Dodici Padroni
La navata era cosparsa di una sostanza lattiginosa dall'odore nauseabondo di deiezioni ed umori umani, una schiuma disgustosa che temé di riconoscere. Malqvist intinse un dito in una macchia di quella roba, la succhiò per sincerarsene:
– È ectoplasma.
– Che sarebbe?
– Non vuoi saperlo, fa troppo schifo.
– Ma che significa?
– Dovremmo andarcene.
Festermannen inghiottì, finse un coraggio che non aveva, la foia stupida della sapienza gli fece uscire parole grosse:
– Ti ho pagato la caparra: tu mi porti fino in fondo –; carezzò il calcio della pistola per darsi l'aria che non scherzava.
– Se mi ammazzi resti solo.
– Resti morto: cosa scegli?
Lui ghignò fra sé che a quel quattrocchi da biblioteca poteva, adesso, spaccargli il cranio con un fendente: ecco cosa. Mi minaccia! Due libri letti, gingilli a miccia e si credono chissà chi!
– Proseguiremo, se proprio insisti. Ma questo muco la dice grama.
– Mi sembra bava: megalumacidi? Hai un'ascia, ci sai fare: mica che temi quei mostri viscidi?
– Di 'sta stagione non ce ne sono. È ectoplasma, ho detto: spettri.
Festermannen scoppiò a ridere: quelle risate ostentate e forti, ma che tradivano la fifa nera che lo bagnava e l'impallidiva.
La traversata a quel brutto posto era durata per tutto il giorno, prima in sella poi a piedi per una selva di abeti morti. I sentieri e la sterrata – che bene o male promettevano un "qualche parte" – si interruppero nel bosco sotto una coltre di foglie secche, quando apparve in lontananza la guglia erosa di quella chiesa. E il professore esultò che sì: era il luogo che cercava – com'è descritto nei testi antichi e nei verbali degli inquisiti!
A lui, però, se pure ne parlavano i vecchi libri dei maghi, certe storie ed edifici non piacevano granché.
Ma il quattrocchi lo pagava, per portarlo fino a là.
Persero ore di scarpinata nella boscaglia che si infittiva, la sensazione di allontanarsi quanto più si muovevano verso il tempio. Quando ormai ci rinunciarono, e minacciati dall'imbrunire, si ritrovarono sdraiati, esausti, a riprendere le forze su gradini di antracite.
Quella fauce buia, gotica, di un edificio ingarrotato di rampicanti.
Piante grigie e rinsecchite ma che sembravano ghermire i massi, un necrotico rigoglio e un'appassita rifioritura.
Lui lo sapeva che in certi posti è meglio entrarci col sole in cielo, quando è giorno, quando è caldo e se è possibile col pranzo in corpo:
– Accampiamoci – propose – domattina esploreremo.
Ma Festermannen tremò dei lupi che udì latrare nella foresta, delle fughe e i calpestii che echeggiavano nel folto.
– Sono lontani, li porta il vento. Gli animali qui non vengono – Malqvist lo assicurò: mica scemi, gli animali. Mica come i tombaroli.
L'imbecille era già corso a rifugiarsi nella chiesa.
Rifugiarsi. Come no.
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