Divertente, caleidoscopico, iperbolico, queste sono solo alcune delle definizioni, che esplodono dopo la visione di Spider-Man: Across the Spider-Verse.
Finalmente è possibile vedere al cinema un’integrazione interraziale vera, funzionale, credibile, non come molti film e film animati dettata dal politically correct, che alla fine risulta essere una mannaia per la buona costruzione della storia. Ad aumentare la sensazione di una vera rete fra le persone, le linee temporali e spaziali contribuisce l’uso dei diversi stili visivi, che bombardano gli occhi degli spettatori, in un pirotecnico volteggio proprio di Spider-Man; sarebbe ormai più corretto dire di tutti gli spider-men e spider-women.
Il film, che riprende varie storie dai fumetti, anche quelle meno conosciute e presenta al grande pubblico le tante versioni del personaggio, alcune delle quali veramente spiritose, sembra voler dire che tutti possono essere spider. Sorge così una serie di riflessioni: se tutti possono essere spider, non ci sarà un’inflazione? E ciò non potrebbe creare molti problemi di gestione, perché ogni spider ha una visione unica e precisa di come affrontare i cattivi, la vita, l’universo e tutto quanto? E se ognuno, in buona fede – anche i cattivi sono animati dalla buona fede, magari credono in un’idea sbagliata, ma sono sinceri nella convinzione che la loro sia l’idea migliore – crede che la propria sia l’idea migliore, chi è demandato a guidare gli altri? Ognuno ha una linea temporale e spaziale?
Ogni linea temporale e spaziale è indipendente, o, come insegna Ritorno al futuro, se cambi una linea temporale, si cambia tutto il resto? Però nella saga di Robert Zemeckis e Bob Gale l’universo era uno. Qui siamo in un multiverso.
Quindi? Seguiamo il protagonista, Miles Morales, un ragazzo mezzo afroamericano e mezzo portoricano, che si ritrova a combattere non solo contro una famiglia che lo ama e lo vuole proteggere, ma anche contro gli altri Spider-Man degli altri universi, che devono proteggere l’integrità del canone. E qui emergono altre domande.
Una espressa dichiaratamente nella storia, il problema è: salvare una persona, che ami, a cui sei legato, o salvare tante persone? Un bel dilemma atavico. L’altra domanda è: ma il canone è immutabile? Chi decide che è immutabile? E se crediamo che sia immutabile solo per abitudine e invece ormai è passato, desueto, non più rispondente alle necessità? E se si cambia il canone è lecito imporre le conseguenze a tutti gli altri, conoscendo solo in parte le conseguenze? E se non lo si cambia e si rimane incistati in un loop che avviluppa e soffoca?
I registi Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson e gli sceneggiatori Phil Lord, Christopher Miller e David Callaham sembrano voler dire che ognuno ha la propria identità, la propria particolarità e ognuno deve cercare la propria strada. Ma in una società parcellizzata come quella verso cui siamo diretti (l’individualismo tipico della società USA fin dai suoi esordi, per cui il singolo vale più della collettività e la libertà personale vale più di qualsiasi rispetto per una qualsivoglia etica sociale), cercare la propria strada è un imperativo kantiano? A quale prezzo? Quando ci si deve fermare e qual è il giusto compromesso? Forse in una società con tanta fragilità e un livello di sofferenza così alto, come ci sono in quella odierna, far leva sull’individualità non è proprio consigliabile, ma la giustificazione è che ci troviamo fra le mani un adolescente e, si sa, quest’età è quella della ricerca di sé, dei propri confini e solo i confini (contrariamente a quanto si possa pensare), creano l’identità.
Divertenti i rimandi a tutto l’immaginario visivo, che lo spettatore, anche il meno nerd, conosce bene. I nerd troveranno divertentissimo il tentativo di riabilitare la credibilità da parte del cattivo più ridicolo ci sia: Macchia. Mirabolanti i riferimenti artistici: da Basquiat, alla cultura postpop, al grunge, mescolati con maestria e senza mai cadere nel didascalico.
Un bel prodotto, fatto veramente bene, nonostante la sua lunghezza – forse qualche sforbiciata non avrebbe fatto male, soprattutto nelle parti degli spiegoni, che tentano di acchiappare il pubblico dei meno fan, riconoscendogli poca capacità di deduzione -, vale la pena vederlo in grande schermo, magari con dei tappi per le orecchie per attutire il suono ormai diventato insopportabilmente alto in tutte le sale cinematografiche.
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