Cecilia ha avuto un incidente quasi mortale quand’era piccola e da allora prova a capire perché Dio l’ha salvata. Crede di aver trovato la risposta dopo essersi trasferita in un isolato convento in Italia, dove un gruppo di novizie si prende cura di vecchie suore malate. Se in un primo tempo le cose si fanno un po’ difficili a causa della distanza da casa e della lingua che non capisce, riesce però a trovare conforto nelle parole di padre Tedeschi che l’ha chiamata nel convento e a fare amicizia con Guendalina, come lei una giovane novizia da poco arrivata nel convento, con una storia difficile alle spalle. Nonostante strani incubi che la tormentano Cecilia riesce ad ambientarsi ma inizia a sentirsi male. Sottoposta ad alcune analisi fatte dal medico interno al monastero ciò che scoprirà appare a dir poco miracoloso.
Immaculate inizia con una scena che nei primi due minuti è capace di superare la maggior parte degli horror mainstream degli ultimi anni, con i titoli di testa che scorrono su uno schermo buio tra le urla di una giovane suora sepolta viva. Non è entrata in scena ancora neanche Sydney Sweeney che Michael Mohan, alla sua prima regia, mette le cose in chiaro con una dichiarazione d’intenti ben precisa: la storia sarà anche delle più abusate ma la messa in scena avrà una marcia in più. Non c’è nulla di particolarmente originale nel prendere una bella e giovane ragazza, metterla in un posto isolato dove cattive persone, e le suore al cinema sono sempre piuttosto inquietanti, le faranno del male.
Senza svelare troppo anche se la spiegazione del mistero viene data abbastanza presto nel film, la trama di Immaculate non è molto più originale di Omen – L'origine del presagio, con il quale condivide diversi elementi. Ma se Arkasha Stevenson racconta una storia pigra con una messa in scena altrettanto insipida Mohan prende tutt’altra strada. Prima di tutto l’utilizzo del gore sempre centellinato nell’horror da incasso viene usato da lui con intelligenza, diventando da principio disturbante per arrivare a picchi, come nel finale, non troppo espliciti ma difficili da tollerare per un pubblico generalista. Anche le scene al buio pur utilizzando l’anacronistico uso della candela (l’epoca di ambientazione è poco chiara), sono gestite con un rigore calibrato per creare suspence non facili jumpscare, con un estetica da horror anni ’70. Altrettanto centrale è poi il lavoro di Sydney Sweeney bella, eterea e allo stesso tempo carnale, credibile sia nei panni della timida novizia che in quelli della scream queen cazzutissima e imbrattata di sangue.
Immaculate dice anche qualcosa di non banale sulla maternità, con un messaggio non esattamente semplice da veicolare, ossia che non è per forza la cosa più bella del mondo, specie se non la si vuole. Dice anche qualcosina sulla violenza di un sistema patriarcale il cui diktat è la sottomissione, dove molte donne vengono manipolate da pochi uomini e nel quale le stesse diventano carnefici di quelle che hanno il coraggio di opporsi. Cecilia, scelta per la sua debolezza non solo si ribella con violenza alla schiavitù ma nella sequenza finale, simile a quella di The Descent senza il risveglio, emerge dalla terra rinata e libera di sottrarsi e di eliminare senza sensi di colpa o richiami cattolici al sacrificio, l’abominio che le hanno imposto.
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