Già teatro delle imprese di Diabolik (Giacomo Gianniotti), la città di Clerville è scossa dalle sanguinose rapine di una spietata banda di rapinatori senza scrupoli, che l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea, l’unico convincente accanto alla statuaria bellezza di Miriam Leone) osa definire anche più spietati del suo più celebre avversario. Sia il rappresentante della legge che la sua nemesi si trovano a condurre indagini parallele sulla banda (naturalmente uno per arrestarli e l’altro per impadronirsi del denaro che hanno rubato) finché, non troppo inaspettatamente, vengono colti di sorpresa e sequestrati insieme. Incatenati in cantina uno di fronte all’altro, in quella che ritengono la loro ultima notte si confidano e Diabolik racconta – in flashback virati in bianco e nero per gli spettatori, ad aumentare il “vorrei ma non posso” che guarda al Sin City di Frank Miller – la storia delle proprie origini, in un’isola abitata da criminali di ogni parte del mondo (naturalmente con interpreti multietnici) che da giovane gli insegnano ciascuno i suoi trucchi.
Nel frattempo, la compagna del criminale Eva Kant (Miriam Leone) e l’amante dell’ispettore la duchessa Altea di Vallenberg (Monica Bellucci, ancora con accento straniero per mascherare le claudicanti doti recitative) si trovano ad agire in coppia per ritrovare e salvare i loro amati, prigionieri nella villa dell’avvocato Manden (Massimiliano Rossi) e già scoperti dal sergente Palmer (Pier Giorgio Bellocchio).
E dopo il Diabolik visto con gli occhi della compagna Eva Kant (nel primo film del 2021), quello visto attraverso lo sguardo dell’avversario poliziotto (nel secondo Ginko all’attacco, del 2022), ecco quindi il Re del Terrore che si racconta mentre è intrappolato insieme al suo avversario di sempre, nell’adattamento del celebre albo n.107 Diabolik chi sei? (1968) in cui le sorelle Angela & Luciana Giussani rivelarono finalmente le origini – nome compreso – del loro (anti)eroe, l’unico personaggio a fumetti del Bel Paese a essere noto in diversi particolari anche a chi non ha mai letto nessuno dei suoi quasi mille episodi.
La chiusura della trilogia dei fratelli Marco e Antonio Manetti, noti come Manetti Bros. scritta con il fido Michelangelo La Neve (e approvata dall’editore Mario Gomboli dopo le più deliranti proposte ricevute nei decenni, tipo alieni e altre bizzarrie), migliora sensibilmente le scelte stilistiche con scenografie, costumi e fotografia che dalla «fredda razionalità ed eleganza che caratterizza gli anni Sessanta» passano «alla follia eccentrica e rivoluzionaria del decennio successivo», per citare i registi.
Basettoni e cappotti dei personaggi maschili e le ormai tradizionali musiche di Pivio & Aldo De Scalzi (senza dubbio l’aspetto migliore dell’intera trilogia) marcano il passaggio con più evidenza, scorrendo dai riferimenti alle partiture di Bernard Hermann e Lalo Schifrin del primo film, nonché delle sonorità care a Osanna, New Trolls e Goblin per il secondo, al funky e il rhythm & blues afroamericano già ispirazione per la serie tv de L'ispettore Coliandro. Per il brano dei titoli di testa, dopo l’oscurità di Manuel Agnelli e l’eleganza di Antonio Diodato, tocca ora ai Calibro 35 in coppia con Alan Sorrenti per i titoli di testa Ti chiami Diabolik e a Francesco Bianconi dei Baustelle con la voce di Mike Patton dei Faith No More per quelli di coda L’odio e l’amore.
La vicenda che alterna narrazione del passato al presente paradossalmente permette al film di godere di maggior continuità rispetto ai due precedenti, anche se l’azione continua a essere raffreddata oppure confusa (non sembra esistere una terza via, e il tutto pare troppo televisivo). Il problema rimangono soprattutto le lungaggini nello sviluppo delle scene, che si affannano a ripetere pedissequamente i ritmi di un fumetto per sua natura senza tempo (dove però le regole interne sono costitutivamente diverse, perché basterebbero un cellulare e un elicottero a far finire le carriera del protagonista dopo poche tavole…), con i dialoghi didascalici e una recitazione a tratti imbarazzante, per non parlare di palesi controsensi (protagonisti che vanno in albergo indossando le celebri maschere ma se le tolgono quando si affacciano alla finestra, macchine che non vogliono farsi notare ma parcheggiano a pochi metri dall’obiettivo e altre amenità…).
In tutto questo, la durata (che come ormai di prammatica per i film-evento supera le due ore) esacerbata dalla lentezza innaturale permette a stento di apprezzare le affettuose comparsate di Barbara Bouchet, Carolina Crescentini e Max Gazzè, ma anche di Paolo Calabresi (il suo King dovrebbe incutere soggezione ma fa sempre un po’ pensare al Biascica di Boris…) e il promettente Lorenzo Zurzolo (nella parte del Diabolik ventenne sull’isola di King).
Come prevedibile, il finale resta aperto… quindi chissà? Ai posteri l’ardua sentenza!
Il film, presentato il prossimo 26 ottobre alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Gran Public e nelle sale dal 30 novembre, si conclude con la dedica “a Carlo”, in ricordo del produttore Macchitella, fondatore delle case Madeleine e Mompracem dopo aver amministrato Cinecittà, Isituto Luce e Rai Cinema, scomparso improvvisamente lo scorso 9 marzo a 71 anni.
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