Denti da squalo è quella che gli statunitensi chiamano una storia di "coming of age", da noi "storie di formazione". Sono le storie di solito ambientate "nell'estate che ha cambiato tutto" nella vita del personaggio principale, solitamente un adolescente.
Le estati post scuole dell'obbligo sono probabilmente le ultime totalmente libere nella vita. Poi le diverse scelte possono portare a impegni di ogni tipo: lavorativi, o di studio per esami di riparazione o, più avanti, per esami universitari, e poi per il lavoro (si spera, ormai le cose non sono più così certe in questo mondo precario).
Non fa eccezione Walter (Tiziano Menichelli), il protagonista di Denti da squalo, che in questa estate ha già avuto una tragedia personale: la morte del padre a soli 44 anni per un incidente sul lavoro.
Ma chi era il padre di Walter? Un operaio con un passato misterioso, del quale alcuni indizi portano Walter a una villa immensa, quasi mimetizzata nelle campagne laziali. Lì c'è una piscina nella quale nuota uno squalo. In questa atmosfera surreale il ragazzo fa la conoscenza di un ragazzo più grande, Carlo (Stefano Rosci), che si presenta come il custode della villa. Nascerà un'amicizia, dal comune proposito di cambiare la propria vita, aggregandosi a una banda della zona. I due ragazzi intraprenderanno quindi un percorso non facile, anche doloroso, ma che li porterà a prendere consapevolezza di se stessi.
Denti da squalo, opera prima di Davide Gentile, su soggetto e sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, vincitori del Premio Solinas, ha sicuramente il grande merito di esplorare territori che il cinema italiano ignora. Non che siano mancate storie di formazione, ma è meritevole che il film sfiori i territori del realismo magico, sia pure con quel tocco di leggera ambiguità che lascia spazio a una libera interpretazione da parte dello spettatore.
Una direzione forse meno esplicia di quella intrapresa dal Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot, Freaks Out), qui produttore, ma che ha potenzialità che andrebbero incoraggiate.
Ma contano anche i risultati, non il potenziale. Il problema è che gli elementi della vicenda in Denti da squalo appaiono appiccati, in una sceneggiatura nella quale troppo spesso i pezzi non combaciano in modo chiaro. In narrazione le cose accadono spesso perché devono accadere. Nella vita reale poi si sa che la coerenza è latitante. Ma una sceneggiatura nella quale i passaggi lasciano interdetti fa perdere la sospensione dell'incredulità.
Quando poi le forzature narrative sono contrarie alla biologia, cade ogni sforzo dello spettatore di venire incontro al narratore. Si resta sbigottiti a chiedersi semplicemente: perché?
Lo squalo è un superpredatore nell'ambiente marino, ha un pelle così abrasiva che ha gli stessi usi della carta vetrata. Non è un morbido delfino da accarezzare.
L'aspirazione dei due ragazzi è quella di diventare due predatori anziché soccombere come prede. La realtà è che se rapportiamo la grande capacità predatoria di uno squalo alla capacità distruttiva degli esseri umani, forse lo squalo non appare così terribile, specie se portato fuori dal suo ambiente e ridotto in cattività.
Denti da squalo è quindi la storia di due ragazzi che vorrebbero essere qualcosa che non sono. Alla fine dell'arco narrativo forse non troveranno la strada per sapere cosa saranno nel loro futuro, ma sicuramente capiranno cosa non sono, quale sia la strada da non imboccare.
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