Noi, al centro del mondo. È così che leggiamo le storie. C’è un protagonista, che sia positivo o negativo dipende sia dal narratore, che sceglie a chi dedicare la sua attenzione, quanto dal lettore, che può decidere di appassionarsi alle vicende di qualcuno che, per il narratore, è un personaggio marginale, se non l’antagonista. La contrapposizione, avere due personaggi con obiettivi diversi, è fondamentale, perché nell’accordo la storia sparisce. Ma cosa succede quando l’antagonista è a terra? Non il pianeta che ospita la vita e che si preoccupa dei suoi figli come una madre, ma un patrigno severo il cui scopo è eliminare quei parassiti che infestano la sua superficie.
Il Cielo di Pietra è il romanzo conclusivo della trilogia La Terra Spezzata, con cui N.K. Jemisin, prima nella storia, ha vinto il premio Hugo per tre anni di fila. Nei ringraziamenti finali Nora K. Jemisin ha spiegato che, entro certi limiti, questa storia è il suo tentativo di affrontare il tema delle maternità. Era iniziata con un bambino morto, ucciso dal padre, e con una madre che doveva venire a patti con l’enormità della morte del figlio e con il suo disperato tentativo di salvare l’altra figlia. Madri come Essun, con i suoi figli vivi e morti, nel tempo presente e nel tempo passato. Figli come Nassun, che vivono sulla loro pelle il tradimento delle madri, vero o presunto che sia. E, insieme a loro, Madre terra, che si è trasformata in un patrigno. Cosa gli è successo, cosa gli sta succedendo? Come hanno potuto cambiare così tanto?
Cosa siano le Quinte stagioni e quale sia la loro forza distruttiva sono noti da due romanzi. Gli elementi base ci sono già – più o meno. Jemisin è partita da una madre in un mondo devastato, a livello umano e a livello planetario. I drammi personali si allargano fino alla catastrofe ambientale, ma sono davvero due cose diverse? Alle storie di Essun e di Nassun Jemisin ne intreccia una terza, il racconto degli avvenimenti di Syl Anagist, qualcosa di così lontano, di talmente diverso dal mondo che abbiamo imparato a conoscere, da sembrare un’altra storia. Eppure è la stessa. Sempre la stessa, intrisa di discriminazioni razziali, di de-umanizzazione dell’altro, del desiderio di dominio, di stragi compiute perché siamo sempre noi a essere al centro del mondo e non siamo capaci di guardare gli altri. Di vederli per quello che sono, di capirli. Di rispettarli.
La normalità di una persona è l’Annientamento di un’altra, ci dice Jemisin. Sono le prime parole del romanzo, la battuta posta in bocca a un personaggio. Eppure il motore della storia è qui. Non i dettagli, la trama, quelli si scoprono man mano. Ma questo è ciò che davvero ci tocca, scavando in profondità dentro di noi. La normalità di una persona è l’Annientamento di un’altra. Non deve essere così per forza, troppo spesso lo è.
Facciamo scelte, continuamente, spesso dimenticando che sono le nostre scelte a plasmare la realtà. E se il mondo narrato da Jemisin è frutto della sua straordinaria capacità immaginativa, sta a noi decidere come vogliamo che sia il nostro mondo.
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