La Sirenetta è il ventesimo (o poco più, contando gli anni Novanta) remake Disney live action, più per mantenere i diritti delle sue properties che per sfruttarle all’osso. Dopo il capolavoro The Jungle Book (2016) dell’eclettico Jon Favreau, dove peraltro l’unico elemento reale non in CGI era il piccolo Mowgli (animali e foresta erano tutti digitali), ecco arrivare inevitabilmente il film dal clamoroso successo di critica e pubblico che nel 1989 diede origine al cosiddetto “Rinascimento Disney” (in realtà preceduto l’anno prima da Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis) durato almeno dieci anni condizionando tutta l’epoca a successiva, non soltanto della Casa del Topo – che quest’anno festeggia il centenario, 6 mesi dopo la rivale Warner Bros. – ma dell’intera animazione statunitense e di riflesso mondiale.
La storia s’incentra come ben noto attorno alla sirena adolescente Ariel (Halle Bailey con la sorella Chloe celebre a Broadway, doppiata in italiano da Sara Labidi ai dialoghi e l’italo-angolana Cristiana Cattaneo in arte Yana C al canto), figlia più giovane del re Tritone di Atlantica (Javier Bardem, come d’abitudine doppiato da Roberto Pedicini) e giocoforza affascinata dal mondo umano in superficie, idealizzato come chi non ne ha mai fatto esperienza e a maggior ragione in reazione alle proibizioni di venirne a contatto. Dopo aver salvato da un naufragio il ribelle principe Eric (Jonah Hauer-King, doppiato da Federico Campaiola nei dialoghi e Simone Iuè nelle canzoni, già in Coco e La Bella e la Bestia) – bianco e adottato da una regina vedova di colore, che vuole girare il mondo a dispetto delle preoccupazioni della genitrice – ed essersene fatalmente innamorata, immagina di vivere insieme a lui sulla terra.
In questa tensione s’insinua la subdola “strega del mare” zia Ursula (Melissa McCarthy, doppiata da Simona Patitucci), che la spinge a un patto truffaldino in cui Ariel scambia la sua bella voce con gambe umane per raggiungere l’amato. Conseguenti drammi e colpi di scena condurranno la storia all’immancabile lieto fine, con tanto di (apparente) crescita interiore senza troppi drammi e grazie all’aiuto del fidato granchio Sebastian (in originale con la voce del rapper Daveed Diggs, in italiano da Mahmood) e il gabbiano distratto Scuttle (in originale Awkwafina, da noi Alessia Amendola).
Dopo le prime voci intorno ad Ariana Grande e Zendaya per il ruolo di Ariel, nell’estate 2019 è stato annunciato il cast, compreso il rifiuto del ruolo di Eric da parte di Harry Styles (per il tour previsto l’anno seguente, in realtà poi slittato per la pandemia) e suscitando opposte polemiche di blackwashing e razzismo per la scelta dell’attrice protagonista (peraltro in una linea di apertura oltre il mondo occidentale che la Disney persegue fin da Aladdin nel 1992). Un’indubbia attenzione a pubblico e sensibilità odierni, dopo decenni di ribalta al monocromatismo bianco di interpreti e relazioni, ma anche strizzatina d’occhio al marketing pressoché ininfluente alla trama (oltre al fatto che le sorelle mostrano plasticamente come il padre Tritone abbia avuto figlie dalle maggiori etnie dei 7 mari…).
Il musical animato del 1989 si era rivelato un successo di critica e pubblico (compresi gli Oscar per la miglior colonna sonora e la miglior canzone Under the sea, da noi In fondo al mar), recuperando in parte un’idea già di Disney nel 1939 e trovando l’impostazione vincente di un musical di Broadway come La piccola bottega degli orrori del duo Howard Ashman & Alan Menken a descrivere la più classica delle avventure adolescenziali di maturazione. Naturalmente l’originale di Hans Christian Andersen del 1837 è ben più violento (la protagonista è senza nome, le sorelle annegano i marinai per indole, la maggior età comporta un sadico rito d’iniziazione, i continui richiami alla sofferenza fisica impartiti dalla zia e dal personaggio “extra” della nonna, la scelta finale è tra sposare il principe o morire…), ma la fascinazione per il mito ancestrale nato nell’Odissea – imperdibile l’ancora recente Atlante delle sirene (il Saggiatore 2017) della regista e studiosa Agnese Grieco – nel classico d’animazione rimaneva intatto e anzi rilanciato in chiave pop (compreso l’aspetto ispirato alla drag queen Divine).
Come in altri casi, anche qui la durata si espande (due ore e un quarto contro un’ora e mezza scarsa) e le canzoni sono una decina ma mai più lunghe di un paio di minuti (scomparso Ashman nel 1991, Menken fa coppia in 4 brani inediti con Lin-Manuel Miranda noto per Encanto, Oceania e il sequel di Mary Poppins), con coreografie ben più “animate” e digitali di quello che all’epoca fu l’ultimo classico disneyano con produzione delle tradizionali cels dipinte a mano, dirette dalla specialista Tara Nicole Hughes con supervisione del regista di Chicago (2002) e già “disneyano” dietro la macchina da presa del quarto Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare (2011) e Il ritorno di Mary Poppins (2018).
Il problema è che narrativamente la storia viene allungata a dismisura con il doppio esiziale controsenso di vedere espunto quasi ogni siparietto comico (con il rischio di annoiare gli spettatori più piccoli) e di aspettarsi fantasmagoriche scene da Broadway di cui in realtà non c’è praticamente traccia: si resta a bocca aperta sì, ma proprio per la loro assenza (fatti salvi naturalmente i colori e le scenografie: e ci mancherebbe, visto il budget da 150 milioni di dollari pubblicità esclusa… anche se dopo la Pandora acquatica del secondo Avatar è difficile meravigliarsi troppo).
Anche ideologicamente, nonostante la patina libertaria e inclusiva (che ha anche portato a ritoccare alcuni versi nei testi delle canzoni originali, fra l’altro con fin troppi fuori-sincrono nel doppiaggio) nel 2023 ci si aspetterebbe qualcosa di più di una rilettura con sensibilità moderna della celebre fiaba di Andersen, visto che alla fine l’unione fra i popoli del mare e della terra – o meglio, dell’isola di cui Eric è il principe – non si discosta molto da una visione patriarcale, dove tutto si risolve per concessione dei legittimi monarchi… che appena prima del disastro (anzi, in realtà subito dopo) arrivano a comprendere la situazione e si adeguano ai tempi quel minimo che comunque non mette minimamente in dubbio la loro autorità. Che sia anche questo un segno dei tempi?
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