Robbie Williams è l’artista solista di maggior successo di tutti i tempi nel Regno Unito, e ha superato persino i Beatles e i Queen. Oltre ad essere il musicista più venduto degli anni 2000, sei dei suoi album sono nella Top 100 dei più venduti in patria, e Knebworth Park, nell’agosto 2003 con 375.000 spettatori in 3 concerti, detiene il record per il più grande evento live nella storia del Regno Unito.

Ma come ha fatto il ragazzo di Stoke-on-Trent con un disturbo da deficit di attenzione, e diventato famoso come membro di una boy band, a fare tutto questo lo racconta Better Man in un modo decisamente singolare per un biopic, trasformando Williams in una scimmia antropomorfa. Il cinema pare aver deciso di imboccare due strade quando si vuol raccontare la vita di una star: da una parte la rappresentazione quasi fotografica come nel caso di Bohemian Rhapsody, con la scena del concerto al Live Aid identica alle riprese del 1985, e dall’altra come nel caso di Io non sono qui di Todd Haynes, dove Bob Dylan viene interpretato da sei diversi attori, l’originalità.

Better Man imbocca questa seconda via, poiché oltre ad essere un biopic è anche un musical che usa le canzoni più celebri di Williams per raccontare la sua storia, partendo dall’infanzia difficile e dal rapporto con il padre, ossessionato dalla fama, che ha segnato per sempre la sua idea di successo. Proprio l’idea che esista un qualcosa che si ha o non si ha per poter fare lo showman è alla base della ricerca ossessiva della fama di Williams, ma è anche la causa del lasciarsi andare agli eccessi, droghe, alcol e sesso, ricetta comune a tante rock star. Better Man racconta proprio gli anni più oscuri di Robbie Williams, quelli del primo successo, delle difficoltà a imporsi con i Take That, della sindrome dell’impostore che lo ossessiona continuamente, discorso che però a lungo andare risulta un po’ stucchevole e che rischia di non portare il film da nessuna parte.

Spesso infatti i biopic hanno un enorme problema proprio nelle loro premesse: ciò che raccontano è interessante anche al di là dei fatti della vita del protagonista? In altre parole possono avere un valore più universale? Nel caso di Better Man sì e no. Prima di tutto bisogna riconoscere al progetto la bontà di aver scelto anche la via del musical, e la regia di Michael Gracey aiuta la pellicola a distaccarsi dall’essere una solo una biografia. La scena del primo contratto discografico dei Take That con Rock DJ ad accompagnare il ballo è da applausi, ma anche l’incontro tra Robbie e la futura compagna Nicole Appleton è notevole. Come già detto la scelta di non far interpretare il protagonista da una star è vincente, perché spesso la performance attoriale distrae da un giudizio obbiettivo sulla pellicola, riducendosi a una questione di mimesi.

Ciò che manca a Better Man è forse proprio il coraggio di andare fino in fondo e intraprendere un discorso un po’ più ampio che non sia quello di una star che, a causa di un successo precoce ha rischiato di non farcela. Ad un certo punto il film sembra chiedersi il perché quando un sogno viene raggiunto sembra non essere abbastanza, perché la conquista di un obbiettivo produce autodistruzione invece che salvezza. A queste domande però non viene data risposta, limitandosi a un happy end per il protagonista con l’abbattimento dei propri demoni e il perdono del padre, riducendo così il finale a una catarsi troppo semplicistica che rovina la seconda metà del film.