Nel 1932, Hienz Wittmer, vedovo e veterano di guerra, decide di lasciare la Germania e trasferirsi sull’isola disabitata di Floreana, nelle Galapagos, insieme al figlio che soffre di poliomielite e alla sua giovane seconda moglie, Margret. A spingerlo è il desiderio di una vita nuova, lontana dal caos dell’Europa segnata dalla prima guerra mondiale e dal prossimo conflitto imminente. Wittmer è ispirato dall’esempio di Friedrich Ritter, medico e filosofo tedesco, già trasferitosi sull’isola qualche tempo prima con sua moglie Dore Strauch. L’uomo è diventato una figura celebre in patria per aver rinunciato alla civiltà e scelto una vita solitaria, in un’epoca in cui la sfiducia nel sistema capitalistico cresceva e il tracollo economico tedesco favoriva l’ascesa del nazismo. I Ritter, inizialmente restii a condividere l’isola con i nuovi arrivati, riescono col tempo a tollerarne la presenza. Ma l’equilibrio si rompe quando sbarca a Floreana Eloise Wagner de Bousquet, presunta baronessa, spinta dall’idea di costruire un resort di lusso e prendere il controllo dell’isola.

Secondo Ritter, personaggio realmente esistito,  “Il reale senso della vita è il dolore, nel dolore la virtù e nella virtù la salvezza.” Questo principio guida il suo isolamento, eppure, l’idea di solitudine che proclama contrasta con il suo bisogno di visibilità e di controllo sugli altri che popolano l’isola.  Jude Law che interpreta il dottore è perfetto nel dipingere un uomo brillante ma anche narcisista, bravo a predicare ma pronto a cedere a ogni più bassa debolezza pur di farsi valere. Ritter prova a dominare con il pretesto della ragione e dell’ordine, ma non si rivela migliore alla “baronessa” Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas), una truffatrice che vuole costruire sull’isola un resort di lusso. Quali siano però le sue vere intenzioni non è chiaro poiché la debolezza del progetto è evidente. Che sia allora solo un bisogno di visibilità e di autoaffermazione la sua? C’è poi la famiglia Wittmer: Hienz un reduce segnato dalla guerra con un figlio malato che non può curare in Germania e Margret (Sydney Sweeney) una giovane donna rassegnata a vivere in un ambiente selvaggio che non ha scelto per se stessa.

Ed è proprio Margret il vero cuore di Eden. Inizialmente silenziosa, quasi invisibile, comincia a emergere come osservatrice acuta e coscienza morale della storia. La sua trasformazione, resa chiara nel parallelismo tra l’immagine di apertura del film e quella di chiusura, è silenziosa ma inesorabile: mentre gli altri si perdono tra ambizioni e avidità, lei rimane fedele a se stessa. Affronta il dolore senza mitizzarlo, vive senza pretese di purezza, e proprio per questo diventa il simbolo più autentico di salvezza. Con Eden, Ron Howard gira una riflessione spietata sul fallimento delle utopie, sull’ambiguità della fuga, sul fatto che l’essere umano, anche quando si crede libero, non può fare a meno di creare nuove catene. E in mezzo a questo dramma collettivo, brilla una verità semplice che riesce a dare una luce ottimista alla pellicola: la vera forza sta nell’empatia, nella coerenza morale e nella capacità di non tradire né se stessi, né chi si ama.