Ciò che devi ricordare è questo: la fine di una storia è solo l’inizio di un’altra. È già accaduto, dopo tutto. La gente muore. I vecchi ordini passano. Nascono nuove società. Quando diciamo: “È la fine del mondo”, di solito è una bugia, perché in realtà il pianeta sta bene. Ma questo è il modo in cui finisce il mondo.
Questo è il modo in cui finisce il mondo.
Questo è il modo in cui finisce il mondo.
Per l’ultima volta.
Prologo
Tu sei qui
Cominciamo dalla fine del mondo, perché no? Chiudiamo la questione e passiamo ad argomenti più interessanti. Innanzitutto una fine privata. C’è una cosa a cui lei non smetterà mai di pensare nei giorni a venire, mentre s’immaginerà com’è morto suo figlio e cercherà di dare un senso a qualcosa di congenitamente insensato. Coprirà il corpicino straziato di Uche con una coperta – ma non il viso, perché lui ha paura del buio – e gli siederà accanto intorpidita, insensibile alla fine del mondo che si sta consumando di fuori. Dentro di lei il mondo è già finito. Ed entrambe le fini sono già accadute. Ormai ci ha fatto l’abitudine. Allora, e dopo di allora, penserà: “Ma lui era libero”.
E ogni volta che il suo io confuso e sconvolto riuscirà a pronunciare questa quasi domanda, il suo io amareggiato e stanco risponderà:
“No, non lo era. Non del tutto. Ma adesso lo sarà.”
E ora, il contesto. Ripartiamo dalla fine, del continente, questa volta.
Ecco una terra.
È una terra ordinaria come tutte le terre. Montagne e altopiani, canyon e foci di fiumi: le solite cose. Usuale in tutto, tranne che per dimensioni e dinamismo. Si muove molto, questa terra. Come un vecchio che giace irrequieto nel letto, si solleva e sospira, si contrae e scoreggia, sbadiglia e deglutisce. Allora, gli abitanti di questo continente l’hanno chiamato l’Immoto. È una terra di pacata, amara ironia. L’Immoto ha avuto altri nomi. Un tempo c’erano molte terre. Ora è un unico continente ininterrotto, ma in un imprecisato futuro tornerà a essere diviso.
Molto presto, in realtà.
La fine comincia in una città: la più antica, grande e magnifica città vivente del mondo. Il suo nome è Yumenes e un tempo era il cuore di un impero. È ancora il cuore di molte cose, benché l’impero sia appassito negli anni, dopo il rigoglio della prima fioritura, come fanno gli imperi.
Non è la dimensione a rendere unica Yumenes. Ci sono molte grandi città in questa parte del mondo, inanellate intorno all’equatore come una cintura continentale. Altrove, i paesi crescono di rado fino a diventare cittadine e le cittadine si trasformano di rado in città, perché è difficile tenere in vita tutte queste entità organizzate quando la terra cerca continuamente di inghiottirle… Ma Yumenes è rimasta stabile per la maggior parte dei suoi ventisette secoli.
Yumenes è unica perché soltanto qui gli esseri umani hanno osato costruire non per la sicurezza, non per le comodità, e nemmeno per la bellezza, bensì per audacia. Le mura della città sono un capolavoro di delicati mosaici e bassorilievi che raccontano la lunga, brutale storia della sua gente. I numerosi agglomerati di edifici sono punteggiati da alte torri simili a dita di pietra, da lanterne lavorate a mano e alimentate da quella meraviglia moderna che è l’energia idroelettrica, da ponti che disegnano archi di cristallo leggeri e temerari e da strutture architettoniche chiamate “balconi”, così semplici e al tempo stesso così ardite e mozzafiato che, a quanto risulta dalla storia scritta, nessuno le aveva mai costruite prima. (Ma gran parte della storia non è mai stata scritta: non bisogna dimenticarlo.) La pavimentazione delle strade non è di ciottoli facili da sostituire, ma di una miracolosa sostanza liscia e senza soluzione di continuità che i locali hanno soprannominato “asfalto”. Persino le baracche di Yumenes sono coraggiose, perché hanno muri così sottili che una tempesta di vento le farebbe crollare, per non parlare di un terremoto. Eppure continuano a restare in piedi, come fanno da generazioni.
Nel cuore della città ci sono molti grandi edifici, e forse per questo non è sorprendente che ce ne sia uno più grande e più audace di tutti gli altri messi insieme: una struttura massiccia la cui base è una piramide di ossidiana tagliata con la massima precisione a forma di stella. Le piramidi sono la forma architettonica più stabile e questa è cinque volte una piramide; d’altra parte, perché no? E visto che ci troviamo a Yumenes, in cima alla piramide è collocata una grande sfera geodetica le cui superfici sfaccettate paiono d’ambra traslucida, e che sembra tenersi in un equilibrio effimero, mentre in realtà ogni elemento della struttura è destinato all’unico scopo di sostenerla. Ha un aspetto precario: questo è ciò che conta.
La Stella Nera è il luogo in cui s’incontrano i capi dell’impero per le loro incombenze capesche. La sfera d’ambra è dove tengono l’Imperatore, accuratamente preservato e in condizioni perfette. Lui percorre i corridoi dorati con aristocratica disperazione, facendo ciò che gli viene detto e paventando il giorno in cui i padroni decideranno che sua figlia è più ornamentale di lui.
Non che questi luoghi e queste persone abbiano alcuna importanza, comunque. Li presento solo per fornire un contesto.
Ma ecco un uomo che d’importanza ne avrà molta. Puoi provare a immaginarti il suo aspetto, per il momento. Puoi anche immaginare ciò che sta pensando. Potresti sbagliarti, fare mere congetture, ma esiste sempre un certo grado di probabilità. In base alle sue azioni successive, solo alcuni pensieri possono attraversargli la mente in questo istante.
È su una collina, non lontano dalle facce di ossidiana della Stella Nera. Da qui riesce a vedere quasi tutta la città, a odorarne il fumo, a perdersi nel suo brusio. C’è un gruppo di giovani donne che camminano su uno dei sentieri d’asfalto sotto di lui; la collina è all’interno di un parco molto amato dai residenti della città. (“Tenete il verde all’interno delle mura” esorta la litodottrina, ma nella maggior parte delle comunità la terra è trattata con legumi e altre colture fertilizzanti. Solo a Yumenes si modella il verde per la sua grazia.) Una delle giovani dice qualcosa che fa ridere le altre e il suono fluttua fino all’uomo su un refolo di brezza. Lui chiude gli occhi e assapora il tremolo tenue delle loro voci, l’eco ancora più tenue dei loro passi, come un battito d’ali di farfalla contro le sue sensipinae. Non può sensire i sette milioni di abitanti della città, badate: è bravo, ma non fino a questo punto. Comunque sì, la maggior parte di loro è lì. Qui. Lui respira a fondo e diventa tutt’uno con la terra. Calpestano i filamenti dei suoi nervi; le loro voci gli vellicano la peluria sulla pelle; i loro respiri increspano l’aria che gli scende nei polmoni. Sono sopra di lui. Sono dentro di lui.
Ma sa che non è, e non sarà mai, uno di loro.
«Lo sapevi» dice in tono discorsivo «che la prima litodottrina fu veramente incisa sulla pietra? Perché non la si potesse cambiare per adeguarla alla moda o alla politica. E perché non si potesse cancellare.»
«Lo so» dice la sua compagna.
«Già. Probabilmente c’eri quando è stato stabilito, me ne dimenticavo.» Sospira guardando le donne che si allontanano. «Amarti è una sicurezza. Non mi abbandonerai. Non morirai. E conosco il prezzo in anticipo.»
La sua compagna non risponde. Lui non si aspettava davvero una risposta, benché un po’ ci sperasse. È stato molto solo.
Ma la speranza è irrilevante, come molti altri sentimenti che gli causerebbero solo disperazione se ci si soffermasse di nuovo. Lo ha già fatto abbastanza. Il tempo dell’esitazione è finito.
«Un comandamento» dice allargando le braccia «è inciso nella pietra.»
Immaginate che il suo viso sia indolenzito dal sorriso. Sorride da ore a denti stretti, le labbra tirate indietro, gli occhi strizzati che mostrano una raggiera di zampe di gallina. Sorridere in modo che gli altri ti credano è un’arte. Devono sorridere anche gli occhi, altrimenti sapranno che li odi.
«Le parole cesellate sono assolute.»
Non si rivolge a nessuno in particolare, anche se accanto all’uomo c’è una donna… più o meno. La sua imitazione del genere umano è solo superficiale, di cortesia. Così come l’abito morbidamente drappeggiato che indossa non è di tessuto. Ha semplicemente modellato una parte della sua sostanza rigida per soddisfare le preferenze delle fragili creature mortali tra le quali si muove al momento.
Da una certa distanza l’illusione che si tratti di una donna immobile funzionerebbe, almeno per un po’. Da vicino, tuttavia, qualunque ipotetico osservatore noterebbe che la sua pelle è porcellana bianca, non in senso metaforico. Una bella scultura, se fosse tale, benché realistica in modo troppo indelicato per il gusto locale. La maggior parte degli abitanti di Yumenes preferisce l’astrazione garbata alla volgare realtà.
Quando si volta verso l’uomo – lentamente: i mangiapietra sono lenti sulla terra, tranne quando non lo sono – il movimento trasforma la sua artificiosa bellezza in qualcosa di completamente diverso. L’uomo ci si è abituato, ma evita di guardarla lo stesso. Non vuole che la repulsione rovini questo momento.
«Che cosa farai?» le chiede. «Quando sarà successo. La tua specie sorgerà dalle macerie e prenderà il mondo al posto nostro?»
«No» dice lei.
«Perché no?»
«Pochi di noi sono interessati a questo. Comunque, tu sarai ancora qui.»
L’uomo capisce che non parla solo di lui. La tua specie. Il genere umano. Lo tratta spesso come se rappresentasse la sua intera specie. Lui fa lo stesso con lei.
«Sembri molto sicura.»
A questo lei non risponde. I mangiapietra si danno raramente la pena di dichiarare l’ovvio. Lui ne è contento, perché la sua parlata lo infastidisce: non fa vibrare l’aria come la voce umana. Non sa come avviene. Non gli importa saperlo, vuole solo che stia in silenzio.
Vuole che tutto sia silenzio.
«Basta» dice. «Per favore.»
E poi si tende, con tutto il capillare controllo che il mondo gli ha estorto attraverso il lavaggio del cervello, le pugnalate alle spalle e l’abbrutimento; con tutta la sensibilità che i suoi padroni gli hanno instillato attraverso generazioni di stupri, coercizione e selezione altamente innaturale. Le sue dita si aprono e fremono mentre lui sente i diversi punti che si riverberano sulla mappa della sua consapevolezza: i suoi compagni schiavi. Non può liberarli, non concretamente. Ci ha già provato e ha fallito. Tuttavia, può fare in modo che la loro sofferenza serva una causa più grande dell’arroganza di una città e della paura di un impero. Allora s’inabissa e afferra la vastità animata, pulsante, accesa, multiforme della città e il letto di roccia più quieto al di sotto e il ribollire tumultuoso di calore e pressione ancora più giù. Poi si espande e abbraccia il grande puzzle in movimento che è la crosta terrestre su cui siede il continente.
Infine si erge. Per il potere.
Prende tutto questo – gli strati e il magma e la gente e il potere – nelle sue mani immaginarie. Ogni cosa. La tiene. Non è solo. La terra è con lui.
Poi la spezza.
Ecco l’Immoto, che non è immoto nemmeno nelle giornate buone.
Adesso ondeggia, rimbomba, nel cataclisma. Ora c’è una linea, approssimativamente da est a ovest, troppo diritta, quasi perfetta nella sua evidente anomalia, che corre lungo la circonferenza dell’equatore. Il punto di origine della linea è la città di Yumenes.
La linea è profonda: una ferita fino alla carne viva del pianeta. Il magma sgorga nella sua scia, nuovo e incandescente. La terra è brava a guarire se stessa. Questa ferita si chiuderà in fretta in termini geologici, poi l’oceano purificatore userà la sua cicatrice per dividere l’Immoto in due terre. Fino a quel momento, tuttavia, la ferita suppurerà non solo per il calore, ma anche per il gas e la cenere scura e granulosa, così tanta da soffocare il cielo sulla faccia dell’Immoto in poche settimane. Ovunque le piante avvizziranno e gli animali che se ne nutrono moriranno di fame. L’inverno sarà precoce e rigido e durerà molto, molto tempo. Finirà, naturalmente, come ogni inverno, e il mondo tornerà al suo vecchio sé. Alla fine.
Alla fine.
Gli abitanti dell’Immoto vivono perennemente pronti al disastro. Hanno costruito muri e scavato pozzi e messo da parte viveri e possono sopravvivere senza difficoltà cinque, dieci, persino venticinque anni in un mondo senza sole.
Alla fine in questo caso significa fra qualche migliaio di anni. Ecco, le nuvole di cenere si stanno già propagando.
Mentre parliamo del continente, del pianeta, dovremmo prendere in considerazione gli obelischi, che fluttuano sopra tutto questo.
Un tempo, quando furono costruiti, dispiegati e utilizzati, gli obelischi avevano altri nomi, ma nessuno ricorda i loro nomi o il loro scopo. I ricordi sono fragili come ardesia nell’Immoto. In realtà, di questi tempi nessuno fa molto caso agli obelischi, benché siano congegni immensi, affascinanti e terribili: enormi frammenti di cristallo che si librano fra le nuvole, ruotando lentamente su incomprensibili rotte di volo, mentre la loro immagine si sfoca di tanto in tanto come se non fossero del tutto reali… Ma questo potrebbe essere solo un gioco di luce. (Non lo è.) È ovvio che gli obelischi non sono niente di naturale.
È altresì ovvio che sono irrilevanti. Maestosi, ma inutili: solo un’altra reliquia dell’ennesima civiltà distrutta con successo grazie agli sforzi instancabili di Padre Terra. Ci sono molti altri cairn simili in giro per il mondo: un migliaio di città in rovina, un milione di monumenti a dèi ed eroi che nessuno ricorda, decine di ponti verso il nulla. Non sono cose da ammirare, dice la saggezza dell’Immoto. Le genti che le hanno costruite erano deboli e sono morte, come succede inevitabilmente ai deboli. Ma la loro vera colpa è il fallimento. Coloro che hanno costruito gli obelischi hanno fallito più degli altri.
Tuttavia, gli obelischi esistono e giocano un ruolo nella fine del mondo; dunque, sono degni di nota.
Torniamo al privato. Bisogna restare con i piedi per terra, ah ah.
La donna che ho menzionato, quella cui è morto il figlio, non era a Yumenes, per fortuna, altrimenti questo sarebbe un racconto molto breve. E tu non esisteresti.
Vive in una città che si chiama Tirimo. Nel linguaggio dell’Immoto, una città è una forma di comunità, o com, ma Tirimo è a malapena abbastanza grande da meritarsi questo nome. Si trova nella valle omonima ai piedi delle montagne Tirimas. Il bacino d’acqua più vicino è un ruscello intermittente che i locali chiamano Piccolo Tirika. In una lingua che non esiste più se non in questi pochi frammenti rimasti, eatiri significa “tranquillo”. Tirimo è lontana dalle città stabili e scintillanti delle Equatoriali, quindi le persone di qui costruiscono pensando agli inevitabili sismi. Non ci sono torri o cornicioni artistici, solo muri di legno ed economici mattoni locali, posati su fondamenta di pietra sgrossata. Nessuna strada asfaltata, solo pendii erbosi attraversati da sentieri sterrati; e solo su alcuni di questi sentieri sono stati posati assi di legno o ciottoli. È un luogo tranquillo, anche se il cataclisma appena avvenuto a Yumenes manderà presto onde sismiche a sud che raderanno al suolo l’intera regione.
In questa città c’è una casa uguale a tutte le altre. Si trova su uno dei pendii ed è poco più di una buca scavata nella terra, rivestita di argilla e mattoni per renderla impermeabile e coperta con un tetto di zolle e legno di cedro. I sofisticati abitanti di Yumenes ridono (ridevano) di questi scavi primitivi, sempre che si degnino (si degnassero) di parlarne, ma per la gente di Tirimo vivere nella terra è tanto saggio quanto semplice. Si mantiene il fresco d’estate e il tepore d’inverno, si resiste ai terremoti come alle tempeste.
Il nome della donna è Essun. Ha quarantadue anni. Assomiglia alla maggior parte delle donne delle Midlat: alta quando si alza in piedi, con la schiena dritta e il collo lungo, fianchi che hanno partorito facilmente due bambini e seni che facilmente li hanno nutriti, e mani grandi, agili. Di aspetto forte e ben tornita: caratteristiche di valore nell’Immoto. I capelli le pendono intorno al viso in ciocche di ricci fibrosi grosse come il suo mignolo, di un nero che si schiarisce sulle punte. La sua pelle è sgradevolmente marrone ocra secondo un certo canone e sgradevolmente olivastra secondo un altro. Gli abitanti di Yumenes chiamano (chiamavano) meticci delle Midlat gli individui come lei, con evidenti tratti Sanze, ma non abbastanza.
Il bambino era suo figlio. Si chiamava Uche, aveva quasi tre anni. Era piccolo per la sua età, con gli occhi grandi e il nasino a patata, precoce, un sorriso dolce. Non gli mancava nessuno dei vezzi che usano i bambini per conquistarsi l’amore dei genitori da quando la specie umana si è evoluta verso una sembianza di ragione. Era sano e intelligente e dovrebbe essere ancora vivo.
Questa stanza era il soggiorno della loro casa. Era accogliente e tranquilla: una stanza dove poteva raccogliersi tutta la famiglia a chiacchierare, mangiare o giocare, a coccolarsi e scherzare. Le piaceva allattare Uche in quella stanza. Lei crede che sia stato concepito lì.
E lì suo padre lo ha picchiato a morte.
E ora l’ultimo tassello di contesto: il giorno seguente, nella valle che circonda Tirimo. A quest’ora i primi echi del cataclisma si sono già propagati, anche se più tardi ci saranno altre scosse.
All’estremità settentrionale della valle c’è la devastazione: alberi spezzati, rocce rotolate giù, una coltre di polvere sospesa che non si è dissipata nell’aria immobile che odora di zolfo. Dove la prima onda d’urto ha colpito non è rimasto in piedi niente: è stato quel genere di sommovimento che scuote e distrugge ogni cosa e poi sbatacchia i pezzi come sassolini. Ci sono anche cadaveri: piccoli animali che non sono riusciti a scappare, cervi e altre bestie di grosse dimensioni che hanno esitato nella fuga e sono stati schiacciati dalle macerie. E anche alcune persone abbastanza sfortunate da viaggiare sulla strada dei commerci nel giorno sbagliato.
I ricognitori di Tirimo venuti in questa direzione non hanno scavalcato le macerie: le hanno solo guardate attraverso occhilunghi da ciò che rimaneva della strada. Si sono meravigliati che il resto della valle – la parte tutt’intorno a Tirimo: un cerchio quasi perfetto con un raggio di parecchie miglia – fosse indenne. Be’, in realtà non si sono proprio meravigliati. Si sono guardati con cupa inquietudine, perché tutti sanno che cosa significa una tale apparente fortuna. “Cerca al centro del cerchio” ammonisce la litodottrina. A Tirimo, da qualche parte, c’è un rogga.
Un pensiero terrificante. Ma ancora più terrificanti sono i segni che provengono da nord e il fatto che il capovillaggio di Tirimo abbia ordinato loro di raccogliere quante più carcasse fresche di animali possibile sulla via del ritorno. La carne che non è andata a male si può essiccare; le pelli si possono conciare. Casomai. I ricognitori alla fine se ne vanno, preoccupati dal pensiero di quel “casomai”. Se non fossero stati così preoccupati, avrebbero potuto notare, ai piedi di una roccia spezzatasi da poco, l’oggetto incuneato in modo discreto fra un abete sghembo e un cumulo di massi. L’oggetto sarebbe stato degno di nota per forma e dimensioni: oblungo come un rene, di calcedonio screziato grigioverde scuro, sensibilmente diverso dall’arenaria pallida crollata tutt’intorno. Se si fossero avvicinati, si sarebbero accorti che arrivava all’altezza del petto ed era lungo quasi come un corpo umano. Se lo avessero toccato, forse sarebbero rimasti affascinati dalla compattezza della sua superficie. È un oggetto massiccio ed emana un odore di ferro che ricorda la ruggine e il sangue. Si sarebbero sorpresi nel sentirlo caldo al tatto.
Invece, non c’è più nessuno intorno quando l’oggetto geme debolmente e poi si spacca, dividendosi in modo netto lungo l’asse longitudinale come se fosse stato segato a metà. Allora, la fuoriuscita di calore e gas in pressione provoca un sibilo acuto che fa scappare in cerca di un nascondiglio ogni creatura della foresta sopravvissuta e rimasta nei paraggi. Con un bagliore quasi istantaneo, dai margini della spaccatura filtra una luce, simile a una fiamma e a qualcosa di liquido, lasciando dei vetri anneriti dal fuoco intorno alla base dell’oggetto. Allora l’oggetto torna immobile per una lunga pausa. Si sta raffreddando.
Passano parecchi giorni.
Poi qualcosa lo apre dall’interno e striscia per pochi metri prima di crollare. Passa un’altra giornata.
Ora che l’oggetto si è raffreddato e diviso, è visibile uno strato irregolare di cristalli, alcuni striati di bianco, altri rossi come sangue venoso, che ne rivestono la superficie interna. Del liquido pallido si raccoglie sul fondo cavo delle due metà, anche se la maggior parte del fluido che il geode conteneva è stato assorbito dal terreno sottostante.
Il corpo che stava all’interno giace prono fra le rocce, nudo e ormai asciutto, ma ansima ancora come se fosse esausto. A poco a poco, tuttavia, si solleva. Ogni movimento è studiato e molto, molto lento. È un’operazione lunga. Quando infine è in piedi, si dirige barcollando – lentamente – verso il geode e si appoggia alla sua mole per sostenersi. Puntellandosi, si piega – lentamente – e allunga una mano all’interno. Poi, con un gesto improvviso, secco, spezza la punta di un cristallo rosso. È un frammento all’incirca della dimensione di un acino, frastagliato come vetro rotto.
Il ragazzo – è questo che sembra – se lo mette in bocca e lo mastica rumorosamente, con scrocchi e stridii che riecheggiano intorno alla radura. Dopo qualche istante lo inghiotte. Poi inizia a tremare violentemente. Si abbraccia per un momento con un gemito flebile, come se si fosse accorto all’improvviso di essere nudo e di avere freddo e di che cosa terribile sia.
Poi, con uno sforzo, recupera il controllo di sé. Infila la mano nel geode – adesso si muove più in fretta – e prende altri cristalli. Ne fa una piccola pila a mano a mano che li stacca. I frammenti spessi si sbriciolano sotto le sue dita come se fossero di zucchero, ma in realtà sono duri, molto duri. Del resto lui non è un vero bambino, quindi ci riesce facilmente.
Infine si raddrizza vacillando, con le braccia piene di pietra di un rosso sangue lattiginoso. Il vento soffia forte per un istante e la pelle gli formicola in risposta. Allora si contorce, questa volta in fretta e a scatti come un burattino meccanico. Poi si guarda aggrottando la fronte. Quando si concentra i suoi movimenti diventano più sciolti, più fluidi. Più umani. Come per sottolinearlo, annuisce a se stesso, forse soddisfatto.
Allora si volta e si avvia verso Tirimo.
Ciò che devi ricordare è questo: la fine di una storia è solo l’inizio di un’altra. È già accaduto, dopo tutto. La gente muore. I vecchi ordini passano. Nascono nuove società. Quando diciamo: “È la fine del mondo”, di solito è una bugia, perché in realtà il pianeta sta bene.
Ma questo è il modo in cui finisce il mondo. Questo è il modo in cui finisce il mondo.
Questo è il modo in cui finisce il mondo.
Per l’ultima volta.
1
Tu, alla fine
Tu sei lei. Lei è te. Sei Essun. Ricordi? La donna cui è morto il figlio.
Sei un’orogena che vive nell’insignificante cittadina di Tirimo da dieci anni. Solo tre persone sanno che cosa sei e due di loro le hai messe al mondo tu.
Bene. Ne rimane una sola che sa, ora.
Sono dieci anni che vivi la vita più ordinaria possibile. Sei arrivata a Tirimo da altrove, ma agli abitanti della città non importa da dove o perché. Era evidente che fossi istruita, così sei diventata un’insegnante del nido locale per i bambini dai dieci ai tredici anni. Non sei né la migliore né la peggiore insegnante: quando se ne vanno, i bambini si dimenticano di te, però imparano. La macellaia probabilmente sa come ti chiami perché le piace flirtare con te. Il panettiere no, perché sei silenziosa e – come per chiunque altro in città – per lui sei solo la moglie di Jija. Jija è un uomo di Tirimo fatto e finito, uno scalpellino della casta d’uso dei Resistenti; lo conoscono e lo apprezzano tutti. Così, incidentalmente, apprezzano anche te.
Lui è in primo piano nel quadro della vostra vita insieme; tu sei lo sfondo. A te va bene così.
Sei madre di due figli, ma uno di loro è morto e l’altra è scomparsa. Forse è morta anche lei. Scopri tutto questo un giorno quando torni a casa dal lavoro. Casa vuota, troppo silenziosa, il piccolo insanguinato e pieno di lividi sul pavimento del soggiorno.
E tu… stacchi la spina. Non era tua intenzione. Ma è un po’ troppo, no? Troppo. Ne hai passate tante, sei molto forte, ma c’è un limite a ciò che persino tu puoi sopportare.
Passano due giorni prima che qualcuno venga a cercarti. Li hai trascorsi in casa con il tuo bambino morto. Ti sei alzata, sei andata in bagno, hai preso qualcosa da mangiare dalla dispensa refrigerata, hai bevuto l’ultimo goccio d’acqua dal rubinetto. Queste cose sei riuscita a farle senza riflettere, in modo meccanico. Poi sei tornata al fianco di Uche. (In uno dei tuoi andirivieni, hai preso una coperta e gliel’hai stesa sul corpo fino al mento livido. Un’abitudine. I tubi del vapore hanno smesso di gorgogliare e in casa fa freddo. Potrebbe ammalarsi.)
Il giorno seguente, sul tardi, qualcuno bussa alla porta d’ingresso. Non ti smuovi per rispondere. Comporterebbe domandarsi chi è e decidere se aprire. Pensare a questo ti obbligherebbe a considerare il cadavere di tuo figlio sotto la coperta, e perché dovresti farlo? Ignori i colpi alla porta. Qualcuno bussa alla finestra del soggiorno. Insiste. Ignori anche questo.
Alla fine rompono il vetro della porta sul retro della casa. Senti i passi in corridoio fra la stanza di Uche e quella di Nassun, tua figlia.
(Nassun, tua figlia.)
I passi raggiungono il soggiorno e si fermano. «Essun?» Conosci quella voce. Maschile, giovane. Familiare e rassicurante in modo familiare. Lerna, il figlio di Makenba che vive in fondo alla strada. Se n’è andato per qualche anno ed è tornato medico. Non è più un ragazzo, non lo è più da tempo, così ricordi a te stessa ancora una volta che devi iniziare a pensare a lui come a un uomo.
Ops, pensare. Cauta, ti blocchi.
Lui inspira e la tua pelle vibra del suo orrore quando si avvicina abbastanza da vedere Uche. Sorprendentemente non si mette a gridare. E nemmeno ti tocca, anche se si sposta sull’altro lato di Uche e ti osserva con attenzione. Cerca di vedere che cosa succede dentro di te? Niente, niente. Poi abbassa la coperta per vedere il corpo di Uche. Niente, niente. Tira di nuovo su la coperta, questa volta fin sopra il viso di tuo figlio.
«Non gli piace» dici. Sono le tue prime parole da due giorni a questa parte. Ti danno una strana sensazione. «Ha paura del buio.»
Dopo un momento di silenzio, Lerna abbassa di nuovo la coperta appena sotto gli occhi di Uche.
«Grazie» dici.
Lerna annuisce. «Hai dormito?»
«No.»
Allora Lerna gira intorno al corpo e ti prende il braccio per farti alzare. Lo fa gentilmente, ma le sue mani sono salde e lui non cede, anche se dapprima tu non ti muovi. Esercita solo un po’ più di forza, in modo inesorabile, finché sei costretta ad alzarti o a cadere in avanti. È l’unica scelta che ti lascia. Ti alzi. Poi, con la stessa gentile fermezza, ti guida verso la porta d’ingresso. «Puoi dormire a casa mia» dice.
Tu non vuoi pensare, quindi non protesti, non gli dici che va benissimo il tuo letto, grazie tante. E nemmeno dichiari che stai bene e non hai bisogno del suo aiuto. Del resto, non è vero. Ti accompagna fuori e attraverso l’isolato, tenendoti stretta per il gomito per tutto il tempo.
C’è qualcun altro in giro per la strada. Alcuni si avvicinano e dicono qualcosa a cui Lerna risponde; tu non senti niente. Le loro voci sono un brusio confuso che la tua mente non si dà la pena di tradurre. Lerna parla al posto tuo, e gli saresti grata per questo, se solo riuscisse a importartene. Ti porta a casa sua, dove aleggia un odore di erbe, sostanze chimiche e libri, e ti infila in un lungo letto con sopra un grasso gatto grigio. Il gatto si sposta quel tanto che basta perché tu possa distenderti e si accoccola contro di te appena resti immobile. Ti sarebbe di conforto se il calore e il peso non ti ricordassero Uche quando si appisola con te. Si appisolava con te. No, cambiare tempo verbale richie
de pensiero. Si appisola.
«Dormi» dice Lerna, e acconsentire è facile.
Dormi a lungo. A un certo punto ti svegli. Lerna ha messo del cibo su un vassoio accanto al letto: brodo, frutta tagliata e una tazza di tè, tutto ormai da tempo a temperatura ambiente. Mangi e bevi, poi vai in bagno. Non va lo sciacquone. Al suo posto, di fianco al water, c’è un secchio pieno d’acqua che deve aver messo Lerna. Rimani perplessa, poi senti l’imminenza del pensiero e devi lottare, lottare, lottare per rimanere nel dolce silenzio caldo dell’incoscienza. Versi dell’acqua nel water, abbassi il coperchio e torni a letto.
Nel sogno sei nella stanza mentre Jija lo fa. Lui e Uche sono come li hai visti l’ultima volta: Jija ride, tenendo Uche su un ginocchio e giocando alla “scossa terrestre”, mentre il bambino lancia risolini, stringendo le gambe e agitando le braccia per tenersi in equilibrio. Poi, all’improvviso, Jija smette di ridere, si alza – scaraventando Uche sul pavimento – e inizia a prenderlo a calci. Sai che non è così che è avvenuto. Hai visto il pugno di Jija stampato sulla faccia e la pancia di Uche: un livido con quattro segni paralleli. Nel sogno Jija lo prende a calci perché nei sogni non c’è logica. Uche continua a ridere e ad agitare le braccia, come se fosse ancora un gioco, persino quando il sangue gli copre la faccia.
Ti svegli urlando e gli urli si spengono in singhiozzi che non riesci a fermare. Lerna entra nella stanza, cerca di dire qualcosa, cerca di abbracciarti e infine ti fa bere un tè forte dal sapore cattivo. Ti addormenti di nuovo.
«È successo qualcosa al Nord» ti dice Lerna.
Sei seduta sul bordo del letto. Lui è su una sedia di fronte a te. Bevi ancora quel tè sgradevole; ti fa male la testa più che per i postumi di una sbronza. È notte, ma nella stanza c’è una luce tenue. Lerna ha acceso metà delle lanterne. Solo in quel momento noti lo strano odore nell’aria, non del tutto coperto dal fumo delle lampade: forte e acre, di zolfo. L’odore è lì da tutto il giorno e sta peggiorando a poco a poco. È più forte quando Lerna rientra.
«Da due giorni la strada fuori città è intasata di gente che viene da quella direzione.» Lerna sospira e si strofina la faccia. Ha quindici anni meno di te, ma non si vedono più. Ha i capelli grigio naturale come molti Cebaki, ma sono le nuove rughe sul suo viso a farlo sembrare più vecchio… quelle e le nuove ombre nei suoi occhi. «C’è stata una specie di scossa, una forte, un paio di giorni fa. Qui non abbiamo sentito niente, ma a Sume…» Sume è nella valle vicina, a un giorno di cavallo. «L’intera città è…» Lerna scuote la testa. Annuisci, ma sai tutto questo senza che ti venga detto, o almeno puoi immaginarlo. Due giorni fa, quando eri seduta a fissare il corpo straziato di tuo figlio, qualcosa ha investito la città: una convulsione della terra così potente che non ne avevi mai sensita una uguale. La parola “scossa” non è adeguata. Qualunque cosa fosse avrebbe fatto crollare la casa addosso a Uche; così l’hai “arginata”, per così dire, con una combinazione di volontà mirata e di energia cinetica sottratta alla cosa stessa. Farlo non ti ha richiesto di pensare. Ci riuscirebbe anche un neonato, benché forse non in modo così preciso. La scossa si è divisa e si è propagata intorno alla valle, poi ha proseguito oltre.
Lerna si lecca le labbra. Ti guarda, poi distoglie lo sguardo. È lui l’altra persona, oltre ai tuoi figli, che sa che cosa sei. Lo sa da tempo, ma è la prima volta che si trova di fronte alla realtà di questo fatto. Non puoi pensare neanche a questo, però.
«Rask non lascia entrare né uscire nessuno.» Rask è Rask Innovatore Tirimo, che è stato eletto capovillaggio. «Non è un isolamento completo, dice, non ancora, ma quando stavo per dirigermi a Sume per dare una mano, Rask ha detto di no e ha piazzato i dannati minatori alle mura in aggiunta ai Ferrigni, mentre i ricognitori vanno in giro. Ha detto loro esplicitamente di tenermi dentro i cancelli.» Lerna stringe i pugni, ha un’espressione amara. «Ci sono persone là fuori, sulla Strada Imperiale. Molte di loro sono malate, ferite, e quel bastardo ossidato non mi permette di aiutarle.»
«Proteggete prima i cancelli» sussurri. Sei rauca. Hai urlato molto dopo quel sogno di Jija.
«Cosa?»
Bevi dell’altro tè per alleviare il bruciore. «Litodottrina.» Lerna ti fissa. Conosce gli stessi brani. Si imparano da bambini, al nido. Si cresce tutti ascoltando i racconti intorno al fuoco di dottrinologi saggi e brillanti geomestri che avvertono gli scettici quando appaiono i primi segnali, senza essere ascoltati, e salvano la gente quando la dottrina si dimostra vera.
«Pensi che si sia arrivati a questo, quindi» dice in tono grave. «Fuoco di Terra, Essun, non puoi dire sul serio.»
Dici sul serio. Si è arrivati a questo. Ma sai che non ti crederà se cerchi di spiegare, perciò scuoti la testa.
Scende un silenzio stagnante, doloroso. Dopo un lungo istante, Lerna dice con delicatezza: «Ho portato qui Uche. È nell’infermeria, nella… cella frigorifera. Mi occuperò io del… da farsi».
Annuisci lentamente. Lui esita. «È stato Jija?» Annuisci di nuovo.
«Tu… l’hai visto?»
«Tornavo a casa dal nido.»
«Oh.» Un’altra pausa imbarazzata. «La gente diceva che eri mancata un giorno, prima della scossa. Hanno dovuto mandare a casa i bambini: non riuscivano a trovare qualcuno che ti sostituisse. Nessuno sapeva se fossi a casa ammalata o cos’altro.» Sì, già. Probabilmente ti hanno licenziata. Lerna prende un respiro profondo, poi espira. Con quel preavviso, sei quasi pronta per ciò che ti dirà. «La scossa non ci ha colpito, Essun. È passata intorno alla città. Ha sradicato qualche albero e fatto crollare a faccia in giù una roccia vicino al torrente.» Il torrente si trova all’estremità settentrionale della valle, dove nessuno ha notato un grosso geode di calcedonio fumante. «Dentro e intorno alla città è tutto a posto, invece. In un cerchio quasi perfetto. Bene.» Un tempo avresti dissimulato. Avevi motivi per nasconderti, una vita da proteggere, allora.
«Sono stata io» dici.
La mascella di Lerna si contrae, ma lui annuisce. «Non l’ho mai detto a nessuno.» Esita. «Che sei… be’, orogenica.» È così gentile e a modo. Hai sentito tutti i termini peggiori per quello che sei. Anche lui li conosce, ma non li direbbe mai. Persino Jija non li usava. “Non voglio che i bambini sentano un simile linguaggio” diceva sempre, quando qualcuno si lasciava sfuggire con noncuranza un rogga…
Arriva improvviso. Ti pieghi in avanti in preda ai conati di vomito. Lerna sobbalza e scatta per prendere qualcosa lì vicino… il vaso da notte che non hai usato. Ma dal tuo stomaco non esce niente e dopo poco i conati finiscono. Fai un respiro cauto, poi un altro. Lerna ti porge un bicchier d’acqua, senza parlare. Stai per respingerlo, ma cambi idea e lo prendi. Hai in bocca il sapore della bile.
«Non è stato per me» dici alla fine. Lui aggrotta la fronte confuso e capisci che pensa che tu stia ancora parlando della scossa. «Jija. Non ha scoperto di me» aggiungi. Rifletti. Non dovresti riflettere. «Non so come, cosa, ma Uche… è piccolo, non ha ancora molto controllo. Deve aver fatto qualcosa e Jija ha capito che…»
Che i tuoi figli sono come te. È la prima volta che dai forma completa a questo pensiero.
Lerna chiude gli occhi, emette un lungo respiro. «È questo, dunque.»
Non lo è. Non avrebbe mai dovuto indurre un padre a uccidere il proprio bambino. Niente dovrebbe farlo.
Lui si passa la lingua sulle labbra. «Vuoi vedere Uche?» Perché dovresti? Sei rimasta a guardarlo per due giorni.
«No.»
Lerna si alza con un sospiro, strofinandosi la testa con la mano. «Lo dirai a Rask?» chiedi. Ma Lerna ti rivolge uno sguardo che ti fa sentire a disagio. È arrabbiato. Un ragazzo così pacato e riflessivo, non pensavi che potesse arrabbiarsi.
«Non dirò niente a Rask» sbotta. «Non ho detto niente per tutto questo tempo e non lo farò ora.»
«Allora cosa…»
«Vado a cercare Eran.» Eran è la portavoce della casta d’uso dei Resistenti. Per nascita Lerna era un Ferrigno, ma quando è tornato a Tirimo dopo essere diventato un medico, lo hanno adottato i Resistenti: la città aveva già abbastanza Ferrigni e gli Innovatori avevano perso al lancio delle schegge. Anche tu hai affermato di essere una Resistente. «Dirò a Eran che stai bene e lei lo riferirà a Rask. Tu devi riposarti.»
«Quando Eran ti chiederà perché Jija…»
Lerna scuote la testa. «L’hanno già capito tutti, Essun. Sono capaci di leggere una mappa. È chiaro come il diamante che il centro del cerchio era questo quartiere. Sapendo quello che ha fatto Jija, non era difficile saltare alle conclusioni sul perché. I tempi non corrispondono, ma nessuno arriva a pensarci.» Mentre tu lo fissi e cominci a capire, Lerna fa una smorfia. «Metà di loro sono inorriditi, ma gli altri sono contenti che Jija l’abbia fatto. Perché, naturalmente, un bambino di tre anni ha il potere di scatenare un terremoto a Yumenes, a mille miglia di distanza da qui!»
Scuoti la testa; in parte sei sconcertata dalla rabbia di Lerna, in parte non riesci a conciliare l’immagine del tuo bambino radioso e allegro con quella della gente che lo credeva capace di… Ma del resto anche Jija lo ha creduto.
Ti torna la nausea.
Lerna prende un altro respiro profondo. Lo ha fatto ripetutamente per tutta la conversazione; è un gesto abituale che avevi già notato, il suo modo di calmarsi. «Rimani qui e riposati. Tornerò presto.»
Esce dalla stanza. Lo senti affaccendarsi con modi decisi all’ingresso della casa. Poco dopo se ne va per partecipare all’incontro. Prendi in considerazione l’idea di riposare e la scarti. Allora ti alzi e vai nel bagno di Lerna a lavarti la faccia, fermandoti quando il rubinetto comincia a sputacchiare e l’acqua diventa all’improvviso marrone rossiccio, maleodorante, e poi si riduce a uno sgocciolio. Un tubo rotto da qualche parte.
Lerna ha detto che è successo qualcosa al Nord.
“I figli sono la nostra rovina” ti ha detto qualcuno una volta, molto tempo fa.
«Nassun» sussurri al tuo riflesso. Nello specchio vedi gli occhi che tua figlia ha ereditato da te: grigi come l’ardesia e un po’ malinconici. «Ha lasciato Uche nel soggiorno. Dove ha messo te?»
Silenzio. Chiudi il rubinetto. Poi, rivolta a nessuno, aggiungi: «Ora devo andare». Perché è così. Devi trovare Jija, e in ogni caso non è consigliabile indugiare, lo sai bene. Gli abitanti della città verranno presto a cercarti.
La scossa che passa si ripeterà. L’onda che si ritrae ritornerà. La montagna che brontola ruggirà.
TAVOLA UNO, Sulla sopravvivenza, verso cinque
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