Un'oasi di pace nella campagna polacca. Una famiglia felice, che si gode il piacere di una gita all'aperto, che abita in una bella casa. La perfetta rappresentazione di un'utopia. Non fosse che basta alzare lo sguardo, o prestare attenzione a rumori e voci di sottofondo, per notare come l'utopia sia fondata sulla morte e la sofferenza.
La Zona d’interesse (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer, ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, racconta di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, burocrate che ha reso il campo di sterminio un modello per tutti gli altri campi nazisti durante il governo di Adolf Hitler, attuando con fredda determinazione la "soluzione finale".
Glazer si mantiene distaccato dalla famiglia Höss. La camera è fissa, raramente i soggetti sono inquadrati in campi ravvicinati. C'è sempre "aria" intorno a loro, uno spazio fisico che si contrappone a quello spazio mentale che i protagonisti della vicenda hanno chiuso, ignorando volutamente quanto accade a pochi metri da loro.
O forse ignorando no. Perché se molti esecutori del piano di sterminio si sono detti meri esecutori degli ordini, come lo stesso Höss, osservando con attenzione il loro operato non si può non notare il compiacimento, il lucro, il senso di rivalsa nei confronti di vittime che fino a poco prima guardavano dal basso verso l'alto, invidiosi del loro status sociale.
Sono emblematici in tal senso alcuni passaggi: la signora Höss, tragicamente chiamata la regina di Auschwitz, che si bea di una "nuova" pelliccia; sua madre che, in visita, si rammarica di non essere riuscita ad accaparsi i beni di una signora ebrea che probabilmente ha trovato la morte nel campo.
Il lavoro sul sonoro di Tarn Willers e Johnnie Burn è l'altro elemento su cui si posa la narrazione del film. Il rombo di sottofondo dei forni crematori, urla, gemiti, spari, un sottofondo continuo che racconta il dramma più di quanto mostri la superficie.
Il cast, per bravura, fa ancora più paura. I protagonisti non sembrano recitare, con straordinario senso della misura, come se per qualche magia le riprese siano state effettuate nel tempo in cui gli eventi si sono verificati, e che in fondo il film sia un documentario.
Come già in Under The Skin, Glazer non vuole lasciarci indifferenti, con un racconto che non perde quasi mai il suo respiro, anche se presenta talvolta delle ridondanze. Il racconto però stacca al momento giusto, lasciando allo spettatore la riflessione. La parte della storia non vista emerge nel finale, lasciando a noi l'onere di documentarci invece sulla parte vista, per fare esercizio di memoria, per non dimenticare.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID