Sono trascorsi sessant’anni dalla vittoria sui saraceni che conclude il racconto di Ludovico Ariosto. Carlo Magno si è spento e il suo impero è stato ereditato dai paladini, che ne governano ciascuno un regno assicurando la pace. Ma dopo mezzo secolo di quiete, nuove sciagure minacciano la cristianità e addirittura il mondo intero: in tutti gli angoli dell’impero si susseguono cataclismi e si sollevano rivolte, mentre una nuova guerra con i mori è all’orizzonte.

È di nuovo il tempo di audaci imprese. A raccontarle in Furioso. L'ultimo canto (Mondadori, 324 pagine) sono Simone Laudiero, Carlo Bassetti, Fabrizio Luisi e Pier Mauro Tamburini (già noti come La Buoncostume).

Il romanzo segue – o forse meglio insegue – le vicende intrecciate dei numerosi protagonisti, tra i quali spiccano l’intraprendente popolana Esmerina, il soldato Brandimarte,ottuso quanto fortunato, la bambina Sami con le sue nonne, il cavaliere male in arnese Calvano accompagnato da un gigante e da una muffa: ciascuno alla ricerca di qualcosa o di qualcuno così come il paladino Orlando, di nuovo furioso per amore di Angelica.

Ogni ricerca si confonde con un’altra, tutte le strade si incrociano, tutte le storie si intrecciano, in un racconto che non smette di sorprendere dalla prima all’ultima pagina: nessuno è chi sembra essere, nulla è come appare, e perfino il motto raffigurato sulla prima di copertina, e nascosto dalla bellissima sovraccoperta illustrata da Marcello Crescenzi, non è in realtà soltanto un motto.

Probabilmente non diventerà una pietra miliare della storia della letteratura italiana e mondiale, ma quella realizzata con Furioso è un’operazione nata da un’idea brillante e ben riuscita nella sua realizzazione.

Dell’illustre precedente il romanzo conserva non solo l’ambientazione, ma soprattutto il tono e lo spirito, approfondendo e ovviamente aggiornando, ma in modo tutt’altro che scontato, la creazione ariostesca.

Anche qui, come nel poema originario, chiave di volta dell’intera narrazione è l’ironia – non a caso la troviamo letteralmente materializzata nel corso della vicenda – strumento che consente di utilizzare un contenitore di genere ribaltandone il contenuto.

Se Ariosto scardinava il modello del poema epico cavalleresco soffermandosi sui difetti e le debolezze dei suoi eroi, in Furioso l’opera di decostruzione riguarda l’equivalente contemporaneo di quella letteratura: le storie dei supereroi.

I paladini del ciclo carolingio, dotati di forza sovrumana e armi magiche, a una prima battuta sono naturalmente gli Avengers del medioevo. Ma dopo che tutti i nemici sono stati sconfitti, a che cosa servono gli eroi? È il quesito che già in passato ha ispirato la riflessione di Alan Moore in Watchmen, e più recentemente quella di Garth Ennis in The Boys (da cui è tratta la popolare serie TV prodotta da Amazon), che è probabilmente il riferimento più pertinente.

Proprio come in The Boys, infatti, al centro delle vicende di Furioso non sono tanto le imprese dei “super”/paladini, ma la necessità di liberarsene e la ricerca del modo con cui questi eroi apparentemente invincibili possano essere sconfitti e distrutti.

Infatti, a differenza che nei poemi cavallereschi (e dei film Marvel), protagonisti della narrazione non sono affatto i paladini, bensì gli umili che, per scelta o per caso, li combattono. E a compiere le audaci imprese sono molto più le donne che i cavallier.

Il tema di Furioso dunque non è propriamente originale, ma il risultato è comunque brillante perché è sostenuto da una scrittura di grande qualità, che incorpora riferimenti pop (ho citato Watchmen e The Boys, ma ce ne sono infiniti altri, e per restare a casa nostra anche risonanze con Orfani di Roberto Recchioni), ma rimane fedele, pur senza strafare e in modo del tutto naturale, al modello letterario di partenza.

Dell’opera di Ariosto il romanzo conserva non solo la struttura narrativa fatta di inseguimenti, incroci, riallineamenti, ma anche lo stile che tiene insieme alto e basso, comico e tragico (sì, in alcuni passi solo chi ha un bidone dell’immondizia al posto del cuore può trattenere una lacrima), splatter e incanto. È la famosa armonia ariostesca, aggiornata e declinata nel linguaggio del ventunesimo secolo.

Non mancano riflessioni anche profonde sui problemi che affliggono la nostra società, dalla disuguaglianza crescente al cambiamento climatico. La smania del paladino Astolfo di tornare sulla Luna, abbandonando la Terra sconvolta dai cataclismi, non ricorda forse quella dei “nostri” miliardari che se ne vanno a spasso nello spazio mentre il pianeta brucia?

E infine, sotto la superficie di un’opera che rimane pur sempre, soprattutto, di straordinario intrattenimento (mai come in questo caso absit iniuria verbis), il lettore finisce per riconoscere se stesso. Siamo noi, dopo tutto e troppo spesso, quelli che vagano e corrono e si struggono, come pazzi sotto un incantesimo, nel vano e solipsistico inseguimento di cose che forse neppure esistono.

Con delicatezza, il romanzo ci suggerisce la via di uscita: non gli eroi, ma la compassione è la noce che ci salverà. La buona letteratura può aiutarci a ricordarla.