere quel viaggio.
Del resto, vivere era diventato insopportabile. Una tortura peggiore di tutte quelle che i suoi carcerieri avrebbero potuto infliggergli.
Per questo, quasi non avvertì dolore quando i soldati che lo avevano scortato lo colpirono dietro le ginocchia. Cadde a terra, al centro della grande sala ottagonale e sgranò gli occhi sul marmo increspato di venature purpuree del pavimento.
Sollevò il capo verso i mosaici delle vetrate. Tra le ogive della volta e i capitelli a forma di demone delle colonne, cercò, tra le tante figure sacre che decoravano le finestre, l’immagine della Madonna. Vide la luna piena illuminare i vetri colorati ed ebbe l’impressione che quella luce azzurra lo attraversasse e gli aprisse la strada verso la fine.
Quando una nuvola passeggera oscurò quel chiarore l’uomo avvertì sulla pelle un brivido acuto, come la puntura di migliaia di aghi.
La sala era illuminata da numerose candele. Alti ceri bianchi disposti attorno alle statue sacre che riempivano quel luogo. Le fiamme si stendevano sulle antiche pietre grigie e formavano ombre danzanti sui volti immoti dei santi e dei cavalieri. Sguardi che ai suoi occhi sembrarono pesanti e cupi, rivolti in un’unica direzione e tutti sfigurati dalla stessa espressione di disprezzo e condanna.
Lui trattenne il respiro e sentì torcersi le viscere.
Tanto sembravano indignate e vive le statue, quanto parevano simili a ombre senza volto le numerose persone che occupavano i palchi di legno disposti lungo le pareti. Uomini e donne in eleganti abiti neri, col capo protetto dai cappucci dei mantelli, la cui presenza era resa percepibile solo dal loro mormorio.
L’uomo chinò il capo. Non voleva vedere. Non desiderava riconoscere i volti di amici e compagni ormai persi per sempre. Poteva sopportare l’odio che sentiva fluire dai palchi verso di sé, come fumo nero e invisibile che riempiva l’intera sala quasi fosse nebbia, ma non gli sguardi di compatimento e delusione di coloro che aveva conosciuto.
Chiuse gli occhi e il senso di colpa lo invase. Piegò ancor di più il busto in avanti, quasi fosse sul punto di crollare, e respirò a fatica l’odore dell’incenso che gli aleggiava attorno. Sentì il levarsi di mormorii femminili e sollevò le palpebre, senza però voltarsi.
Con la coda dell’occhio guardò le dame che, sconcertate e in parte ancora incredule, si portavano le mani guantate alle labbra e, con una falsa espressione di pietà sul volto, fingevano di distogliere lo sguardo da lui.
Sapeva bene ciò che quelle signore vedevano: un traditore, un assassino, un miserabile caduto tanto in basso da non poter più essere salvato. Quelle dame che un tempo cercavano di attirare la sua attenzione, ora non vedevano che un uomo disonorato, gettato a terra di fronte a quelli che erano stati suoi pari.
Percepiva con chiarezza il disgusto misto alla compassione nei loro occhi e se ne avesse avuto la forza si sarebbe ribellato all’ipocrisia delle loro occhiate.
Su di sé portava ancora i segni del crimine che aveva commesso. Il sangue rappreso macchiava i pantaloni scuri e la camicia strappata rivelava il tatuaggio sul suo petto.
Corrugò la fronte e spalancò gli occhi, mentre piegava leggermente le labbra secche e tumefatte in una smorfia indecifrabile. Deglutì, disgustato egli stesso dello spettacolo che stava offrendo, e si sollevò. Subito i suoi carcerieri calarono l’asta delle lunghe alabarde sulle sue spalle per impedirgli di muoversi, ma lui non aveva alcuna intenzione né di alzarsi in piedi né di tentare in qualche modo di ribellarsi a ciò che presto sarebbe accaduto.
Afflitto, avvilito e rassegnato, desiderava solo che quel supplizio finisse.
Guardò il giudice dritto negli occhi e sentì il dolore acuirsi ancora, come se una lama gli trapassasse il petto. L’uomo, seduto di fronte a lui su uno scranno di legno antico, era avvolto da una lunga tunica nera e al prigioniero parve l’immagine stessa della morte.
Il desiderio di protendersi verso di lui e domandare della giovane morta crebbe fino a farlo sussultare. Avvertì gli occhi infiammarsi, come fosse sul punto di piangere, ma sbatté le palpebre e tornò in sé. Quell’uomo dallo sguardo freddo che presto avrebbe reciso il filo della sua esistenza non poteva parlargli del destino della ragazza. Nessuno poteva. Ma forse lo avrebbe scoperto egli stesso di lì a breve, forse l’avrebbe incontrata una volta che fosse svanito per sempre dal mondo.
Per questo si sentì invadere da un profondo senso di pace quando il giudice fece cenno al boia di procedere. Altri avrebbero urlato, si sarebbero agitati nel disperato tentativo di sfuggire alla condanna, avrebbero proclamato a gran voce la propria innocenza, avrebbero tremato di paura e avrebbero implorato. Lui invece restò immobile, incurante di ciò che stava per accadere.
Uno dei carcerieri strappò la manica sinistra della sua camicia e lui non batté ciglio. Tuttavia, trovandosi di fronte al tatuaggio il soldato esitò e si ritrasse, spaventato da quel demone con ali spiegate che pareva fissarlo.
Un velo di tristezza calò sul volto del condannato: aveva tradito e deluso colui che lo aveva salvato. Scacciò il pensiero. Ormai non poteva più fare nulla. Per un brevissimo istante incrociò lo sguardo severo del giudice e in modo quasi impercettibile gli rivolse un cenno di assenso. Si stupì nel vederlo esitare e per un attimo sentì il proprio corpo divenire di marmo. Non voleva essere salvato. Desiderava solo che tutto finisse.
Il giudice fece un cenno al boia e questi strappò la manica rimasta della sua camicia, poi strinse il pugno destro e richiamò in esso una luce fortissima, chiara come quella del sole.
Il condannato fu costretto dalla pressione della mano sinistra del boia sul suo collo a spostare lo sguardo. Attirato dal suono di passi rapidi spostò la sua attenzione in quella direzione. Sgranò gli occhi e cercò di mettere a fuoco la figura che lentamente usciva da uno dei corridoi che si affacciavano sulla sala. La vide accennare un passo e aprire le labbra come sul punto di parlare. Sentì qualcosa agitarsi dentro di sé e fissò con aria implorante l’uomo che era sopraggiunto. Scosse il capo in un cenno di dissenso e abbassò le palpebre nel vederlo rinunciare ai suoi propositi di intervento.
In quel momento la luce nella mano del boia raggiunse il culmine e l’uomo appoggiò il palmo contro il bicipite destro dell’imputato. L’urlo di dolore riecheggiò sulle pietre antiche della sala ottagonale. Lui inarcò la schiena e mentre le pupille si dilatavano e gli occhi diventavano pozze di dolore un bruciore fortissimo si diffuse dal suo braccio attraverso tutto il corpo. Il tatuaggio che aveva sul petto s’infiammò e la stoffa della camicia attorno a esso andò in brandelli. Tutto il suo corpo sembrò tendersi fino a dilaniarsi. Come se miliardi di aghi lo stessero trafiggendo, come se un’esplosione fortissima stesse avendo origine dal suo petto. Il dolore cresceva, cresceva, cresceva… finché divenne insopportabile ed ebbe l’impressione che il suo essere dovesse svanire da un momento all’altro.
Le guardie Tuttavia, lo afferrarono per le braccia, nel tentativo di tenerlo il più fermo possibile, mentre si contorceva e agitava le gambe in modo sconnesso, senza che i piedi riuscissero a trovare un appoggio sicuro.
La sua stessa voce gli sembrò estranea, mentre il fiato gli si mozzava. Ogni cosa attorno a lui divenne opaca e distante, tutto ciò che distinse con chiarezza fu l’ombra delle sue ciglia che si abbassavano sempre più. Ma in quella nebbia riconobbe un volto, tra i molti che assistevano impassibili al suo tormento. Un sorriso beffardo e un’espressione soddisfatta gli si piantarono nel petto come la lama di una spada. Mosse le labbra per pronunciare un nome, senza però riuscire a dar forma ad alcun suono e tentò di sollevare il braccio libero, ma ormai non aveva più forza.
Il boia e i soldati lo lasciarono libero e lui cadde a terra. Il tonfo del suo corpo inerme riecheggiò qualche istante nel silenzio della sala, poi i mormorii dei presenti ripresero a scivolare tra le pietre antiche.
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