Riley North è una mamma felice, ha un marito che la ama, una figlia che adora e un lavoro tranquillo con il quale contribuisce al mantenimento della famiglia. Un giorno però davanti ai suoi occhi tutto le viene strappato via violentemente, e marito e figlia cadono crivellati dai mitra di un gruppo di malviventi. Viene fuori che il consorte di Riley aveva solo ipotizzato di fare insieme a un amico un colpo ai danni del capo della droga locale, e per questo lo hanno freddato. Quando la donna riprende conoscenza dopo mesi di coma è in grado di riconoscere i tre scagnozzi che le hanno sparato, però, a causa di polizia e giudici corrotti, questi riescono a farla franca. Cinque anni dopo un killer inizia ad ammazzare tutti quelli coinvolti nel caso, e polizia e il cartello della droga si mettono sulle tracce dell’angelo della vendetta.
Peppermint – L'Angelo della vendetta ha un unico pregio, quello di aver riportato Jennifer Garner dopo una serie di commediole smielate a vestire di nuovo i panni dell’eroina cazzuta con mascella quadrata e sguardo da cerbiatto come ai bei tempi di Alias. Il film però è un mix dei peggiori revenge movie in circolazione, dove la sceneggiatura è stata considerata una velleità superficiale praticamente in ogni aspetto del film. Passi l’incipit già sentito mille volte e che qui ha l’unica originalità del cambiamento di genere dell’eroe, ma pure dove dovrebbe esserci un minimo di spiegazione necessaria a far empatizzare lo spettatore, non viene speso neanche un secondo per il racconto. Riley in teoria ha passato cinque anni ad allenarsi disperatamente con l’intento di tornare a casa e uccidere i cattivi, ma di questa preparazione non c’è traccia, e tutto viene raccontato con uno spiegone tra un paio di personaggi secondari.
Lasciamo poi perdere i numerosi episodi con deus ex machina che costellano praticamente tutta la pellicola, come Riley che trova fortunatamente cose che le permettono di non venire uccisa ogni due secondi. Fastidiosa anche la rappresentazione dei villan, un gruppo di messicani coi tatuaggi in faccia, muscolosi, in canotta e con la catena d’oro al collo, pensati come prototipo del cattivo da cartoon per la classe media bianca americana. Perché poi Riley sia soprannominata angelo della vendetta dai barboni in mezzo ai quali si è messa a vivere, non ci è dato sapere.
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