Nel 1858 la Romagna faceva parte dello Stato Pontificio governato dal Papa re Pio IX. Da lì a poco L’Italia sarebbe stata scossa dai moti d’indipendenza ma prima che il potere temporale della Chiesa si riducesse al solo Stato Vaticano, Edgardo Mortara, un bambino ebreo di appena sei anni fu rapito dalla propria famiglia poiché, a insaputa di questa, era stato battezzato. Per la legge vaticana il piccolo era diventato cristiano e in quanto tale la Chiesa doveva prendersi la responsabilità di educarlo secondo la dottrina cattolica. Di fronte a un tale dogma a nulla valsero gli appelli disperati del padre Salomone e della madre Marianna, né dell’intera comunità ebraica che, denunciato l’accaduto ebbe l’effetto di creare sdegno in molte nazioni. Pio IX però non fece alcun passo indietro nonostante la perdita di potere da parte della Chiesa e le critiche unanimi ricevute, e al piccolo Edgardo non rimase altro da fare che cercare di sopravvivere nella sua nuova vita.
Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio presentato in concorso al festival di Cannes, racconta un fatto realmente accaduto e si basa su un libro di Daniele Scalise che descrive la vita di Edgardo Mortara. La vicenda senz’altro meno nota del caso Moro, altro rapimento a cui Bellocchio ha dedicato due film (Buongiorno notte ed Esterno notte), ha però il medesimo intento di raccontare l’Italia e le dinamiche di potere che la guidano. Se nei film su Moro la violenza irrazionale veniva dal terrorismo, in Rapito è la Chiesa Cattolica in quanto promotrice di dogmi a esserne il simbolo. E che cosa sia un dogma, ovvero un principio che si accoglie per vero o per giusto, senza esame critico o discussione, lo fa dire Bellocchio al piccolo Edgardo durante i primi anni della sua educazione cattolica. La coercizione a cui il bambino viene sottoposto non è mai fisica, anzi il papa con lui è particolarmente affettuoso come un padre con un figlio al prodigo, ma non per questo meno aberrante. Esiste una verità assoluta e tutto è ammesso in suo nome.
In Rapito non vi è tuttavia una presa di posizione contro la Chiesa di Roma ma una messa in scena, che sfiora non a caso l’horror gotico durante il rapimento del bambino, della violenza operata in nome di una verità, qualunque essa sia. Di fronte alla disfatta politica e ai cambiamenti della società, chi opera per dogmi diventa inevitabilmente più violento e inflessibile, incapace di riconoscere l’evolversi della Storia. Così il papa con un ultimo e irrazionale colpo di coda e solo una decina d’anni prima della breccia di Porta Pia, può rapire un bambino senza che nessuno faccia nulla, ma anche quando arriva lo Stato e la Romagna diventa indipendente, la famiglia Mortara non riesce a trovare giustizia, perdendo per sempre il figlio. Inutile anche il ricongiungimento con la madre morente di un Edgardo ormai adulto che ha abbandonato questa volta consapevolmente la famiglia per la Chiesa. In punto di morte la donna rivendica la propria fede ebraica mentre la schizofrenia di Edgardo, consapevole del proprio passato ma incapace di colpevolizzare, se non in un attimo di follia, chi gli ha fatto del male, fa emergere lo strazio di una condizione che non ha vie d’uscita.
Con una direzione degli attori magistrale, la fotografia plumbea di Francesco Di Giacomo, un copione di una mirabile scrittura e un occhio sempre attento a raccontare i dettagli della vita quotidiana dei personaggi, Bellocchio costruisce un’opera potente, sia per grandezza visiva, sia per analisi. Uno sguardo rigoroso il suo tra politica e religione senza cedimenti ma capace di raccontare una storia emblematica evitando la trappola della parabola.
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