– Dammi retta, Malqvist – disse Irene – ché questa volta ne sei uscito davvero male.
Lui calciò la pelle logora di lupo e le coperte di lana grezza che puzzavano di amore: stesi nudi a una candela che si accorciava su uno sgabello, e pizzicati dal freddo infame di quella stanza da pochi astragali, muffe e scarafaggi, la ragazza gli si strinse rabbrividendo ai bicipiti, il torace. E intrecciarono le gambe. Gli baciò la fronte e il collo – l'accarezzò – con la pena e con l'affetto per i deboli e malati. Mezz'ora prima le parolacce – se lo voleva mangiare vivo – ora, invece, quella afflizione tipo le monache nei lazzaretti e i sospiri di una mamma.
– Non un graffio – protestò – le cicatrici che già conosci.
Si vantò che la sua buccia, luccicante di sudore, non fosse ruvida alle carezze di Irene che dei segni carnicini di vecchie zuffe e battaglie vere. La congrega dei necrofagi che accoppò lo scorso mese, sghignazzò – inorgoglito della sua forza – con quelle clave, quei denti, l'unghie e le lance di ossidiana – non lo avevano sfiorato né tagliuzzato la calzabraga.
Quei balordi. 'Sti incapaci. Non è stata un'avventura.
– Te ne vanti – Irene lo spernacchiò. Prese la pelle e le coltri sudicie sul pavimento, ammucchiate a pie' del letto, e coprì di nuovo entrambi dal tormento dell'inverno – ma hai sofferto un maleficio, ti ha parecchio buttato giù.
– E tu ci credi?
Non gli rispose.
– Io sto bene – le mentì.
Non è stata un'avventura, tornò a ripetersi inghiottendo amaro.
Era sceso, coi compari, in una cripta da saccheggiare: colpi d'ascia a ghoul e ratti e tutti ricchi coi sacchi pieni. Ma lo sciamano dei mangiamorti, in effetti… era stato un po' un problema. Gli cantò contro parole cupe che lo persuasero a far fuori gli altri, casomai non ne fosse già tentato; gli insinuò intenzioni estranee: mozzò le teste dei vecchi amici di scorribande e intascò la loro parte; fu sei volte più arricchito ma altrettante più carogna. Poi, confuso – e imbambolato da quel berciare yayaffanctulu – voltò le spalle e fuggì di corsa dal sotterraneo permettendo al negromante di ritornare ai suoi studi sporchi; grida e pianti di bambini da una scala che sprofondava nel buio pesto.
Ma perché lo aveva fatto, se mai davvero lo aveva fatto?
Tornato in Handelbab, dai committenti – quegli antiquari che gli pagarono la razzia di carabattole – raccontò, ingollando birre, tutta un'altra e eroica storia; stesse plausibili spacconate cui volle credere anche Irene, quella sera.
E anche lui, con il trascorrere dei giorni a letto, a sbafare ed imbriacarsi, finì con il persuadersi di un'altra verità.
Com'è andata, veramente? Si domandava a sguardo fisso al soffitto.
– Hai le traveggole – lo scosse Irene.
– È il vino forte, mi dà alla testa.
– L'hai sempre retto bene.
– Mi hai sfiancato, piccolina.
– Non hai goduto – lei gli disse offesa. Frugò a terra, tra i vestiti, e ritrovò le cinque misere monete che stimava il proprio corpo: – ti rimborso – lo umiliò.
Non avrebbe mai capito, povera santa di quindici anni, gli occhi azzurri e il pelo nero – si intristì Malqvist: non le rispose – che loro ladri, assassini e maghi non la cercavano per le sue forme: seni acerbi e gambe secche come quelle degli zombi. Le compravano uno sguardo, le parole, le ore insieme; la bugia che a Thanatolia c'era qualcuno con cui parlare. Le pagavano la pace, benché, era vero, scopasse bene.
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