Van Gogh e il Giappone è un documentario che, pur non essendo un capolavoro né per creatività, né per guizzo registico, ha dei fondati meriti: parla di un argomento non frequente come l’influenza dell’arte giapponese nell’opera di Van Gogh; mostra dipinti e dettagli di essi con una definizione che mai potremmo avere vedendo una mostra dal vivo, primo perché non è possibile avvicinarsi tanto alle opere, secondo perché in una grande mostra si vorrebbe vedere tutto e magari non si riesce, quindi si va di fretta, terzo perché la percezione visiva e la capacità di elaborare la visione può andare in sovraccarico, quarto perché la fruizione delle opere a una mostra è comunque soggetta a interferenze esterne (il rumore, la persona che passa, il pianto del bambino, il brusio), quinto la possibilità di godere, almeno in parte, di una mostra non arrivata in Italia. Certo è che poter apprezzare delle opere d’arte con un respiro più ampio nulla toglie e deve togliere al piacere di confrontarsi di persona con le emozioni vissute di persona.
David Bickerstaff cura la regia del docufilm in occasione della mostra ospitata nel 2018 al Van Gogh Museum di Amsterdam, confrontando le opere provenzali di Van Gogh con le opere giapponesi a cui l’artista si ispirò. Le interviste aiutano lo spettatore a comprendere i sentimenti, la fascinazione, ciò che aveva attratto l’artista: la linearità delle forme, la loro essenzialità e morbidezza, la fluttuazione infinita, priva di stasi, fulcro della cultura giapponese, la ricerca del segno perfetto, contenente in sé la bellezza e l’efficacia.
Comprendiamo ciò grazie alle lettere dell’artista, ma anche alle testimonianze dell’epoca. Dalla seconda metà dell’800, quando il Giappone si aprì ai contatti con l’esterno, dopo una chiusura durata secoli, il mondo occidentale rimase folgorato dalla bellezza di quelle opere d’arte, non solo figurative. Nacque una tendenza: il japonisme.
Nelle case dei più abbienti se non c’era una stanza, c’era sicuramente qualche oggetto del Sol levante. Van Gogh non andò mai in Giappone, ma studiò, osservò le caratteristiche espressive di quella cultura e della sua arte, immagazzinandole nel proprio vissuto emotivo e quindi nella produzione artistica.
Le immagini accompagnano, anche attraverso un’analisi tecnica, le parole degli intervistati, fra cui i curatori della mostra ovviamente, cercando di sottolineare in modo semplice le interpretazioni e le spiegazioni proposte. Non si griderà al capolavoro e alla magnificenza, ma sicuramente è un prodotto più che buono, privo per fortuna della parte fiction (anche se non mancano le immagini ruffiane, che rafforzano l’immagine comune del Giappone tutto giardini zen e fiori di loto), un buon modo per investire il proprio tempo e denaro.
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