Il 27 marzo del 1995 moriva a causa di tre colpi di pistola Maurizio Gucci, uno dei nomi più importanti della moda internazionale. La mandante dell’omicidio come si scoprirà da lì a poco, era stata Patrizia Reggiani ex moglie dell’imprenditore, che tramite l’intervento di una maga sua amica, era riuscita ad assoldare dei killer per sbarazzarsi dell’uomo. Tra moda, lusso, tradimenti e un omicidio la storia della famiglia Gucci sembra uscita da un romanzo in stile Dynasty pur essendo un fatto di cronaca realmente accaduto, e ha ispirato per prima Sara Gay Forden, autrice di House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine da cui gli sceneggiatori Becky Johnston e Roberto Bentivegna hanno tratto l’omonimo film.
La vicenda prende il via dall’incontro tra Maurizio Gucci (Adam Driver), rampollo promettente e futuro avvocato, con Patrizia Reggiani(Lady Gaga), ragazza di belle speranze ma dai natali meno altolocati. Tra i due scoppia un amore travolgente che li porta al matrimonio, osteggiato però dal padre di Maurizio, Rodolfo (Jeremy Irons) che solo in punto di morte vuole rivedere il figlio. Dalla parte della giovane coppia sta invece lo zio Aldo (Al Pacino) che vede nel nipote la capacità di guidare la famiglia in una nuova fase, visto che non può contare sull’imbranato figlio Paolo (Jared Leto). Ma quando Maurizio prende il suo posto nella famiglia cominciano anche le divergenze con lo zio, e in un’escalation di intrighi spesso manovrati da Patrizia, la famiglia si sfalda e l’uomo si allontana dalla moglie fino a chiedere la separazione, provocando le tragiche conseguenze che tutti conoscono.
La sinossi di House of Gucci potrebbe essere quella di una qualsiasi soap opera e nemmeno delle più originali. Recentemente intervistato a proposito del film, Tom Ford, che ha vissuto di persona i fatti raccontati nella pellicola, l’ha definita una farsa, ma così appare anche a chi non ha vissuto quella storia in prima persona. Tutto in House of Gucci è portato sopra le righe, dalla recitazione che mette insieme mostri sacri del cinema in mezzo ai quali Lady Gaga non sfigura, dove il gigioneggiare è l’unico registro possibile, alla patinatura dei set, allo sfarzo dei costumi, alla rappresentazione dell’Italia sempre da cartolina, fino alla creazione di una lingua che mischia italiano e inglese senza una ragione logica. In particolar modo questo ultimo aspetto per chi guarderà il film in lingua originale, ma che si perderà inevitabilmente con il doppiaggio, dà il via a uno sfasamento logico dove gli attori inglesi, che recitano nella loro lingua, utilizzano anche brevi frasi in italiano solo con i personaggi di contorno. Sembra quasi che nel bizzarro universo di House of Gucci esistano due modi per comunicare, quello dei protagonisti e l’altro relegato a chi fa da sfondo.
Per quanto riguarda la recitazione, forse con la sola eccezione di Adam Driver, ognuno percorre la sua strada senza prestar attenzione a chi altro c’è in scena. Perché poi Paolo Gucci, che senza motivo viene ritratto come un ometto patetico e buffo nella sua ottusità, è interpretato da Jared Leto costretto a ricoprirsi di protesi per imbruttirsi? Perché Lady Gaga in ogni singolo momento del film è tappezzata di gioielli, outfit elaborati e trucco vistosissimo?
House of Gucci è per sua stessa natura sovrabbondante persino nella durata (supera le due ore e quaranta), e il tema è, se proprio ne si vuole individuare uno: anche i ricchi piangono. Ci si potrebbe chiedere come mai una storia di questo tipo sia stata affidata a uno come Ridley Scott, più a suo agio tra cavalli, astronavi spaziali e guerrieri, ma forse è proprio in questo inaspettato incontro che si produce il fascino di questa pellicola. Data ad un altro regista meno avvezzo all’azione ne sarebbe uscito solo un polpettone, ma House of Gucci tiene un ritmo incalzante dove il problema non è mai la noia, raccontando un mondo così fasullo da essere meno plausibile di quello di Alien. In questa sorta di iper Beautiful cinematografico se sali sul carro e non ti fai troppe domande finisce che ti diverti pure.
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