Sinossi

Sicilia dei primi 2000.

Catello Palumbo (Toni Servillo), politico condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, torna in paese una volta conclusasi la sua condanna di sei anni, trascorsi nel carcere di Cuneo. 

La moglie Elvira (Betty Pedrazzi) si è trasferita in un appartamento più piccolo e non si alza neanche dal divano per salutarlo. I soldi sono finiti e ci sono ancora troppi guai legali in sospeso. 

L’adorata figlia, che non gli ha mai scritto una lettera per tutto il tempo, è incinta di Pino (Giuseppe Tantillo), il ragazzotto poco sveglio che faceva da bidello nella scuola in cui un tempo Catello era preside.

Ex detenuto, ex sindaco ed ex preside, futuro probabile ex marito, Catello si sente destinato a una vita da recluso in casa, nonno controvoglia, ininfluente e invisibile: “ex di tutto”.

Pure orfano dell’amicizia del potente don Gaetano (Rosario Palazzolo), di cui si appresta ad andare al funerale, ritrovato di recente morto per malattia, dopo un periodo di latitanza.

Il Boss aveva scelto personalmente Catello come padrino del suo terzo genito Matteo (Elio Germano): ora lui il nuovo boss, nonché il latinate più ricercato di sempre. Questa relazione particolare, pur se “pericolosa”, forse potrebbe anche risolvere tutti i problemi di “visibilità” del preside. Magari anche farlo tornare sindaco. Magari aiutarlo ad appianare i suoi problemi economici, “risolvendo” le beghe burocratiche di un grande appalto in sospeso.  Matteo, costretto a essere “invisibile per scelta”, vive ancora nelle vicinanze.

Iddu
Iddu

È nascosto in una casa sicura e assistito da Lucia (Barbara Bobulova), una donna che gli fa da cuoca, governante e segretaria. È lei a dettare a macchina tutte le lettere con cui il boss gestisce ancora il governo del territorio.  Ogni tanto, quando guarda il sole dal suo terrazzo isolato, da dietro gli occhiali da sole a goccia che perennemente indossa, Matteo si sente solo e chiuso in gabbia, come il canarino giallo di Lucia vicino al suo angolo di lettura.

Non vuole finire come suo padre: morire su un letto di emergenza improvvisato attaccato a una flebo, in una baracca tra i prati, circondato dalle capre.

Arriva il giorno del funerale e Matteo ripensa a quando Gaetano da piccolo lo aveva portato in una simile baracca isolata tra i campi, per poi sceglierlo tra i suoi fratelli: il prediletto che avrebbe sgozzato il capretto per Pasqua. Lui aveva eseguito l’ordine con fermezza e senza emozioni, “come andava fatto”. Il padre aveva apprezzato e lo aveva designato suo successore, affidandogli una statuina antica e pregiata, un putto, tenuto nascosto in un pozzo. 

Anche Matteo, ora privato della guida e del consiglio del padre, avrebbe presto dovuto pensare a passare quel putto a un successore, continuare la tradizione. 

Ma inaspettatamente, con gioia, il boss riceva una lettera dal suo padrino, il preside Catello. Lo conforta con parole di rispetto e amicizia, Si offre di mettersi a sua disposizione per consigliarlo e aiutarlo, se lui vuole.

Iddu
Iddu

È lì per lui, nel segno di “quel faro nella notte” che era don Gaetano per tutti.

Matteo detta una nuova lettera a Lucia, sfoggiando nel lessico tutta la abilità stilistica maturata negli anni di isolamento, grazie alla lettura dei romanzi classici. Con solennità vengono poste le basi per una corrispondenza segreta e riservata. Il preside si rivolgerà a lui nelle future missive con il nome di Emmanuele, che significa: “Dio è con noi”. Matteo lo chiamerà nelle missive col nome di Salustio, come l’amico e consigliere dell’imperatore romano Giuliano.

Forse per entrambi è l’inizio di una “ripresa”, dopo tanto sconforto.

La lettera di Catello, arrivata al boss attraverso una complessa catena di relazioni, cambi di mano e pesce surgelato, non è però stato un atto spontaneo.

Al termine del funerale di Gaetano, il preside è stato caricato su un’auto da uomini dei servizi segreti, come il lunare Emilio Schiavon (Fausto Russo Alesi) e la collerica Rita Mancuso (Daniela Marra). 

I servizi gli hanno offerto una “collaborazione spontanea” nella cattura del boss. In alternativa la prosecuzione di certi atti rimasti in sospeso. 

Rita Mancuso prende di petto la caccia, sfrutta il preside e le sue conoscenze come ariete, arriva alla sorella di Matteo, Stefania (Antonia Truppo), che è sempre più in disaccordo con la catena di comando.

Matteo, che per Catello, “come Amleto”, sta ancora rincorrendo il fantasma del padre: è malinconico e forse distratto, vulnerabile. Così  vulnerabile che forse qualcuno di inaspettato potrebbe cercare di approfittarsene.

Ma qualcuno di inaspettato potrebbe anche voler cercare di difenderlo, in difesa di uno “status quo” che deve essere preservato, perché fa comodo a troppi.

Una nuova storia di Grassadonia e Piazza sulle “realtà non-visibili” della Sicilia

Dei giovanissimi Fabrizio Grassadonia e Antonio Piazza si conobbero alla scuola Holden di Torino, negli anni novanta.  Da lì la collaborazione è continuata fino al 2010, anno in cui realizzarono insieme il cortometraggio sperimentale Rita: un’opera tutta girata dalla prospettiva di una ragazza siciliana non vedente, con la telecamera fissa unicamente sul volto espressivo dell’attrice protagonista, Marta Palermo, con il resto del “suo mondo” che rimaneva definito dai suoni e dalla immaginazione degli spettatori.  Dopo i quaranta premi internazionali ricevuti per Rita, nel 2013 questo stesso personaggio “ritornava”, seppur da co-protagonista, reimmaginato e interpretato questa volta da Sara Serraiocco. I due registi la facevano rivivere nel loro primo lungometraggio, Salvo: un’altra storia sulla Sicilia, ambientata questa volta nel mondo della malavita organizzata. La “nuova Rita”, ancora non vedente, per una specie di miracolo tornava vedente dopo l’incontro rocambolesco con la canna della pistola di un killer della mafia intenzionata a ucciderla.

Salvo era  film sui gangster che diventava qualcosa di nuovo, quasi magico. Anche “Salvo” ricevette molti riconoscimenti, tra cui a Cannes entrambi i premi della settimana della critica.

Fabrizio Grassadonia e Antonio Piazza
Fabrizio Grassadonia e Antonio Piazza

Aprì invece proprio Cannes 2016, primo film italiano con questo onore, il secondo film di Grassadonia e Piazza, Sicilian Ghost Story. La sceneggiatura, selezionata anche per il Sundance Jannuary Screenwriters Lab, aveva ancora per protagonista la Sicilia e un tema “magico”: riuscire a scorgere la presenza delle persone, in fondo come fanno le protagoniste non vedenti dei precedenti lavori: “seguendo la loro eco”.

Questa volta la storia era liberamente tratta dal racconto Il cavaliere bianco di Marco Mancassola e immersa in un’atmosfera da favola amara. Tra le casette ai margini di un grande bosco una ragazzina innamorata combatteva con l’omertà del piccolo paesino in cui viveva, cercando di ritrovare un suo coetaneo che dal giorno alla notte sembrava scomparso nel nulla.

Scomparso come fosse diventato di colpo, pur “controvoglia”, un fantasma.

Con Iddu, Grassadonia e Piazza tornano a parlarci di Sicilia e fantasmi, anche se questa volta si tratta di celebri “fantasmi per scelta”. Fantasmi invisibili ma potenti, che qualcuno paragona quasi a divinità. Fantasmi con cui avrà a che fare, ancora una volta, un personaggio che Grassadonia e Piazza chiamano Rita, qui interpretato dalla brava Daniela Marra.

Questa volta però alcune suggestioni “magiche” del racconto arrivano anche dalla filosofia greca: direttamente dal mito della Caverna di Platone. 

Un film che affronta la realtà, giocando con il registro grottesco e le maschere della commedia e della tragedia umana

Alla realizzazione della sceneggiatura, per gli autori “da non intendersi come una biografia cinematografica”, Grassadonia e Piazza hanno lavorato per anni.

Da  molto prima della cattura del boss, al punto che un primo titolo di lavorazione era Il latitante

Hanno consultato articoli, indagini e atti dei vari processi collegati, fino a imbattersi, quasi a sorpresa, nei particolari e sorprendenti scambi epistolari tra il boss e l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino, riportati in un saggio del 2008,  Lettere a Svetonio, curato da Salvatore Mugno.  Proprio in onore di quel libro e degli spunti che offriva, il film doveva a un certo punto di lavorazione chiamarsi Lettere a Catello

Le lettere, scritte dal 2003 al 2006, oltre a portare alla luce molti dettagli sulle attività criminose, offrivano testimonianza anche del temperamento umano e della malinconia del boss. Parlavano della fascinazione per le letture classiche. Raccontavano la figura paterna e il suo ruolo di guida, con tratti quasi religiosi. In brevi stralci offrivano punti di auto-analisi e auto-critica, con il sapore di un diario personale.

Erano pagine di invettive e proclami, spesso terribili quanto sarcastiche, a volte ritenute “egocentriche”, ma accompagnate a pagine che ricercano complicità, evidenziando un bisogno di ascolto forse generato dalla troppa solitudine, in virtù del qualeil boss si intrattieneva, a raccontarsi in mille dettagli, anche esistenziali. A volte dipingendosi come vittima e a volte come carnefice della società. Spaziando nei temi dall’ambito privato alla “gestione di questioni lavorative”. Coinvolgendo nomi importanti per le inchieste, quanto citando contestualmente l’arte e la letteratura, pittori, filosofi e scrittori dei libri che stava sfogliando in latitanza.  In questi scambi, accesi quanto riflessivi, che partivano su un tema per poi evolversi in tutt’altro, per Grassadonia e Piazza emergeva materiale interessante da poter essere evidenziato, riletto e re-interpretato, sotto il segno della grande commedia italiana, giocando nello specifico con il registro grottesco.

Senza per questo togliere o glissare sui tratti “realmente crudeli”, che caratterizzavano e dovevano continuare a descrivere le persone coinvolte in queste vicende, poteva emergere dal “contesto relazionale” una “normalità distorta”, così incedibile da essere tragicomica.

Iddu
Iddu

Dalle interviste, per Toni Servillo la cifra grottesca della sceneggiatura risiedeva proprio in questo: la capacità di” far emergere con vigore, proprio in forza del ridicolo del contesto, il lato tragico della vicenda”.

Tragico e al contempo ridicolo diventa quindi l’intero mondo di disperazione umana che ci viene raccontato, non solo dagli occhi del boss, ma attraverso tutti i personaggi della storia, in primis dal politico, senza dimenticare i poliziotti.

Tutti personaggi dipinti come “assediati dalla disperazione”, impotenti o asserviti nei confronti di “chi ha (momentaneamente) più potere”, che cercano di stare a galla in un mondo che sta cambiando, pur accontentandosi di rivestire il ruolo di “piccoli virus” all’interno di un corpo sociale malato.  Gli attori erano quindi chiamati a vestire i panni di uomini che vivevano nel paradosso.  La sfida di Tony Servillo, soprattutto per il ruolo del suo politico, è stata preservare la “tridimensionalità umana”, fatta di lati oscuri più o meno visibili, di personaggi che anche solo visivamente potevano scivolare troppo nel caricaturale.

Il suo Catello appare buffo e tronfio, ma solo in superficie.  La sfida di Elio Germano è stata dapprima quella di immedesimarsi al meglio nei “panni da recluso di Iddu”: calandosi per alcuni mesi nei luoghi dove erano state scritte quelle lettere. Comprendere tanto il senso di isolamento che le particolari sfumature sonore di quei luoghi. Ascoltare la musicalità del dialetto trapanese, ovattato da dietro mura e finte pareti. Il “salto paradossale” che si è poi trovato a compiere Germano, per “capire al meglio il personaggio”, è stato cercare di immaginarlo nel suo “accettarsi” come una “persona comune”. Un politico o imprenditore con le proprie debolezze e interessi privati, che per ambizione personale o del proprio “gruppo” ha cercato di emergere. Un “politico trasversale”, riconosciuto e sostento da una collettività dove il senso dello Stato e della giustizia erano mutati, che è anche un figlio diventato orfano di padre, un amante della lettura e dei puzzle, un criminale.

Aspetti umani che Germano doveva far emergere oltre un costante muro emotivo autoimposto dal trucco e postura del personaggio: un uomo dai movimenti rigidi e dalle poche emozioni; perennemente nascoste sotto spessi occhiali da sole scuri.

Tra realtà e racconto, a fine visione

Iddu sembra ispirarsi per molti aspetti a opere complesse come Il sindaco del rione Sanità di De Filippo, come al film con protagonista Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza. “L’anormalità diventa normalità”, per tutti i personaggi sulla scena, sotto l’influenza di un contesto sociale che inizia a ragionare secondo regole distorte di convenienza. I personaggi si adattato all’anomalia, al grottesco, diventando umanamente buffi e tragici allo stesso tempo.

Nel teatro di De Filippo un boss diventa un giudice la cui autorità e senso di equità sono riconosciuti e accettati a tutti gli effetti più che in un tribunale. Anche il mercante d’armi impersonato da Sordi è accettato dai figli convinti pacifisti, sebbene ignorato in pubblico, perché porta a loro ricchezza e benessere.  Il registro tragico riesce particolarmente a Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che con Iddu si sentono liberi di indugiare in parallelismi con i fantasmi di Shakespeare, aprire a suggestioni platoniche sul timore e reverenza che suscita il potere in quanto tale con contorni quasi manzoniani. I due registi sanno da queste premesse creare scene anche drammatiche potenti, dal grande impatto visivo ed emotivo, giocando su spazi e dialoghi dal forte sapore teatrale.

Iddu
Iddu

La “vena ironica in potenziale”, se vogliamo “l’altra maschera dietro al grottesco” è pur presente in Iddu, anche se per scelta dei registi più contratta. 

Parlando in senso molto stretto di “maschere”, riesce a costruire molto, per la definizione di un registro “buffo”, il trucco di scena scelto per i personaggi. 

Servillo con parrucchino e che nella prima scena sfoggia sulla giacca una cacca di piccione, visivamente non è lontanissimo dai ruoli compassati ma brillanti che “con simili vesti” Buccirosso svolge delle commedie di Salemme. Germano che si muove con gli occhiali da sole, pallidissimo, sembra a tratti, più che un nobile decaduto, quasi un epigono di Dracula. Quando il suo personaggio si scusa, in quanto “manchevole di ironia”, risulta per paradosso molto ironico. 

Le maschere funzionano.

Ogni tanto il film sfoggia anche momenti finemente tragicomici, come tutta la sequenza iniziale e la scena della “finestra abusiva”, ma il senso generale dell’opera è sull’accettare, senza sottolineare troppo, il fatto che i personaggi possano apparirci non solo ma “anche” buffi: nella misura in cui tutti gli esseri umani, anche i peggiori, possono a tratti esserlo.

Ciò non toglie che Iddu risulti infine un film amarissimo, che ci parla della impotenza delle istituzioni, anche ponendo dubbi sulla “volontà effettiva” di fermare la mafia. Una mafia ineliminabile oppure, per il paradosso e senso del grottesco presentato nell’opera, utile “nonostante tutto”, in quanto sostituta (dis)funzionante dello Stato, tacitamente accettata.  Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci invitato a ragionare su queste meccaniche perverse, con molto senso del dramma e qualche punta di ironia, anche per fare in modo che con il tempo si arrivi a un diverso modo di pensare. 

Finale

Il film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci ha convinto per la buona prova degli attori, per un testo dal sapore teatrale latore di una la forte critica nei confronti delle istituzioni. Funzionali le scenografie e la fotografia, a tratti minimali ma in grado di giocare con intelligenza sull’ambivalenza degli spazi di luce e di ombra. Adeguato il comparto sonoro.