Nella Bologna della liberazione un ragazzo s’innamora a prima vista di una giovane infermiera americana che gli chiede indicazioni per raggiungere Ferrara. Qualche anno dopo il giovane si trasferisce in Iowa perché vorrebbe fare lo scrittore ed è alla ricerca di un’ambientazione che possa rendere più interessanti le sue storie. Il fato vuole che la nuova vicina di casa sia la madre della bellissima infermiera di nome Barbara, disperata poiché la figlia non è mai tornata dall’Italia. Una notte una voce che chiede aiuto richiama l’attenzione del ragazzo che trova, scavando nell’orto della vicina, un vaso dal liquido opaco sul quale trova un’enigmatica etichetta da decifrare. Inizia da qui un viaggio misterioso tra America e Italia, che coinvolgerà anche un serial killer attivo tra le campagne bolognesi, forse l’artefice della sparizione di Barbara.

L’orto americano è basato sul romanzo scritto dallo stesso regista Pupi Avati che ha cofirmato la sceneggiatura insieme al figlio, e che segna anche il suo un ritorno all’horror. Difficile dare un giudizio univoco a quest’opera che passa da momenti di cinema alto, soprattutto quando ci si avventura nel gore, ad altri che sfiorano l’imbarazzante, specie se si guardano snodi nella trama davvero poco probabili. Anche l’elemento soprannaturale se in alcuni momenti aiuta il film ad avere un alone mistico e surreale, in altri sfocia in una nota stonata che fa uscire lo spettatore dalla sospensione di incredulità.

Anche la scelta del cast sembra aver avuto risultati alterni, con l’ottimo Filippo Scotti, già visto in È stata la mano di Dio e che qui conferma la sua versatilità, mentre praticamente tutto il cast in lingua inglese da Rita Tushingham, sempre sopra le righe, alla scelta della modella Mildred Gustafsson per interpretare Barbara, sono fuori tono. Funziona invece la fotografia di Cesare Bastelli in un bianco e nero affascinante, che rievoca le atmosfere del noir nella parte americana, passando al gotico quando la storia torna in Italia tra le nebbie della campagna romagnola.  

Al netto di tutto ciò resta il fatto che Pupi Avati a 85 anni porta avanti una propria idea di cinema forse non più completamente connessa al presente, ma che dimostra di avere un’autenticità, una forza e soprattutto un coraggio che difficilmente oggi nel cinema italiano, specie in quello di genere, si vede.