Nello spazio nessuno può sentirti urlare
, per citare la tagline forse più famosa di sempre (ideata dalla copywriter Barbara Solinger mentre il marito grafico Philip Gips pensava alla locandina del primissimo Alien…), ma nei cinema sì.
Dopo il sequel-reboot La casa (2013), il personale Man in the Dark (2016) e il sequel Millennium – Quello che non uccide (2018), con Alien: Romulus il regista uruguaiano Fede Álvarez si è gettato nel tentativo letteralmente da brividi di rivitalizzare il franchise dell’Alieno per antonomasia, in forte debito d’ossigeno dopo che il suo demiurgo Ridley Scott ne ha ripreso le redini – anziché lasciar girare a Neill Blomkamp il suo progetto Alien 5 con Sigourney Weaver, che aveva dato la sua disponibilità – arenandosi in una trilogia prequel che ancora deve concludersi ma in compenso ha fatto disamorare molti dalla saga.
Un “ritorno alle origini” dei primi due film (gli unici davvero convincenti) è stata fin dall’inizio la missione creativa della produzione, passata in casa Disney dopo l’acquisizione della 21st Century Fox nel 2019. E così risulta anche plasticamente, in un film di due ore che nella prima adotta l’atmosfera lenta e spaventosa del capostipite e nella seconda stile e ritmo del sequel (e naturalmente pensato per essere facilmente fruibile anche a chi non ha visto nessun film precedente, con già pronto un breve prequel a fumetti prodotto ad hoc dalla Marvel).
20 anni dopo gli eventi del primigenio Alien (1979), quindi 37 prima del sequel Aliens – Scontro finale (1986), ecco — sempre con Ridley Scott e Walter Hill alla produzione — gli avversari più giovani mai incontrati dagli xenomorfi, operai di una colonia mineraria che con la loro nave Corbelan tentano l’impresa di depredare una stazione spaziale abbandonata e riuscire a lasciare il pianeta su cui lavorano (sempre al buio anche all’aperto), in barba ai continui rinvii delle ore di lavoro in cui la cattiva Compagnia li mantiene come schiavi.
Attraccato alla derelitta Renaissance (stazione divisa nei due moduli Romulus e Remus, con tanto di disegno dei due cuccioli della lupa romana), il gruppo di amici e fratelli — alcuni anche letteralmente, a richiamare uno dei temi del film — avrà quindi a che fare con la specie più letale dell’universo, che lo spettatore ben conosce e la primissima scena collega esplicitamente alla nave Nostromo del film da cui tutto è nato. Per innestarsi il più possibile efficacemente nella saga e far riaffezionare i vecchi fan, la vicenda lascia accuratamente sullo sfondo ogni tematica filosofica (seppur in teoria labilmente presenti) per concentrasi sulla pura azione. Il risultato è forse stiracchiato e non sempre bilanciato nel ritmo, ma tutto sommato non disprezzabile. Perfino le musiche di Benjamin Wallfisch (d’impatto e non troppo didascaliche) non riescono a far a meno di citare per pochi secondi i temi dei primi due film.
Per la gioia dei fan, segnaliamo inoltre che alcune ambientazioni possono ricordare il pianeta prigione di Alien3 (1992), un paio di circostanze sono chiari richiami ad Alien – La clonazione (1997) e un personaggio dalla fisionomia ben nota agli appassionati cita esplicitamente «il Progetto Prometeo che Peter Weyland non riuscì a completare» nei due prequel Prometheus (2012) e Alien: Covenant (2017), a loro volta ambientati poco dopo l’ormai prossima serie tv Aliens: Earth girata in Thailandia negli scorsi mesi e in uscita su Disney+ nel 2025.
Se gli incassi premieranno lo sforzo di questo Alien: Romulus, è ragionevole pensare che Scott potrà “chiudere il cerchio” girando il terzo prequel con il ritorno dell’androide David. E naturalmente, altri xenomorfi a volontà: è proprio il caso di dire che chi vivrà,vedrà…
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