Dopo la morte del padre, docente assassinato da uno studente squilibrato, la famiglia Locke, madre e tre figli, si trasferisce nella casa di famiglia, la KeyHouse, a Matheson, Massachusetts. All’apparenza la KeyHouse è una casa antica come tante, polverosa e un po’ tenebrosa. Sarà il piccolo Bode (Jackson Robert Scott) a scoprire che nella casa si trovano delle chiavi, manufatti dotati di poteri sovrannaturali. Nella scoperta delle potenzialità nell’uso delle chiavi, saranno coinvolti gradualmente anche i fratelli di Bode, gli adolescenti Tyler (Connor Jessup) e Kinsey (Emilia Jones). I tre ragazzi dovranno anche fronteggiare le mire di una creatura demoniaca, una donna di nome Dodge (Laysla De Oliveira), che vuole impossessarsi delle chiavi per usarle per scopi malvagi.
Parallemente i tre ragazzi dovranno affrontare il disagio del trasferimento in una piccola realtà di provincia, con i problemi di integrazione aggravati da un processo di elaborazione del lutto ancora in corso. Un processo che ha le conseguenze anche su Nina (Darby Stanchfield), la madre dei ragazzi. I diversi piani della vicenda sono destinati a intrecciarsi, perché collegati tra loro in modo indissolubile e i misteri da chiarire e svelare sono tanti.
All’apparenza siamo davanti a un’ambientazione come tante: un dramma familiare calato nel contesto della provincia statunitense, con la sua scuola superiore (più somigliante a Hogwarts nelle atmosfere che alla solita scuola anonima), il bulletto e la reginetta del ballo bellina ma stronzetta, il gruppo degli emarginati intelligenti e poco integrati. Non mancano le figure adulte canoniche, come il professore e il poliziotto dal cuore d’oro, o i vicini di casa, divisi tra quelli simpatici e disponibili e quelli sparlettieri, se non ostili. Insomma un quadro noto.
Anche il nemico sovrannaturale, la demone seducente e manipolatrice Dodge appare come una figura canonica del genere.
La differenza sta nel come da queste premesse si sviluppa la vicenda. Il maggior pregio di Locke & Key è proprio nella capacità di creare un corto circuito indissolubile tra il lato sovrannaturale della vicenda e quello propriamente realistico, con continui rimandi tra i due piani, fino a un vero e proprio gioco di incastri, nel quale la risoluzione di un nodo di uno rimanda a quella dell’altro e viceversa. Materie complesse come l’elaborazione del lutto, le dipendenze, la paura di crescere, l’accettazione di se stessi e del diverso, si compenetrano con una inquietante cosmogonia sovrannaturale che è tutta da scoprire. Altro non posso dire, pena anticipare troppo di una trama che vive di costanti rivelazioni e di scoperte, nella quale poco o niente è come sembra.
Il prodotto parte da una solida scrittura, il fumetto di Joe Hill e Gabriel Rodriguez, qui al secondo tentativo di adattamento dopo una puntata pilota prodotta nel 2010 dalla quale però non scaturì una serie, e diversi tentativi di trasporre la vicenda anche al cinema che non hanno mai passato lo stadio della pre-produzione. La credibilità della messa in scena contribuisce alla riuscita di una serie che scorre veloce, di mistero in mistero, narrata visivamente non molta cura. Non parlo solo di buoni effetti speciali, ma proprio di una narrazione per immagini coinvolgente, al di sopra di molti scolastiche regie televisive. Un film di circa 10 ore da gustarsi dall’inizio alla fine, pieno di colpi di scena, di momenti di grande tensione e divertimento.
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