<<Uscii dal tenebroso corridoio, sentendo alle mie spalle i gridolini di qualche tremebonda damigella, che si stringeva al braccio del suo cavaliere terrorizzata dallo spettacolo dell’orrido, solo per trovarmi in una stanza un poco più larga ma non meglio illuminata dai candelabri agli angoli, che la facevano assomigliare a una camera ardente; al cui centro infatti stava una sorta di teca di cristallo disposta come un parallelepipedo orizzontale retto da appositi piedi metallici a forma di zampa d’animale come quelli delle vasche da bagno, con accanto un cartello che recitava…
Guardai attentamente il parallelepipedo cristallino: attraverso lo strato di brina potei scorgere effettivamente il corpo di una giovane distesa come in una cassa da morto; era completamente nuda e, a quanto era dato scorgere, davvero appetitosa.Per avvicinarsi meglio al parallelepipedo di ghiaccio, naturalmente era necessario deporre una moneta nell’apposita fessura. Mi sono fermato qualche istante a meditare che senso potesse avere, anche per un dissoluto come me, pagare per il privilegio di baciare una lastra di ghiaccio… oppure c’era anche lì qualche trucco, per cui al cadere degli scellini nella fessura, il ghiaccio si sarebbe dissolto come la nebbia che sembrava avvolgere le membra della fanciulla, offrendola finalmente al naturale alle labbra del suo liberatore? Ma no, non era possibile che un tale piatto venisse servito a un visitatore per così pochi spiccioli, meno di quanti ne avrebbe chiesti una donnaccia di strada… doveva per forza essere un trucco. L’avido avventore avrebbe dilapidato le sue monete per il solo privilegio d’appoggiare le labbra su un blocco di ghiaccio… all’improvviso le mie riflessioni furono interrotte da un robusto garzone che superò la mia incertezza passandomi davanti con uno sbrigativo “permesso”, seguito dalla sua riottosa fidanzata imbronciata. Il giovane, tutto compreso nel suo ruolo di preteso principe azzurro, brontolò qualche scusa in risposta agli stizziti “cerchi di baciare un’altra anche quando sei con me?” della morosa, depose l’obolo nell’urna e s’accostò al blocco di ghiaccio, cercando di posizionarsi in corrispondenza del volto dell’evanescente fata del gelo ridacchiando stupidamente, come il volgare energumeno che era.Gli andò male: lo lasciai che mugolava pateticamente, con le labbra ustionate dal gelo ma incollate alla morsa del ghiaccio, che aveva fatto subito rapprendere la saliva con cui se le era schifosamente inumidite per baciare la bella addormentata. Ansimava come una locomotiva, emettendo densi sbuffi di fiato vaporizzato dal ghiaccio. Non so se fossero quelli o un ultimo effetto teatrale del beffardo creatore di quell’attrazione, ma la bella del ghiaccio era ormai sparita alla vista. L’estrema punizione per il vorace baciatore? Ma c’era mai stata veramente la fanciulla nel parallelepipedo di ghiaccio, o era stata un’altra burla abilmente giocata dai perfidi imbonitori ai nostri occhi ansiosi d’essere ingannati? Comunque fosse, ben gli stava: lo zotico non mi faceva alcuna pena e me ne andai lasciandolo ai meritati rimproveri della fidanzata gelosa, procedendo oltre.
Il cosiddetto “circo delle meraviglie” aveva qualcosa con cui sorprendere davvero i miei sensi sovraeccitati?Scoprii che ce l’aveva. Lasciata alle mie spalle la camera ardente-glaciale, procedetti ancora per un tratto di cunicolo fra due pareti anguste formate dalle tende del circo, che fremevano agli spifferi della fredda aria londinese, e mi trovai all’ingresso di uno squallido teatrino. Accanto al botteghino per la vendita dei biglietti, in cui troneggiava un’orribile orchessa con una benda su un occhio e mani grandi come badili strette in guanti che nel secolo scorso dovevano essere stati di velluto, stava ritto un uomo dal ghigno satanico per cui invece provai un’immediata simpatia. Alto e slanciato almeno quanto il mio gemello Jekyll, l’uomo vestiva una strana camicia all’orientale, col colletto come quello dei preti, infilata in pantaloni attillati alla cavallerizza, a loro volta stretti dentro stivali di cuoio alti. Il suo eccentrico aspetto era completato da barbetta a pizzetto reale, un cappello a cilindro e curiosi occhiali dalle lenti rotonde e scure. Ma la cosa più incredibile era sicuramente la camicia: del tutto senza maniche, lasciava scoperte le braccia dell’uomo, muscolose e interamente coperte di tatuaggi come quelle di un marinaio, forse un corsaro. Il misterioso imbonitore dagli affilati lineamenti zigani mi lanciò un penetrante sguardo sopra le lenti blu facendomi cenno d’avvicinarmi: m’invitava ad entrare in un lurido teatrino ricavato sotto un altro tendone facendo il caratteristico gesto di ripiegare l’indice inanellato della mano destra verso di sé, con quella ripugnante unghia lunga e orlata di nero. Eppure… vieni, vieni…
“Benvenuto, sigh-nòre, al Gran Teatro Marébito”, disse pronunziando le parole scandite con accento straniero e con enfasi che faceva sentire le maiuscole anche nella voce. Però il suo sguardo era sardonicamente tentatore, non sfuggiva il mio con quell’espressione di ribrezzo terrorizzato a cui mi ero ormai abituato, anche un po’ affezionato, in tutti quelli che incontravo come Hyde, ma che non vedevo negli occhi taglienti dell’imbonitore. Forse avevo incontrato un mio degno contraltare?L’uomo anzi sembrava ridersela fra sé: “qui dentro, sigh-nòre, tutto quello che potete sognare è già realtà. Guardate qua, preggo, mio buon messere”, disse distendendo verso di me entrambi gli avambracci tatuati con le mani aperte. Fu solo allora che osservai attentamente l’intricata selva di disegni che copriva ogni pollice dell’epidermide dello zigano: un serpente s’attorcigliava in lunghe spire su ciascun avambraccio fin sui bicipiti, le rispettive teste occupavano i deltoidi dell’uomo, saettando le lingue biforcute come per lambirgli il collo e le orecchie, come lingue di donnacce infoiate. Ognuno degli anelli concentrici della loro torsione conteneva una scena animata e dettagliatissima, il tatuatore che aveva realizzato disegni così precisi e minuti doveva essere davvero un artista. O meglio un mago.
“Guardate, messere, guardate bene cosa vi attende nel nostro gràan teàatro” imboniva l’uomo, come se la sua fosse la voce stessa dei serpenti tentatori: “riconoscete forse qualche visione che già vi appartiene?”. Così guardai nuovamente i tatuaggi, ancora più a fondo: era pazzesco, ma si muovevano! Quei disegni erano come vivi, i serpenti strisciavano avvolgendosi su se stessi all’infinito e le scene racchiuse nelle loro volute attendevano lo sguardo dell’avventore per prendere vita: i loro protagonisti si contorcevano nell’ansia di gridare allo spettatore le loro tragiche vicende, proprio come in un grottesco teatrino in miniatura. Alcuni si vedevano capovolti, come negli specchi deformanti che si trovano proprio in queste fiere delle meraviglie. Il labirinto degli specchi! Ecco dove mi stavano guidando i disegni sulle braccia dell’imbonitore: vedevo là dentro i miei amici aggirarsi inquieti, Utterson ed Enfield, prima sottobraccio poi sempre più agitati, cercavano una via d’uscita girando di qua e di là, gridando disperatamente il nome di Jekyll e andando continuamente a cozzare contro una nuova, lucida parete riflettente come mosche impazzite. Notai che Utterson si affannava a nascondere sotto la giacca una busta. Fra gli specchi s’era perso anche il buon Hastie Lanyon, amico di mille dispute, che mi gridava come sempre il suo disaccordo per le mie perniciose teorie, specchiandosi nel vetro che lo separava dagli altri amici di pochi metri e agitando in mano una lettera…
“Volete entrare nel nostro Teatro o vi basta perdervi nell’universo di Zothique?”, gracchiò sgraziatamente la megera bigliettaia riscuotendomi all’improvviso. Zothique doveva essere dunque il nome del misterioso zingaro. “Noi lo chiamiamo così perché i suoi tatuaggi sono un universo a sé, un mondo in cui è facile perdersi se lo si guarda intensamente”. Infatti io mi ci stavo perdendo per davvero, come un cobra davanti all’incantatore.Vedevo il buon Poole specchiarsi ansioso davanti alla porta dello studio del suo padrone Jekyll, la bambina schiacciata fra gli specchi, un vecchio che camminava da solo nella notte cercando la giusta direzione senza trovarla…“Ognuno di quei tatuaggi racconta una storia, sa?”, riprese la megera. “Dovremmo farvi pagare il biglietto anche per guardare lui… anzi, penso proprio che lo faremo perché hanno un’altra caratteristica unica, ha notato?”. Io fissavo le braccia dell’uomo rapito. Allungai meccanicamente alcune monete alla donna senza contarle, avrei pagato qualunque cifra m’avesse chiesto per non interrompere quelle visioni. “Ci sono su delle persone che conosco… fatti che ho vissuto, ma io non conosco quest’uomo, non l’avevo mai…”.Il vecchio ora era steso sul selciato, una pozza di sangue s’allargava intorno alla sua testa come un’aureola maledetta.
“Perché i tatuaggi non raccontano solo storie già accadute a chi li osserva: se siete fortunato, possono anche predire il vostro futuro”, fu l’ammiccante spiegazione della bigliettaia mentre infilava le monete nel borsellino che portava appeso fra i seni enormi come un monile. Avanzai d’un passo seguendo lo zingaro Zothique che si stava addentrando nel vestibolo del teatrino attirandomi dietro di sé come un pifferaio magico.Le visioni da incubo là dentro erano appena cominciate: sembrava come se il mio ingresso avesse acceso all’improvviso un carillon della follia che attendeva un giro di manovella per riprendere vita su quel piccolo palcoscenico alla buona, che s’animava come un Giardino delle Delizie di Bosch dell’epoca moderna: quello zingaro, Zothique, brandiva una frusta da domatore tenendo lo stivale destro appoggiato sulla schiena di una scimmia in tutù china a quattro zampe con una mascherina carnevalesca sugli occhi, che tentava di sfuggire alla sua sferza guizzando lateralmente come un granchio e veniva rudemente riportata all’ordine con gli strattoni al guinzaglio che la legava al collo come una cagna da ammaestrare.
L’accompagnamento musicale di un’allegra marcetta tipica da circo equestre rendeva ancora più assurda la scena. L’imbonitore tatuato legò poi il guinzaglio alla spalliera di una sedia, liberando così una delle sue mobilissime mani da prestigiatore, o da sciamano, per attirarmi a sé con misteriosi e sinuosi gesti d’invito: “vieni a me… a me soltanto…” diceva senza muovere le labbra. “Solo chi attraversa il nostro speziato giardino trova in sé la forza di dar forma concreta alla propria immaginazione, rinascendo dalla Notte dell’Anima a veder l’oro dell’Alba di un nuovo Giorno”. Lo sentivo nella mia testa senza che lui dicesse una sillaba. Come un antico alchimista, come quei remoti stregoni che sapevano muoversi e piegare a volontà le mura del Sogno, dalle cui erbe magiche avevo tratto gli ingredienti della mia pozione.
Il palco del teatrino era angusto e fiocamente illuminato da grandi candelieri da chiesa, sotto di esso si assiepavano poche file disordinate di seggioline di legno. Ma ciò che andava in scena nella greve penombra delle sue rozze tavole faceva fatica ad essere assimilato dallo sguardo umano: lasciandomi trascinare dall’imbonitore Zothique avanzai nella penombra e urtai una massa morbida che mi intralciava il cammino sul palco. Guardando ai miei piedi mi accorsi solo in quell’istante che si trattava di una lunga coda di rettile che sgusciava schifosamente sulle tavole di legno gettandomi nel terrore; mi ritrassi di scatto vedendo meglio che in realtà non si trattava di un animale ammaestrato da circo: la coda andava ad attaccarsi alla base della schiena di una figura umana. Un’altra donna, questa completamente nuda, stava elegantemente passeggiando sul palco del teatrino inoltrandosi nella scenografia dipinta sul fondale di un giardino accompagnata da una serva di colore, anch’ella ignuda e caudata come un varano del deserto. Feci per girarmi verso Zothique e vidi le sue mani incantatrici muoversi sempre, fatate come farfalle, facendo voltare l’inquietante creatura, che girandosi verso di me rivelò un’ancor più spaventevole testa di lupo che spalancò provocatoriamente le fauci in quello che avrebbe potuto sembrare la grottesca parodia di un civettuolo sorriso di saluto.
Ma l’immonda creatura ibrida non era l’unica visione innaturale destinata a turbare la mia mente in quel teatrino in cui i miei piaceri immorali scolorivano come le marachelle di uno scolaretto. Quasi contro il sipario di fondo stava un tavolino di legno su cui poggiava il ventre una terza femmina, anch’essa completamente nuda e liscia come un manichino da disegno, o un blocco di marmo grezzo, di cui mostrava anche l’immobile incompiutezza, che infatti rendeva difficile godere lascivamente della sua nudità. La donna non aveva lineamenti sul viso, né una definita massa di capelli sulla testa; le mani e i piedi erano appena accennati e senza dita, tutto il corpo appariva rigido come una scultura appena sbozzata nella pietra.Alle spalle della rozza Galatea stava un Pigmalione che la colpiva ritmicamente con le setole di un pennello sito in punta di una sorta di frustino da caccia lungo oltre tre piedi, che abilmente intingeva su una tavolozza da pittore. Osservandolo con attenzione, pur nello sbalordimento che cresceva in me, notai che ad ogni tocco di quello strano strumento d’arte, il corpo della fanciulla risultava meglio definito: la pelle acquistava il naturale colore dell’incarnato, le curve delle anche risultavano più realisticamente tornite, e quindi golose. Successive pennellate donarono alla donna una bella chioma castana mossa, arti completi e affusolati, per finire coi graziosi tratti del viso: occhi scuri, labbra rosse e desiderabili, sopracciglia capricciose. Il mio sbalordimento stava crescendo di fronte all’impressione di vedere che la giovane sbocciata dal blocco informe ora sembrasse persino accennare qualche tentativo di movimento, pur restando china con le braccia appoggiate sullo scrittoio da cui porgeva generosamente le terga al suo Pigmalione, e al mio sguardo, quando un’ultima stoccata di pennello-frustino dell’artista le strappò un lieve gemito. Che mi diede la conferma finale del fatto che l’arte del Pigmalione aveva infine infuso realmente la vita in quest’altra fantastica creatura sbucata dal suo pennello come dal mondo del sogno.
Arretrai di scatto spaventato, solo per urtare con la schiena il busto di una specie di centauro umano: il torso d’uomo che si ergeva alle mie spalle. Intrecciato a un mostruoso viluppo di altri corpi umani – o parti di essi – che formava una sorta di grottesco gruppo scultoreo a metà strada tra quello classico di Laocoonte e quello moderno delle Furie dell’Inferno dantesco del francese Doré: una femmina alata dagli artigli grifagni si lanciava sul corpo inerme di un’altra fanciulla reclinata fra e coltri come un incubo incarnato, con l’intento di possederla o di sbranarla, o forse entrambi. Ma il letto su cui giaceva la donna preda era composto dai dorsi di uomini e donne fusi insieme in un mostruoso abbraccio come cera di candele liquefatta senza disegno dalla fiamma: una geenna di braccia levate, membra contorte e straziate, non avrei saputo dire se sfinite dal supremo piacere o squarciate dalla più crudele punizione diabolica.
Ma quanti saranno stati ogni sera gli spettatori pronti a spingersi nello Stige di questi abominî?“Pochi – risuonò nel silenzio del mio cranio – solo chi sa davvero osare l’oltre riesce ad abbracciare il Tronco degli Amanti”. E all’oltre pareva che in effetti non vi fosse limite alcuno in quel serraglio di follia: il centauro teneva per le briglie, somma ironia, un’altra creatura che sembrava sbucata dai recessi del Tartaro. Era ancora una fanciulla di delicata bellezza, nonostante fosse completamente glabra, fino al cranio, la cui pelle liscia ed esposta rivelava i solchi di orribili cicatrici che deturpavano la sua venustà come se la poverina fosse reduce dalle più crudeli torture dell’Inquisizione. La mia mente si stava già disponendo ad immaginarle con un accesso d’eccitazione, quando capii che dovevano essere frutto di una mutilazione: vista di spalle, le due più profonde erano quelle speculari incise proprio sotto le scapole, come se le fosse stato amputato un paio d’ali. Un angelo caduto su una terra ben ostile, o una condanna senz’appello dall’Alto?
Quali peccati, quali colpe si espiavano nel Teatro Marébito in cui m’ero lasciato convincere ad entrare?E che crimine poteva aver macchiato quel vecchio che, con aria ispirata, alzava gli occhi al cielo e si martellava con le sue stesse mani lunghi chiodi di ferro, facendoli sparire nelle attaccature delle braccia e delle gambe al proprio torso?
Finalmente, avanzando fra gli orrori e gli scherzi di una natura o di una divinità senza mercede, mi trovai di fronte al misterioso Zothique, che mi sorrideva compiaciuto come se fosse lui il vero regista della turpe messinscena che metteva a dura prova anche una mente luciferina come la mia. Ora, trovandomelo finalmente di fronte a torso nudo, vidi che le visioni infernali che mi avevano appena scosso erano tutte tatuate sul suo incredibile corpo, dove brulicavano senza sosta.
“Quindi questo selvaggio spettacolo è un vostro disegno”, gli dissi a bruciapelo illudendomi di stupirlo vantando una finta comprensione del suo trucco. “Ma, ditemi, dove trovate l’ispirazione per figurazioni tanto morbose?”. L’uomo continuò a fissarmi sardonico per alcuni lunghissimi secondi, quindi con mossa da prestigiatore estrasse da non capii dove uno specchio da mano e me lo pose davanti, sempre senza proferire motto. Io? Era questa la simbologia? Voleva dire che tutte le contorte, oltraggiose oscenità attraverso cui m’aveva condotto altro non erano che la rappresentazione drammatica delle più profonde fantasie della mia anima?
Zothique non perse tempo a rispondermi a parole, ma ancora una volta mi chiamò a sé. Quando gli fui vicino mi mise in mano lo specchio: appena io lo presi per il manico lui ne tirò all’indietro la cornice, che in realtà si allungava a soffietto come un cannocchiale telescopico. Istintivamente accostai l’occhio alla lente dello specchio per vedere se in effetti il sistema in quella forma permettesse di vedere oggetti lontani anziché riflessi.Non so dire in verità dove potessero trovarsi le scene che vidi nella sua pupilla, se fossero davanti a me nello spazio o forse nel tempo. Mi sembrava di osservare a una grande distanza, perché le situazioni che vedevo erano un po’ sfuocate, monocrome d’un grigio un po’ azzurrognolo… e i personaggi che le animavano si muovevano come a scatti.
Rividi un individuo deforme che s’affrettava camminando goffamente in un vicolo buio, fino a travolgere nella sua marcia una donnetta molto piccola di statura… forse una bambina? Una scena che ricordavo.Poi vidi un’altra figura più confusa, forse era sempre la stessa, che si accaniva su un corpo piegato su un tavolaccio di legno grezzo… e ancora lampi di un’altra scena in un vicolo buio, stavolta con un anziano invece di una fanciulla. Infine un pittore interamente inzuppato di sangue.Di che situazioni si trattava? Erano altre provocatorie pantomime di quel teatro dell’orrore o l’imbonitore mi stava facendo specchiare in qualche cosa che mi riguardava? Qualcosa che mi attendeva?
Decisi d’immergermi a fondo nella visione per capirlo, costasse quel che doveva costare. In fondo ormai avevo infranto i vincoli della normalità, quindi dovevo andare a fondo della conoscenza per scoprire dov’era diretto il vero me stesso, cosa lo attendeva dopo la liberazione dalla prigione dell’altra mia identità rispettabile.
Ghermii tutti gli spiccioli che trovai nel taschino del mio panciotto e tirai fuori la mano chiusa a pugno brandendola davanti agli occhi dell’imbonitore. Lui mi porse di rimando lo specchio-cannocchiale affinché potessi guardarvi dentro meglio: “Osservate, mio signore, osservate a fondo… più… lontano”, disse.
Le cose che vidi allora si spingevano ben più in là di qualsiasi piano avessi concepito in relazione all’uso del mio farmaco. Il futuro che si snodava sulle membra di Zothique era il mio. E io non avrei rinunciato a gustarne neanche una goccia.>>
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