- Diabolik – una trama tratta da un fumetto
- Tecnica – dalla carta stampata al digitale
- Attori – sottile come un foglio
- Conclusioni – guardando l’orologio
Inutile negarlo: il film di Diabolik è stato promosso con una campagna marketing poderosa. Tra trailer, comunicati stampa, presenza mediatica e comparsate alle fiere pop, il brand del ladro/assassino più famoso del fumetto italiano si è decisamente fatto notare, con il risultato che l’anteprima stampa ha ospitato plotoni di giornalisti curiosi di vedere se il risultato fosse effettivamente in grado di dimostrarsi una pietra miliare della cultura cinematografica nostrana. I fratelli Manetti sono dunque riusciti a compiere il miracolo, hanno soddisfatto la mole di aspettative? In estrema sintesi: no, non lo hanno fatto.
Diabolik – una trama tratta da un fumetto
Diabolik (Luca Marinelli), ladro spietato e quasi mitologico, dà la caccia a un prezioso diamante custodito da Eva Kant (Miriam Leone), lady ereditiera dal passato alquanto torbido. Nel pieno del furto, il lestofante viene colto in flagrante dalla donna, tuttavia il loro confronto si risolve in un modo che stupisce e intriga il titolare protagonista, il quale decide di dar via a un intreccio amoroso striato di crimini e pericolo.
Per conquistare definitivamente il cuore di Eva, nonché per liberarla dai ricatti di un suo spasimante, Diabolik si lancia in una missione apparentemente semplice che viene però complicata dalle manovre dell’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea), il quale riesce fortuitamente ad arrestare il criminale e a portarlo alla giustizia. Diabolik si trova dunque a dover fuggire alla pena di morte via ghigliottina, dire addio alla sua identità fittizia e recuperare le risorse finanziarie per sostenere i suoi onerosi standard di vita.
Tecnica – dalla carta stampata al digitale
I cosiddetti Manetti Bros. (Antonio e Marco) hanno un percorso professionale fortemente radicato nei telefilm polizieschi – parliamo de L'ispettore Coliandro e de L'Ispettore Rex -, ma i loro recenti successi cinematografici li hanno proiettati nel pantheon dei grandi cineasti meritevoli del David di Donatello, con il risultato che i due sono stati promossi dal cinema di serie B al cosiddetto “grande cinema”. Dal grande cinema derivano però anche grandi responsabilità e queste responsabilità, in Diabolik, sono state gestite in malo modo. La pellicola, per essere concisi, è priva di una visione autoriale degna di nota, scevra di quella leggerezza un po’ provocatoria che è propria dei Manetti, ma anche incapace di reggere il confronto con un'analisi tecnica più tradizionale.
Il copione, scritto dagli stessi fratelli Manetti e dall'editore di Diabolik, Mario Gomboli, copre tutti gli elementi essenziali di un qualsiasi albo fumettistico della serie, tuttavia tecnica e tono della scrittura stonano con la struttura narrativa del lungometraggio, soprattutto in un mondo in cui i gusti dei cinefili sono ormai sofisticati. La trama, più che essere divisa in atti, è infatti frammentata in tre cicli narrativi interconnessi – due furti e una fuga -, dettaglio che può funzionare sulla carta stampata, ma che su schermo fomenta un’esperienza estremamente didascalica e piatta: non ci sono colpi di scena, non c’è ritmo, non c’è adrenalina e non c’è mistero.
Parallelamente, Diabolik si fregia di una serie di goffaggini prettamente tecniche, dalla gestione degli attori a quella del suono, passando per scelte fotografiche e registiche che sembrano condizionate più da limitazioni tecniche che da decisioni consapevoli e ricercate. In generale, permane un’impostazione più teatrale che cinematografica, la quale è inoltre ammantata da un atteggiamento da “buona la prima”, ovvero si ha la percezione che molte delle scene siano state interpretate in fretta e furia, senza troppa attenzione ed esercizio, e che la post-produzione sia limitata all'osso. Un esempio? In diverse scene, Eva Kant sorseggia bevande calde e nessuno si è preso la briga di rimuovere dalla traccia sonora il riverbero del suo respiro nella tazza né tantomeno il suono di deglutizione. Certo, si potrebbe suggerire che questo sia un approccio manierista che fa riferimento alla semplice genuinità dei film italiani contemporanei al debutto del fumetto, ovvero il 1962, ma vale la pena ricordare che in quegli anni erano operativi Pasolini, Rossellini e Ferreri, artisti che erano tutto meno che disattenti ai dettagli.
Attori – sottile come un foglio
Come si evince da quanto già detto, la questione attoriale non è certamente stata valorizzata. Luca Marinetti e Valerio Mastandrea sono due pezzi da novanta, eppure, quali che siano le cause, ambo sembrano apatici, svogliati e intorpiditi. Più felice è il risultato ottenuto dall’Eva Kant di Miriam Leone, ma non si può comunque sostenere che la sua performance sia in grado di trainare autonomamente l’esperienza filmica. In generale, sembra che i Manetti Bros. volessero puntare su una pellicola seria i cui personaggi risultano glaciali, strateghi e profondi, tuttavia qualcosa dev'essere andato storto, perché questi risultano solamente annoiati ed assenti. Considerando la caratura del cast, diverte e un po' intristisce, che la punta di diamante dell'intero girato sia una quasi inattesa Claudia Gerini, la quale trascina in Diabolik un’ondata di carisma che riaccende l’attenzione degli spettatori. Peccato che la sua parte non duri che una manciata di minuti.
Conclusioni – guardando l’orologio
Il Diabolik dei Manetti Bros. non rappresenta la prima trasposizione cinematografica dell’omonimo fumetto. La coppia di cineasti è stata preceduta nel 1968 da Mario Bava, autore che, pur prestandosi alla pellicola per “esigenze alimentari", aveva creato un prodotto giocoso e sopra le righe caratterizzato da una presenza autoriale palpabile, un prodotto che per di più si è accompagnato con una colonna sonora firmata dal gigantesco Ennio Morricone. Più di cinquant’anni dopo, il ladro dei fumetti torna a far rombare la sua Jaguar nera, tuttavia il motore sembra girare a vuoto e questa seconda iterazione finisce con l’essere più casta e sterile di ciò che era stato partorito in passato.
Dai lontani anni Sessanta il cinema ha avuto modo di partorire film quali Mission Impossible, Ocean’s Eleven, John Wick, Heat, Snatch, film che a loro modo avrebbero potuto offrire spunti utili a strutturare un crime/heist movie che fosse dinamico, brillante e sfaccettato, ma che evidentemente non hanno trovato posto nella visione dei Manetti. Senza alcuna ambiguità strategica, Diabolik evidenzia sin da subito gli innumerevoli mezzi a disposizione del suo protagonista, assassinando ogni briciola di suspense o dubbio attraverso esposizioni ridondanti e pleonastiche. Un vero peccato, nonché un'ombra tetra su quella che minaccia di essere una trilogia dai toni smorti.
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