In occasione di Lucca Comics & Games 2024, Roberto Arduini, giornalista, saggista, traduttore e uno dei massimi esperti italiani di J.R.R.Tolkien, e Paolo Narni hanno presentato il panel La guerra degli Anelli: Tolkien tra la serie tv e i film al cinema, un interessante excursus sulla serie-tv di Amazon Prime Video Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere e le future produzioni targate Warner Bros.

Si è iniziato con un lungo, ma necessario, preambolo riguardante la storia dei diritti, in particolare per lo sfruttamento audio-video, delle opere di Tolkien. Tutto ha inizio negli anni ‘60: Tolkien è da poco diventato veramente famoso. Il suo Il Signore degli Anelli ha letteralmente spopolato negli Stati Uniti, vendendo milioni di copie in pochissimo tempo e sconvolgendo la sua vita. Se fino a poco tempo prima era solo l’autore di un libro per ragazzi, Lo Hobbit, dal buon successo nel Regno Unito, nell’arco di pochissimo tempo il professore inizia a ricevere telefonate nel cuore della notte (in barba al fuso orario) e visite a ogni ora da parte di gente che vuole parlare de Il Signore degli Anelli… e perfino a trovarsi persone che si intrufolano in casa sua per vedere dove vive. Tolkien non è pronto a quel tipo di successo e alla valanga di soldi che inizia ad arrivare. A causa della stringente politica tributaria del Regno Unito in quegli anni, e complice la malattia della moglie, il professore teme che, in caso di sua improvvisa dipartita, ai suoi figli vada poco e nulla del patrimonio che stava mettendo da parte. Decide, così, di iniziare le procedure per la vendita dei diritti per gli adattamente radiotelevisivi e cinematografici de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit. Le contrattazioni durano dal ‘67 al ‘69, quando finalmente i diritti vengono venduti.

Alla morte di Tolkien, nel 1973, inoltre, viene fondata dagli eredi la Tolkien Estate, destinata a gestire e amministrare i diritti di tutte le altre opere del professore: dal Silmarillion ai Racconti Perduti e Racconti Ritrovati.

Nel corso degli anni, i diritti de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit passano di mano in mano tra diversi proprietari (United Artists, Miramax, MGM, John Boorman, etc. fino alla Tolkien Enterprises, nata proprio per gestire questi diritti nel 1976-77), ciascuno che cerca di farci qualcosa, ma, per motivi diversi, senza ricavare nulla dalle opere di Tolkien. Ben presto, inizia a diffondersi la convinzione che non sia possibile ricavare un film o un qualsiasi altro tipo di adattamento da Il Signore degli Anelli.

Ralph Bakshi, invece, contrariamente a ogni previsione, sembra riuscirci. Realizza un film che riassume la prima metà del libro di Tolkien. Lo fa in maniera assolutamente originale, per certi versi post-moderna. Ma la casa di produzione non crede nel tentativo, tanto da decidere di non realizzare la seconda parte ancora prima di vedere i risultati al botteghino, che sono, invece, assolutamente degni di considerazione (oltre 30 milioni incassati, a fronte di un budget di soli 4). Il film viene, quindi, etichettato come un flop e la fama de Il Signore degli Anelli di opera inadattabile continua e si accresce.

Paradossalmente non è a causa di un insuccesso, ma, al contrario, di un successo, che i diritti di sfruttamento delle opere di Tolkien finiscono al centro di una disputa legale. Quando erano stati discussi e ceduti, infatti, lo si era fatto sulla base delle tecnologie e dei prodotti disponibili nel 1969. All’inizio degli anni ’80 iniziano a diffondersi i librogame e il loro successo è clamoroso. Non ci vuole molto perché a qualcuno venga l’idea di adattare Il Signore degli Anelli in forma di librogame, per permettere ai lettori di fare le loro scelte nello sviluppo delle vicende.

Si tratta della più classica delle gocce che fanno traboccare il vaso: la George Allen & Unwin (che aveva in licenza la pubblicazione dei libri di Tolkien), nel 1988-89 fa causa alla Tolkien Enterprises e alla ICE, la casa editrice dei librogame, sulla base del fatto che un librogame è troppo simile a un libro. E vince. Bloccando così la pubblicazione dei volumetti con il quarto volume. Si troverà poi un accordo e la pubblicazione riprenderà con un altro editore per arrestarsi definitivamente con l’ottavo, di 12 previsti (anche se voci sostengono che, da qualche parte, il nono librogame esista ancora).

Tutto cambia con l’entrata in scena di Peter Jackson. Non solo egli impiega ben 7 anni (tra trovare i fondi, lavorare alla sceneggiatura e a tutta la fase di pre-produzione) per realizzare il suo progetto di adattare Il Signore degli Anelli, ma lo fa come non lo aveva mai fatto nessuno: innanzitutto spezzandolo in 3 film, con i primi due che non hanno neanche una parvenza di finale, ma sono lasciati completamente appesi, ma anche girandoli praticamente in contemporanea, per 15 mesi consecutivi nella sperduta Nuova Zelanda, con scenografie reali e non solo di computer grafica su schermo verde. Si assume, insomma, un rischio enorme. Che però paga sotto tutti i punti di vista: i tre film sono un successo stratosferico di pubblico e di critica, con incassi record non solo la prima volta che vengono proiettati al cinema, ma anche tutte le volte successive (a cui contribuisce indiscutibilmente anche l’idea, geniale, di realizzare fin da subito una versione cinematografica e una versione estesa che accontenti ancora di più i fan) e un numero impressionante di premi, tra cui ben 17 Oscar in totale (4 al primo, 2 al secondo e 11 al terzo).

L’esempio di Jackson verrà poi ripreso da molti altri franchise nel periodo immediatamente successivo, pensiamo solo al secondo e al terzo film dei Pirati dei Caraibi o di Matrix. La trilogia ebbe il potere di sdoganare il fantasy come genere, rendendo Tolkien mainstream, e creando un modello e dei canoni nelle scene di guerra e di massa, riprese per esempio ne Il Trono di Spade.

Nonostante il successo della trilogia de Il Signore degli Anelli, i diritti di adattamento delle opere di Tolkien, sempre gestiti dalla Tolkien Enterprises, cambiano proprietario più volte e sono al centro di cause milionarie. Tanto che ci vogliono 10 anni, e il ritorno di Peter Jackson (Guglielmo del Toro aveva iniziato il progetto, per poi lasciarlo), perché venga realizzato anche un adattamento de Lo Hobbit.

L’uscita della nuova trilogia, però, non risolve i problemi nella gestione dei diritti tra tante realtà e interessi diversi, anzi, forse li peggiora. Ci vogliono diversi altri anni, infatti, perché tutte le realtà che sono, in qualche modo, legate non solo ai diritti de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit, ma agli scritti di Tolkien in generale (Tolkien Enterprises, Tolkien Estate, Tolkien Trust, NewLine, Warner, ma anche Harper Collins, tra gli altri…), riescano a mettersi d’accordo per cederne una parte ad Amazon Prime Video per la realizzazione di una serie-tv, nel 2017. Alla fine l’accordo riguarda solo le appendici de Il Signore degli Anelli e null’altro, con tanto di assoluto divieto anche solo ad accennare a personaggi, situazioni o eventi non esplicitamente descritti e raccontati in quelle pagine.

La compagnia di Jeff Bezos, quindi, annuncia che la serie sarà basata sul periodo storico della Terra di Mezzo conosciuto come Seconda Era. Il periodo storico di cui si sa di meno.

Al riguardo è da poco uscito un libro curato da Brian Sibley intitolato The Fall of Numenor che ricostruisce tutto quello che si sa su questa era e contiene tutti i pochissimi riferimenti scritti di suo pugno da Tolkien. Il libro uscirà presumibilmente in italiano per Bombiani. Nonostante il grande lavoro fatto da Sibley andando a cercare in ogni riga dell’immensa produzione di Tolkien, con l’aggiunta dei suoi personali contributi per riempire i vuoti, il volume risulta comunque relativamente scarno.

Quella di Amazon Prime Video è una scelta da una parte coraggiosa, dall’altra apparentemente sensata: dal momento che è il periodo storico di cui si sa di meno, c’è meno materiale a cui attingere per le storie, ma c’è anche molta più libertà di azione per inventare situazioni e personaggi. E libertà è esattamente quello che vogliono gli sceneggiatori che, fin dai primi giorni successivi all’annuncio, si lasciano andare a dichiarazioni che fanno storcere il naso a più di un fan come: aggiorneremo Tolkien e lo porteremo nel XXI secolo!.

Chiuso il doveroso preambolo, quindi, è tempo di analizzare l’opera realizzata.

Secondo gli ospiti, è evidente l’intenzione di realizzare, con Gli Anelli del Potere, un racconto delle origini. Si tratta, a loro avviso, di una scelta facile, perché permette di rimettere in scena molti dei personaggi che si rivedranno ne Lo Hobbit e in Il Signore degli Anelli, o i loro presunti antenati. Personaggi che il pubblico già conosce (o crede di conoscere) e con i quali è più facile che possa legare fin da subito. Inoltre permette di mostrare gli eventi che porteranno a ciò che si è già visto, andando quindi a stuzzicare la curiosità di coloro che si sono appassionati alle opere cinematografiche, ma non conoscono approfonditamente la produzione letteraria di Tolkien. Al contempo, però, si tratta di una operazione che rischia di risultare banale e piuttosto sterile: se si sa già come andrà a finire, chi deve sopravvivere per forza e chi no, decade buona parte del pathos e della tensione narrativa attorno ai personaggi principali, così come molte scene sono depotenziate del loro effetto sorpresa.

Assieme a questi difetti strutturali, ve ne sono altri che emergono guardandola e uno in particolare: non è scritta/realizzata da dei fan.

Mancherebbe, infatti, quella “passione da nerd” che aveva contraddistinto, invece, il lavoro di Jackson. Quel desiderio di essere minuzioso nelle ricostruzioni di ambienti, vestiti, creature, armi e personaggi. Quella puntigliosità, quasi maniacale, di controllare ogni dettaglio della messa scena e, soprattutto, dell’aderenza allo spirito di Tolkien (più che agli scritti veri e propri).

Oltre a questo, Arduini e Nardi pongono una domanda: A chi si rivolge questa serie? Qual è il target? e si danno una risposta che, però, solleva ancora più dubbi. Secondo loro, infatti, il pubblico di riferimento non è, o quantomeno non riesce ad essere, né quello degli appassionati, né quello più generalista. Questo perché, semplicemente, non dà né agli uni né agli altri ciò che vogliono. Non dà agli appassionati l’aderenza al canone tolkeniano e, al contempo, non offre al pubblico generalista quello che si aspetta: quella passione e quell’epicità a cui si erano abituati con le trasposizioni cinematografiche di Jackson. Con la prima stagione si era tentato un approccio maggiormente rivolto al grande pubblico, cambiando anche alcuni personaggi (Galadriel in primis) e inserendo trame e sottotrame legate a determinate tematiche, al fine di dare agli spettatori quello che gli showrunner credevano volessero. Una direzione che non ha pagato quanto si aspettavano. Con la seconda stagione, quindi, ecco un cambio di direzione: più attenzione agli appassionati e il tentativo di agganciare il grande pubblico (o quantomeno quello degli appassionati di fantastico) con una pletora pressoché infinita di citazioni incrociate. Dai film de Il Signore degli Anelli (in una citazione al contrario, dato che questi eventi si svolgerebbero prima) a Harry Potter, da Matrix fino a Star Wars. Riferimenti che, di volta in volta, appaiono inseriti dentro a forza, quando non fatti in modo banale, col risultato di non ottenere quell’effetto “strizzata d’occhio” al fan che coglie la citazione, ma di rompere il ritmo della narrazione e la sospensione d’incredulità.

In questo mare magnum di cose che non funzionano, per fortuna ce ne sono anche che funzionano: alcuni attori sono molto bravi (uno su tutti Joseph Mawle che interpretava Adar nella prima stagione, e forse non è un caso che se ne sia andato), la colonna sonora (che a tratti rivaleggia con quella di Howard Shore), così come alcune idee che, pur alterando il materiale originale, però rispettano le idee di Tolkien.

A discapito di quello che possono pensare in generale i fan, Arduini e Narni concordano che, alla fine, ha avuto ragione Amazon Prime Video: i numeri sono dalla loro parte. La seconda stagione, con questa sterzata, ha incontrato maggiormente il gusto del pubblico, soprattutto quello americano, portando a ottimi riscontri sotto il profilo delle visualizzazioni e, sembra, 55 milioni di utenti in più. Un risultato che dovrebbe portare alla realizzazione di una terza stagione.

Estendendo lo sguardo oltre la produzione che fa capo a Jeff Bezos, però, i conduttori dell’incontro fanno notare come il nome Il Signore degli Anelli sia ormai divenuto un vero e proprio brand. Pur distaccandosi dagli eventi narrati nelle 1200 pagine composte da La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri e Il Ritorno del Re con le vicende di Frodo, Gandalf, Aragorn e tutti gli altri, raccontando delle storie del tutto originali, la serie di Amazon Prime Video ha come titolo completo proprio Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere. Allo stesso modo le nuove produzioni, già annunciate o in procinto di arrivare, targate Warner Bros, seguono lo stesso schema.

Il prossimo ad arrivare sugli schermi sarà Il Signore degli Anelli – La Guerra dei Rohirrim, un film d’animazione in stile anime diretto da Kenji Kamiyama. La pellicola ha visto la partecipazione di diverse figure chiave nella realizzazione dei film di Peter Jackson, come Richard Taylor, Alan Lee e l'illustratore John Howe. Le vicende saranno narrate da Eowyn, doppiata da Miranda Otto (già interprete dello stesso personaggio nella trilogia di Jackson), e vedranno anche la partecipazione della voce di Christopher Lee nei panni di Saruman (in questo caso senza l’intervento della AI, ma grazie a vecchie registrazioni dal set dei film di Jackson che non erano state utilizzate al tempo).

A seguire (anche se parliamo del 2026), inoltre, è già in produzione quello che al momento ha il titolo di lavorazione Il Signore degli Anelli – La Caccia a Gollum. Se sulla seconda parte del titolo ci sono ancora dei dubbi, la ripresa del brand è assicurata, così come è assicurata la presenza, dietro la macchina da presa, di Andy Serkis, che dopo la magistrale interpretazione di Gollum nella trilogia di Jackson e aver diretto la seconda unità proprio su quel set, torna a mettere piede nella Terra di Mezzo. Per quanto altri titoli da lui diretti nel frattempo non facciano dormire sonni troppo tranquilli ai fan (Venom – La Furia di Carnage), la linea tracciata da Warner sembra estremamente chiara: mettersi in scia alla trilogia di Jackson, con film che ne riprendano le caratteristiche produttive, l’estetica, lo stile e la resa finale, al punto da cercare di coinvolgere buona parte di coloro che vi avevano lavorato.

Amazon Prime Video e Warner hanno quindi scelto due direzioni piuttosto diverse per sfruttare il nome de Il Signore degli Anelli, chi avrà avuto ragione lo deciderà il pubblico. A noi, sancisce Arduini, non resta che rimanere a guardare, e sperare che in futuro qualcuno abbia più coraggio nelle successive trasposizioni tolkeniane.