The House of the Wolfings è un caposaldo della letteratura fantastica per "come è cominciata", quindi prima di passare alla recensione vera e propria riteniamo necessario fare due passi indietro: uno per l'autore, e un altro per l'opera.
Cominciamo da William Morris (1834-1896), nome che dovrebbe dire qualcosa agli appassionati di cultura, e non solo in merito alla narrativa di genere. Grande figura culturale dell'800 inglese, caratterizzata da un approccio di ampio e profondo respiro: passò dalla letteratura al design e all'architettura, e fu, militante, uno dei primi socialisti inglesi. Con la propria opera di poeta e romanziere gettò le basi del fantasy moderno, riferendosi idealmente ai miti del nord e dell'Islanda (che sempre ritornano, ora qui, ora là).
Considerando la portata della produzione intellettuale e l'influenza che ebbe nei decenni a venie, non riteniamo di sbagliare affermando che Morris è una figura di riferimento culturale che brilla di luce propria.
E ora introduciamo l'opera, rammentando che è stata pietra di paragone per le generazioni di scrittori di fantastico che sono seguite, in primis Robert Howard e J.R.R. Tolkien. Pubblicata per la prima volta del 1889, "Opera d'arte pura dall'inizio alla fine", la definì Oscar Wilde. Accolta con affetto fin da subito dai contemporanei, The House of the Wolfings fluttua tra la celebrazione dell'eroismo e del fantastico d'ispirazione medievale e una poco velata dichiarazione di intenti sociali e filosofici (ricordiamo che Morris fu una personalità di spicco nel socialismo inglese): da una parte l'amore istintivo per una comunità "di genti" fatta di condivisione, fratellanza e semplicità; in opposizione ai modi civili e all'utilitarismo della modernità, rappresentato dalla "tribù" dei Romani. Dall'altra, "filosofica", una poesia sull'essere umano e sulla battaglia che si agita nell'animo di ognuno di noi per raggiungere, o meno, il Walhalla con il cuore puro, nel senso di libero da paure e demoni interiori.
Stilisticamente, a imitazione degli antichi poemi epici, è molto presente l'alternanza di prosa e poesia.
Non potendo quindi non considerare l'opera come un capolavoro storico, che ovvero divide la letteratura del proprio tempo e del successivo in un "prima" e in un "dopo", è venuto il tempo di addentrarci nella recensione vera e propria di The House of the Wolfings, edito in italiano per la primissima volta da Black Dog edizioni, nel 2019.
Fin dalle prime battute si percepisce chiaramente di essere di fronte a uno scritto proveniente da una sensibilità molto diversa dalla nostra. Figlio del diciannovesimo secolo, lo stile è decisamente arcaico, con nomi, eventi e personaggi che si rincorrono come maree in tale modo da richiedere molta attenzione al lettore, e quindi molto tempo (com'è prezioso, oggigiorno), anche per tornare indietro a rammentare ciò che si era letto qualche tempo prima.
Le vicende seguono la vita, le speranze e i pensieri di Thiodolf, immaginario e all'incirca "storicamente" collocato capo dei Goti, che si oppone, anima e corpo, all'invasione da parte di una tribù "che costruisce recinti e che brucia la Case" più civile e organizzata, ovvero quella dei Romani.
L'ambientazione ai nostri critici occhi appare senza dubbio ridondante: troviamo la dimore della grandi casate della tribù dei Goti, ovvero gli Wolfings, i Bearings, i Geirings, i Daylings… e molti altri ancora, e da qui poco ci si discosta, in un ritornare di luoghi simbolo, come la Radura dei Raduni, e il fiume Mirkwood. E poi boschi, pascoli, vallate, notti sognanti e specchi d'acqua in cui si riflette "l'anima delle genti." Niente di più. Una cornice molto semplice e per certi versi bucolica.
Thiodolf, capo designato dalle genti per difenderle dall'invasione, è, come detto, il protagonista. Un ruolo di rilievo lo ha anche la "Lanterna", una figura femminile, che ha un legame di sangue con Thiodolf, e che forse rappresenta un tipo di saggezza diversa da quella del "guerriero": la Lanterna, così chiamata a simboleggiare il focolare domestico, si occupa di guidare il popolo nell'assenza di ogni altro condottiero, di cercare nascondigli per i deboli, di suddividere le risorse, e più di una volta dà prova di una lungimiranza che supera i signori della guerra. Spesso e volentieri ne anticipa i piani, e le sue staffette, pronte a uccidersi se catturate, sembrano essere sempre un passo avanti a tutti.
La traduzione – che ricordiamo, è "la prima" in italiano, a cura di Elena Rambaldi – ha richiesto senza dubbio un grande lavoro interpretativo, di cui troviamo qualche traccia in un'appendice a chiusura del libro. Termini desueti e lontani dalla nostro sentire sono stati resi fruibili e meno ridondanti.
L'edizione è anche arricchita dalla "molto oscure" e suggestive illustrazioni di Elena Massola, che a cadenza regolare durante la lettura raffigurano alcuni dei momenti più toccanti e poetici.
Dopo una lettura meditata di diversi mesi, come l'opera secondo noi richiede, ci fa piacere approfondire l'aspetto più filosofico di questa. Tra le righe ci sono troppi significati profondi per fermarsi alla definizione di "fantasy" o fantastico solo come genere. La storia è pervasa da una sorta di Umanesimo, declinato secondo l'interpretazione di Morris, dove ogni gesto, anche se all'apparenza insignificante, assume un'importanza simbolica di grande rilievo. Indossare un'armatura e inconsciamente operare con la breve prospettiva di riportare a casa la pelle o affrontare l'avverso destino senza timori (e usbergo), e quel che sarà, sarà?
Ai lettori l'ardua sentenza. Morris chiude quest'opera con una filosofia generosa e benevola verso tutti e tutti. Gli eroi vanno e vengono e risorgeranno nei momenti conviviali del popolo nei quali saranno ricordati, in un momento condiviso di fratellanza anche con i nemici e la loro memoria. Ciò che è stato è stato ed è ora di concentrarsi sul momento presente.
A nostro avviso, una lezione da approfondire.
Nelle risorse di rete, il link al libro.
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