01 – L’INIZIO DELL’ARTE
L’inizio dell’arte:
la profondità della campagna
e una canzone piantando il riso.
Basho – Poesie.
Una brezza tiepida e frizzante agitò i fili d’erba che piegandosi crearono eleganti sfumature di diverse tonalità di verde sulla trapunta primaverile che copriva le colline. Lontano i meli dovevano aver già aperto i boccioli, la loro fragranza si diffondeva nell’aria e, come il delicato profumo delle ancelle che precedono la loro signora, prometteva l’arrivo imminente della fioritura dei ciliegi. Giù nella valle, attraversata dal fiume sinuoso, il riverbero del sole si rifletteva nell’acqua delle risaie e rendeva vaghe le sagome chine delle donne che piantavano il riso con le gambe immerse nelle risaie inondate, ma intonando un canto antico. Le rondini sorvolavano i campi planando sugli insetti che fuggivano spaventati dagli uomini e i grilli frinivano tra l’erba facendo eco al fischio di un falco. Oltre la valle, tra le chiome fitte degli aceri, sorgeva un castello di cui si scorgeva solo la torre a pagoda che dominava il villaggio, di piccole case di legno col tetto di paglia, così come la strada rialzata che attraversava l’intera regione e sulla quale transitavano mercanti, che trascinavano accaldati il carro con la loro merce, e soldati a cavallo, che lanciavano occhiate alle donne nei campi.
Sainan[1] slacciò il sottogola e si sfilò il cappello di paglia a tesa larga, rimanendo ad ammirare lo spettacolo della primavera che si svolgeva sotto i suoi occhi. Alzò le braccia al cielo, tirando tutti i muscoli e, sentendo la spina dorsale che si allungava, respirò profondamente prima di rilassare il corpo. Dilatò le narici come un coniglio, perché infastidita dal polline che le stuzzicava il naso; starnutì, spaventando così un’anatra selvatica e facendola fuggire dal suo nascondiglio, poi si guardò attorno sorridendo. Strinse la mano attorno alle redini del cavallo e lo guidò lungo il pendio, precedendolo.
Dal fianco della collina aveva l’impressione che il feudo di Koroginaru[2] fosse il luogo più pacifico di tutto l’Impero Si-hai-pai, quasi fosse una piccola copia del Regno Celeste, ma lo sguardo attento della donna notò le case bruciate che gli uomini del villaggio stavano pazientemente ricostruendo e l’argine franato di una risaia che ormai era solo una distesa di fango inutilizzabile, per quella stagione. Sainan strinse le dita attorno alle redini, immaginando senza difficoltà la causa di quei segni di distruzione, tuttavia cercò di dominarsi, perché le era altrettanto evidente che tutti si erano dati da fare nel tentativo di mascherare i danni prima del suo ritorno. Non avrebbe mai voluto dare motivo di dispiacere ai contadini che vivevano attorno al castello, così tornò a sorridere e proseguì la discesa cercando di ignorare i campi bruciati che intravedeva oltre gli alberi e le abitazioni distrutte ai confini con il bosco. Quando raggiunse la strada le donne che lavoravano nei campi smisero di cantare e, sollevandosi, si fermarono a guardarla, credendola un ragazzo. Lei agitò la mano per salutare e tutte le contadine risero ricambiando il saluto e arrossendo per l’errore commesso. Sainan però non se ne stupì, visto che per tutto il viaggio aveva indossato abiti maschili per essere più comoda, e anzi assunse un’espressione seria e orgogliosa, proseguendo il cammino con passo marziale e suscitando l’ilarità delle mondatrici di riso.
- Che la nostra canzone vi accompagni e vi porti fortuna, giovane signora – le disse una delle più mature, prima di rimettersi al lavoro.
Sainan chinò leggermente il capo, in un inchino di ringraziamento e proseguì, ascoltando le parole benaugurali del canto agreste. “Che la benedizione di questa canzone ricada sul villaggio e su tutto il feudo”, pensò, mentre tornava a riflettere su ciò che aveva osservato scendendo verso la strada. Si domandò se il suo attendente, Utamaru, avesse provveduto ad aiutare i contadini nella ricostruzione, se durante l’attacco ci fossero state vittime, se i soldati e i mercanti che pagava per proteggere le sue terre avessero combattuto contro gli aggressori. – Dannati Furi! – sbottò a mezza voce. Non aveva dubbi che fossero stati gli uomini del feudo confinante ad attaccare le sue terre e aumentò rapidamente il passo per raggiungere il castello il prima possibile così da poter interrogare Utamaru sull’accaduto. Si lasciò quindi il villaggio alle spalle ed entrò nel bosco, tagliato in due dalla strada, oltre il quale sapeva esserci un sentiero che conduceva alla fortezza.
La frescura di quella foresta di aceri calmò il suo spirito inquieto e la indusse a tornare con la mente all’infanzia trascorsa in quei luoghi. Con grande sorpresa Sainan la trovò più serena di quanto si sarebbe aspettata. Benché sua madre fosse morta dandola alla luce e suo padre fosse stato ucciso in duello quando lei aveva cinque anni, infatti, riconosceva che i più grandi dolori della sua vita li aveva provati solo in seguito, crescendo. “Allora ero troppo piccola per comprendere”, si disse e guardò con malinconica tristezza la torre del castello. “Quando sono tornata invece non ho potuto evitare che il mio cuore andasse in frantumi”. All’improvviso le sembrò che tutta la terra attorno a lei fosse divenuta nera di cenere e che alte colonne di fumo si levassero dal villaggio e dalla fortezza, fu costretta a chiudere gli occhi per scacciare le memorie della guerra e strinse con forza l’elsa della spada che portava al fianco per aggrapparsi a qualcosa che da sempre le aveva dato sicurezza.
Suo padre infatti non le aveva lasciato altro che una vecchia spada, un’armatura troppo grande, un vecchio ronzino e una cadente casa dispersa tra le campagne del feudo e nella quale non era tornata da quando un soldato agli ordini del suo signore venne a prenderla. Da allora la spada di suo padre era sempre stata il monito a ricordarsi chi era e da dove veniva, poiché fin da piccola Sainan aveva compreso che la sua situazione era tanto precaria quanto inusuale. Era stata accolta come orfana e serva nella casa del nobile Hiko[3], signore di Koroginaru, non avendo parenti che si prendessero cura di lei, ma, anche se dormiva e viveva con le domestiche, quasi fossero tante madri, il suo ruolo era quello di compagna di giochi del giovane figlio del principe U[4]. Sarebbe stato facile per lei illudersi di essere qualcosa di più di una delle tante persone della casa, visto che il giovane signore, che non aveva molti anni più di lei, l’aveva preferita subito ad altri in virtù del suo carattere allegro e un po’ incosciente, ma Sainan ricordava bene di come ogni sera andasse a pregare davanti all’armatura e alla spada del padre per mantenere vivo il suo ricordo e la consapevolezza di ciò che era in realtà. “Solo una persona al servizio del mio signore”, si ripeté, con un sorriso amaro. – Le cose davvero troppo cambiate da allora – mormorò, mentre ripensava all’onore che il nobile Hiko le aveva concesso permettendole di completare la propria istruzione sotto la guida del Drago Bianco, sul Monte Toomei.
Sainan provava un misto di sofferenza e orgoglio nel ricordare il giorno della sua partenza e i sette anni trascorsi tra le cime innevate e ventose dei Sin-sei-na. Era stato un periodo felice, anche se il desiderio di tornare a Koroginaru non l’aveva mai abbandonata, ma più di ogni altra cosa era stato il periodo in cui aveva deciso in che modo onorare suo padre e ripagare il nobile Hiko per la sua grande generosità. Il Drago Bianco aveva fatto di lei un’abile spadaccina e il suo unico desiderio era di mettere di nuovo la spada di suo padre al servizio del clan U, ma tornando dopo i sette anni di addestramento aveva trovato ad attenderla un lugubre spettacolo. Le campagne erano state bruciate, i villaggi distrutti e la popolazione massacrata. Il giovane signore, che era stato suo compagno di giochi, penzolava, legato per i piedi e con la testa mozzata, fuori dalle mura della stessa fortezza in cui era nato e accanto a lui bruciavano gli stendardi del suo casato, mentre quelli del signore del feudo confinante venivano stesi sopra la porta e in cima alla pagoda: il Cormorano era stato scacciato dalla Lontra. Quel giorno aveva creduto di aver conosciuto il più grande dolore sopportabile per un essere umano, ma più gli anni passavano più si rendeva conto che il ricordo di ciò a cui aveva assistito scavava nel suo cuore, come un fiume tra le rocce, rendendo sempre viva la sofferenza. Si fermò, riflettendo sul suo passato e come allora annusò l’aria, felice di non avvertire altro che l’odore fresco e intenso della terra umida.
Aveva sentito l’odore di morte fin dal mattino e si era coperta il volto con un fazzoletto per non respirare quella puzza di sangue e cenere. Si era aspettata di trovare morte e distruzione, ma ciò cui si trovò di fronte, superando l’ultima collina e affacciandosi sulla valle di Koroginaru, andava al di là della sua immaginazione: i campi erano stati tutti bruciati, non uno era stato risparmiato, e del villaggio che sorgeva ai piedi della fortezza di Haibane[5] non erano rimasti che gli scheletri vuoti di quelle che erano state le case dei contadini. L’incendio non era stato ancora del tutto domato e, nel manto nero della campagna, si vedevano lampi rossi che si agitavano al vento, e il fumo grigio appestava l’aria trasportando cenere, tanfo e grida. Sulla strada imperiale passavano i soldati con lo stendardo della Lontra appeso alla sella, orgogliosamente sistemato perché lo si potesse vedere da grande distanza. “Shigemori”, il pensiero era stato fulmineo come il montare della sua rabbia. Si era avvolta nel mantello nero per nascondere l’abito bianco, un paio di pantaloni stretti sui polpacci e una casacca delle Combattenti, e si era celata per quanto possibile dietro il cappello a tesa larga. Non che temesse di essere riconosciuta da qualcuno, erano passati sette anni da quando aveva lasciato Haibane, era partita che era una bambina, e tornava come una giovane donna temprata dai ghiacci degli Sin-sei-na. Le altre ragazze di quattordici anni o erano ancora bambine aggrappate alle bambole di paglia o erano già mogli e forse madri, ma lei, che appariva di poco più grande della sua età, aveva il fisico asciutto dei guerrieri, lo sguardo fiero delle Combattenti e non aspettava altro che offrire la sua spada al nobile Hiko signore di Haibane, principe di Koroginaru, così come aveva fatto suo padre prima di lei.
Arrivando di fronte alle mura di Haibane, Sainan aveva trovato una piccola folla di contadini che piangeva e si lamentava e, mescolandosi ad essa, si era fatta largo delicatamente tra le rubiconde signore e i fragili vecchi, finché non si era trovata faccia a faccia con la terribile realtà. Ricordava ancora l’orrore provato e la certezza che, se anche lei come gli altri presenti non avesse distolto lo sguardo, avrebbe ceduto al pianto e alla follia. Un gruppo di soldati che indossavano la casacca marrone con il simbolo del Clan Furi si era radunato sotto le mura di Haibane e dava indicazioni ai compagni in cima per sistemare lo stendardo della Lontra, altri, ubriachi della vittoria e dell’alcool, indirizzavano insulti al cadavere appeso sopra la porta e Sainan era stata costretta a tapparsi le orecchie per non cedere all’ira. Ma fu costretta a guardare di nuovo. Doveva guardare per poter credere, perché un’occhiata fugace non poteva bastarle per essere certa dell’identità del cadavere che veniva offeso. Il corpo indossava la veste bianca e blu su cui era ricamato lo stemma del Cormorano, ma lei avrebbe voluto vedere il suo volto; i nemici gli avevano tuttavia mozzato la testa. Nonostante ciò le battute dei soldati e i sussurri dei contadini le avevano già rivelato l’identità del giovane.
- Quello era il nostro principe – aveva detto una donna – Poco fa è venuto l’onorato Utamaru – sussurrò guardandosi attorno spaventata – E ha portato via la sua testa. Ma noi l’abbiamo vista bene, era proprio quella del nobile Tsubame[6].
Il cuore di Sainan aveva sanguinato. Con il coraggio degno di una Combattente, aveva guardato ancora una volta quel giovane corpo che sembrava forte, nonostante fosse ormai martoriato dalle ferite e dalle pietre, e aveva cercato di far avvicinare quell’immagine orribile al ricordo del ragazzino con cui aveva giocato, il bambino a cui aveva promesso di tornare, che aveva la carnagione chiara come una perla e capelli e occhi scuri come l’ala di un corvo. Lo immaginò adulto, ma non ancora uomo, ma era difficile per lei ricostruire le sue fattezze avendolo visto l’ultima volta che era solo un ragazzino, smilzo e dispettoso. Si era sforzata di vederlo combattere contro Shigemori, ma l’unica immagine che le era tornata alla memoria era quella di lui che le sorrideva, con malinconica dolcezza, mentre le parlava di sua madre.
- Si raccontano tante storie – aveva detto un uomo vicinissimo all’orecchio di Sainan – Io ho sentito dire che il ragazzo ha implorato Shigemori di non essere ucciso.
Sainan trasalì e tornò al presente, scacciando quei cupi ricordi e osservando la bianca torre di Haibane. Non aveva mai creduto a quelle storie e non c’era motivo perché le tornassero in mente in quel momento. Lei era certa che il nobile Tsubame non fosse stato costretto ad implorare di fronte all’uomo che aveva ucciso sua madre, che aveva distrutto la sua terra e scacciato suo padre. “No, pensò, Tsubame non può aver implorato. Piuttosto si sarebbe gettato sulla spada del suo nemico di spontanea volontà”. Erano passati anni da quando lo aveva conosciuto e, così come lei era cambiata, probabilmente anche il principe era mutato e non era del tutto certa che potesse essere cresciuto così come lei si era aspettata, ma il principe Tsubame dei suoi ricordi non era affatto un codardo. Era stata questa certezza e il rispetto che provava per il nobile Hiko, suo padre, a spingerla a cercare l’esercito di Haibane e, dopo tre giorni, fuggendo e nascondendosi dai soldati del casato Furi, Sainan era riuscita a congiungersi con l’esercito del suo signore, il nobile U, arroccato sulle colline attorno alla valle e decimato dei suoi elementi migliori.
“È passato molto tempo da allora”, pensò, inchinandosi mentre passava sotto lo stendardo del Cormorano che campeggiava fiero sopra la porta d’ingresso della fortezza di Haibane. – Le Ali Grigie del Cormorano, si aprono ancora sulla Valle in cui cantano i grilli – recitò, alzando lo sguardo sulla pagoda dai tetti color cenere.
- Guardate come siete ridotta! – disse la voce di una donna dall’ombra di uno dei bassi edifici che circondavano il cortile.
- Anna[7]! – la chiamò Sainan, sorridendo, mentre un gruppo di giovani servitori le correva incontro per occuparsi del cavallo e del bagaglio.
- Il nobile Hiko si rivolterebbe nella tomba – disse la donna osservandola con sguardo severo.
Anna era una donna bassa e robusta, con qualche filo grigio tra i capelli castani che legava in una crocchia sulla nuca, grandi occhi marroni, che denotavano un’astuzia non comune tra le persone del popolo, e un viso pieno e tondo che ben si accordava al corpo dalle forme morbide e un po’ cadenti per via dell’età. Sainan la osservò con attenzione, temendo che fosse cambiata, benché non fossero state separate che per pochi giorni, ma forse quello che temeva era di essere mutata essa stessa.
- Mia signora, siete così coperta di fango e polvere che né il bianco della vostra anima, né il grigio delle vostre ali è più visibile né ad amici, né a nemici – la rimproverò con dolcezza – Sembrate più un corvo, portatore di disgrazie, che un Cormorano.
Sainan sorrise, poiché il suo nome significava proprio “sventura” e quello di suo padre era stato Karasu, cioè corvo; ma non era solo per questo che le parole della governante l’avevano divertita. – Rallegrati invece, mia cara Anna – ripose – Perché questo Corvo di Sventura è portatore di ottime notizie!
La donna si portò le mani al volto e i suoi occhi divennero lucidi come quelli di un pesce. – Avete ottenuto il denaro! Mia signora, ce l’avete fatta!
Sainan sorrise appoggiando le mani alle spalle della donna. – Sì, Anna, ho parlato con il Drago Bianco e con l’Imperatore in persona. Ho ottenuto il denaro! Possiamo costruire la diga che ci proteggerà dalle inondazioni. La nostra gente non dovrà più temere di perdere tutto ogni autunno.
Anna si abbandonò a un pianto di gioia asciugandosi inutilmente gli occhi con la manica della veste. – Raccontatemi ogni cosa, mia signora, come siete giunta fino al nostro divino Imperatore? Ditemi tutto!
- Non ora Anna – rispose Sainan – Adesso ho bisogno di un bagno, di un pasto e di una notte di sonno. Credi di poter provvedere?
La serva ritrovò tutta la sua composta efficienza e annuì, inchinandosi. – Come desiderate, nobile U.
- E poi vorrei parlare con Utamaru – aggiunse Sainan in tono più serio.
- Così lo avete notato – Anna scosse il capo e intrecciò le braccia sul petto – C’è poco da dire, signora: siamo stati attaccati di nuovo.
Sainan storse le labbra in un’espressione di malcontento. – Quel dannato di Shigemori prima o poi me la pagherà cara.
La serva non rispose, ma in cuor suo sperò che l’uomo che era stato causa di tante disgrazie per Haibane non si trovasse mai abbastanza vicino alla sua signora, perché, per quanto Anna stimasse Sainan anche come guerriera, provava un profondo terrore di Shigemori, che era stato in grado di uccidere sia suo padre che il nobile Hiko.
Sainan finse di non accorgersi dell’espressione tesa della donna, si spolverò i larghi pantaloni e la casacca, per non portare troppa terra in casa, come faceva sempre, e seguì Anna. Arrivata di fronte alla veranda si sedette e slacciò le stringhe di cuoio che tenevano legata la stoffa dei calzoni attorno ai polpacci, sfilò le calzature ed entrò respirando a pieni polmoni l’odore del legno di cipresso delle travi del tetto. “Odore di casa”, pensò. Mentre passava di fronte a quella che era stata la stanza del nobile Hiko, si fermò, sbirciando all’interno, ed inchinandosi all’armatura bianca disposta accanto all’altare, davanti al quale si levava un sottile filo di fumo d’incenso.
[1] Sventura.
[2] Grilli che suonano.
[3] Volo.
[4] Cormorano.
[5] Ali Grigie.
[6] Rondine.
[7] Simile.
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