Cinema di narrazione o documentaristico? Un po' di entrambe le cose in Grand Tour, ambizioso film di Miguel Gomes.
Il motore narrativo è la fuga del protagonista maschile, Edward (Gonçalo Waddington), un funzionario dell'Impero britannico nelle Birmania del 1918. Fugge perché a Rangoon sta per raggiungerlo la sua fidanzata Molly (Crista Alfaiate) per convolare con lui a nozze. Inizia quindi la sua fuga in varie città dell'Asia, con peripezie varie, in un sorta di Grand Tour che si trasforma in un viaggio alla ricerca di se stesso. Sulle sue tracce si mette una divertita Molly, che ha più di un motivo non solo per cercare di afferrare il fuggitivo, ma anche per realizzare essa stessa questo viaggio.
La particolarità del film è che le scene che mostrano i luoghi del viaggio mostrano scene di vita delle città attuali, girate in 16mm nel corso del fatidico 2020.
Singapore, Osaka, Shangai e altre città ancora, non sono state ricostruite come erano nel 1918, bensì mostrate attingendo a questo archivio, creando un dialogo tra passato e presente.
Il risultato è estraniante e lascia perplessi. Sicuramente non indifferenti.
La storia di Edward e Molly, ispirata a due pagine di un racconto di viaggio di Somerset Maugham intitolato Il signore in salotto, inizia con toni da commedia screwball, quasi farsesca, per assumere gradualmente toni da melodramma, se non di tragedia, in un viaggio nel cuore dell'Asia che ricorda in certi punti quello raccontato nella trasposizione di Cuore di Tenebra che Francis Ford Coppola fece in Apocalypse Now.
L'alternanza tra la finzione della ricostruzione e la finzione documentaristica, crea comunque una narrazione, perché comunque va ricordato che nel momento in cui la scena "reale" viene accostata alla finzione, diventa parte della storia, e si distacca dalla sua oggettività. Va detto che in fondo qualsiasi documentario, nel momento in cui inquadra e mette in cornice una scena opera scelte soggettive.
Ma tirate le somme, Gomes gioca in modo troppo compiaciuto con questo meccanismo, che forse avrebbe retto per il respiro di un mediometraggio, anziché dilungarsi oltre le due ore.
Le scene di finzione sono suggestive ed evocative, grazie al bianco e nero bastano ombre e nebbie per evocare paesaggi che sono al di fuori dello sguardo della camera. Gli attori riescono nel difficile compito di reggere dei dialoghi che fin troppe volte eccedono nel racconto fuori scena, reso popolare dal tormentone "O' dimo" della quarta stagione di Boris.
Si esce comunque provati dalla visione di un film concepito con l'idea che il viaggio sia più importante che il raggiungimento di una destinazione.
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