Modesto e introverso, è una delle ultime persone che avreste immaginato potesse diventare un regista tra i più acclamati del panorama hollywoodiano. Creatore di alcune delle visioni cinematografiche più oscure e surreali della storia del cinema; sognatore di sogni cupi ed evocativi, portati in vita da film che svelano un’immaginazione ricca di originalità e atmosfera. Pittore di paesaggi conturbanti, rappresentati con un’intensità e una bellezza raramente viste; padre di personaggi bizzarri e appassionanti, spesso ai limiti della società, struggenti e indimenticabili.
Questo è Tim Burton, di cui leggeremo una lunga intervista esclusiva sul prossimo numero della rivista Robot (il 47).
La sua carriera nel mondo del cinema inizia nel 1976, quando vince una borsa di studio per il California Institute of the Arts, una scuola fondata da Walt Disney come campo di addestramento per nuovi animatori. Nel 1979 viene selezionato per entrare ufficialmente a fare parte del gruppo di animatori della Disney, dove collabora alla realizzazione di Red e Toby nemici amici (The Fox and the Hound).
Negli studi Disney si rendono conto ben presto che il talento di Burton è sprecato nel ruolo di animatore; viene così inserito nel gruppo di artisti che si occupano della creazione dei personaggi e coinvolto nella realizzazione di Taron e la pentola magica (The Black Cauldron), l’adattamento del secondo volume de Le Cronache di Prydain di Lloyd Alexander (una serie fantasy in sei volumi). Chi ha presente lo stile artistico di Burton, può bene immaginare come i suoi disegni non fossero propriamente in linea con gli standard Disney, e infatti non furono utilizzati.
Burton fu lasciato libero di lavorare ai propri progetti (un poema e alcuni disegni) che anni dopo si concretizzarono in The Nightmare before Christmas e i cortometraggi Vincent e Frankenweenie.
Vincent (1982) racconta la storia del piccolo Vincent Malloy, un bambino solitario che crede di essere Vincent Price e trascorre le sue giornate interpretando quei personaggi che Price aveva a sua volta impersonato nei film ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe. Girato in bianco e nero, questo brevissimo film d’animazione (solo cinque minuti) e un’affascinante esplorazione nell’intrigante regno di un bambino dotato della capacità magica di creare un mondo fantastico che può essere divertente, terapeutico o tortuoso a seconda dell’inclinazione con cui lo si guarda.
In molti hanno letto nella figura del piccolo Vincent un giovane Tim Burton: la sua passione per i film horror di Roger Corman e in particolare per l’attore Vincent Price danno spazio a varie interpretazioni psicologiche che lasceremo però agli esperti.
Il secondo cortometraggio, Frankenweenie (1984), è la storia di un ragazzino di nome Victor Frankenstein, che tenta di fare tornare in vita il suo amatissimo cane Sparky, ucciso da una macchina. Frankenweenie è una squisita alchimia di tragedia e commedia, una storia che esplora la tristezza causata dalla morte e il modo in cui i bambini, e talvolta anche gli adulti, hanno difficoltà ad accettarla. Un racconto su come talvolta anche a noi viene concesso il potere di cambiare le cose.
Il cortometraggio riscuote un buon successo e attira l’attenzione di un illustre spettatore, anch’esso amante dell’horror, di nome Stephen King. Si afferma che il passaparola sia una strada per il successo. King propone il film a Bonni Lee, un dirigente della Warner, e Lee lo mostra a Paul Reuben, il creatore del personaggio Pee-Wee Herman, il quale stava pensando di portare il suo alter ego sul grande schermo. Tim Burton diventa così il candidato perfetto per la realizzazione di questo progetto.
Il resto è storia…
La grande avventura di Pee-Wee (Pee-Wee’s big adventure, 1985) rappresenta il debutto cinematografico di Tim Burton. L’alchimia che si crea tra Burton e Paul Reuben è speciale, grazie alla comune immaginazione orientata al bizzarro e il surreale. Pee-Wee vive in un mondo magico e infantile, circondato da giochi e invenzioni divertenti: un adulto che vive nel corpo di un bambino. Il centro del suo mondo, il suo tesoro più prezioso, è la bicicletta che attira l’attenzione delle persone che lo circondano, incluso l’odioso Francis che gli offre dei soldi per averla. Un giorno la preziosa bicicletta viene rubata e Pee-Wee si trova catapultato, dal suo mondo sicuro fatto di innocenza, nel mondo reale: la Grande Avventura del titolo, dove incontra una serie di personaggi desiderosi di aiutarlo. Il film riscuote un sorprendente successo di pubblico e critica e segna anche l’inizio della collaborazione tra Burton e il compositore Danny Elfman, capace di rendere in musica l’atmosfera allegra e vivace del film.
Dopo il successo di Pee-Wee, Tim Burton si prende una prima pausa di tre anni, finché non gli viene proposta la delirante e irriverente sceneggiatura di Beetlejuice – Spiritello Porcello (Beetlejuice, 1988). La storia ruota attorno a un’antica e tranquilla dimora tipicamente americana, alle due famiglie che vi abitano, una delle quali è una coppia di sposini deceduti (Geena Davis e Alex Baldwin) intrappolati nella casa, e a un fantasma bizzarro ed eccessivo, un irriconoscibile Michael Keaton, assunto dalla coppia di fantasmi come bio-esorcista (esorcista di umani) con lo scopo di spaventare e cacciare i nuovi e indesiderati inquilini. Se in Pee-Wee’s si vede Tim Burton crescere come narratore, Beetlejuice è il film che mostra una forza visionaria unica nel suo genere. L’aldilà presentato è macabro e surreale, popolato di creature mostruose che perseguitano i defunti appena arrivati e sale d’aspetto con liste d’attesa lunghissime che nulla hanno da invidiare a quelle del mondo dei vivi. Nuovamente la musica di Danny Elfman si sposa perfettamente con le atmosfere briose e vivaci, ma altresì macabre e spettrali di divertentissimo film.
L’anno successivo Burton porta sul grande schermo uno dei supereroi più ambigui e affascinanti dell’universo DC. Batman (1989) supera la sua dimensione di film diventando un vero evento artistico e cinematografico. Mentre l’istrionismo di Jack Nicholson viene considerato perfetto per rappresentare il Joker, la scelta di Michael Keaton, forse ancora troppo legato al personaggio di Beetlejuice, è oggetto di diverse polemiche. Tuttavia Keaton diviene uno dei punti di forza del film (e nessun altro attore in seguito, fatta eccezione forse per la recente performance di Christian Bale, è riuscito a rappresentare così efficacemente l’oscurità e dualità del personaggio di Batman). Tim Burton e Michael Keaton riescono a dare corpo a una creatura quasi soprannaturale: un Batman minaccioso e potente, vigoroso e irresistibile, evocatore di paure nei nemici e tuttavia gentile e incredibilmente umano.
Anche in questo film la potenza visionaria di Burton è ai massimi livelli: Gotham City è una città oscura e minacciosa, un labirinto di vie che sembra non vengano mai sfiorate dalla luce del sole, dominate da alti palazzi impreziositi da decorazioni impossibili, perfetti luoghi di osservazione per il Cavaliere Oscuro.
Batman può senza dubbio essere considerato un blockbuster d’autore. Dopo il successo di critica e pubblico ottenuto, Burton decide di dedicare le sue energie a un progetto personale.
Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990) è il primo film in cui Burton ha il controllo totale; scrive la sceneggiatura, lo co-produce e rappresenta, forse, il suo capolavoro. In questo film si possono ritrovare molti punti di contatto con il romanzo gotico per eccellenza, il complesso e filosofico Frankenstein di Mary Shelley. Come nel romanzo, incontriamo un essere creato in laboratorio, una creatura intimamente buona e sola, desiderosa di essere accettata dalla società che invece la rifiuta perché incapace di comprenderlo. La creatura ha qui il volto pallido e melanconico di un pierrot abbigliato di nero (Johnny Depp), un uomo dolce e gentile che, grazie al talento artistico, cerca di farsi accettare dagli abitanti di una piccola cittadina di periferia.
“Abbracciami”, chiede Kate (Wynona Ryder), la figlia della coppia che ospita Edward. “Non posso”, risponde Edward. Sono le famose e struggenti battute del film che rappresentano l’essenza del personaggio di Edward, colui che non può toccare ciò che ama senza che questo venga distrutto.
La resa visiva del film è straordinaria. Il bellissimo castello gotico che svetta sulla collina contrasta con le perfette case color pastello della cittadina. Ma quale tra i due paesaggi è il più inquietante? La scena in cui Kate danza tra le sculture di ghiaccio create da Edward è incantevole, così come la storia della nascita della neve, mentre le suggestive musiche di Danny Elfman fanno da sfondo alle atmosfere da favola gotica di questo gioiello del cinema fantastico.
Edward mani di forbice rappresenta anche l’inizio del sodalizio cinematografico di Tim Burton e Johnny Depp, all’epoca conosciuto per la serie televisiva 21st Jump Street. Colpito dal talento del giovane attore, il regista prende la decisione azzardata, e quanto mai appropriata, di assegnargli il complesso ruolo di Edward. Depp si immedesima nel personaggio studiando le interpretazioni di Charlie Chaplin, tanto che la camminata di Edward ricorda molto quella del divertente e melanconico attore inglese.
Tre anni dopo l’uscita di Batman, Tim Burton realizza il tanto atteso sequel, Batman, il ritorno (Batman Returns, 1992), uno dei rari casi in cui il seguito è forse superiore al primo episodio. In questo film Bruce Wayne (di nuovo Michael Keaton) deve fronteggiare due antagonisti: il Pinguino, uno straordinario Danny De Vito; e Catwoman, Michelle Pfeiffer in uno dei suoi ruoli più affascinanti. A questi si aggiunge un terzo avversario: Max Schreck (Christopher Walken), un ricco industriale di Gotham City.
Burton utilizza i tre cattivi per enfatizzare i molteplici aspetti della psicologia di Batman. Il Pinguino, come Bruce, è tormentato dai fantasmi familiari, ai limiti della società dalla quale vorrebbe essere accettato e alla ricerca di un riscatto (o di una vendetta?); Catwoman, come Batman, è perennemente in bilico tra la razionalità umana e l’istinto animale; Shreck è la ricchezza, il potere fine a se stesso, l’antitesi di Bruce Wayne la cui ricchezza è volta alla filantropia. La scelta del nome Schreck non è causale: Max Schreck era il nome dell’attore che interpretò il conte Orlok, un vampiro spaventoso e innamorato, nel film Nosferatu del regista tedesco Friedrich Murnau. Un omaggio di Burton ai suoi amati film horror e alla corrente dell’espressionismo tedesco, ispiratore delle cupe atmosfere di questo film. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un raro esempio di come un film campione d’incassi possa anche essere un’opera d’arte.
Dopo il rinnovato successo di Batman, Tim Burton torna a dedicarsi a un progetto personale. Riprende il poema scritto mentre frequentava il California Institute of the Arts e porta sul grande schermo The Nightmare before Christmas (1993). Il film, girato con la tecnica dello stop-motion, è un capolavoro di animazione gotico e divertente ma anche una favola di toccante innocenza e delicata bellezza. The Nightmare before Christmas racconta la storia del più importante cittadino di Halloween, Jack Skeleton, e del suo desiderio di portare i colori gioiosi della città di Natale nella sua cupa e oscura città. Jack è sotto molti aspetti simile al personaggio di Edward, entrambi al limite della società, malinconicamente consapevoli della loro diversità e pertanto impegnati a farsi accettare dagli altri. Il fallimento, una serie di azioni talvolta errate anche se commesse in buona fede, porterà entrambi a rifugiarsi nuovamente nella realtà che a loro appartiene, Edward nel castello in cima alla collina e Jack nella sua spettrale città di Halloween. Temi che sono ricorrenti nelle opere di Burton, fin dall’esordio con il cortometraggio Vincent.
Tecnicamente il film non è diretto da Tim Burton ma da Henry Selick, un vero esperto di animazione. Ogni scena brilla però della personale visione di Tim Burton, così come ogni fantastico personaggio e ogni ambiente, preso direttamente dai suoi schizzi e disegni originali. La colonna sonora, composta da un eccellente Danny Elfman, che dà voce a Jack e canta alcune delle canzoni, si integra perfettamente con i paesaggi di spettrale bellezza che si alternano sullo schermo.
Dopo avere visto la realizzazione del suo sogno, Tim Burton ritorna alla cinematografia classica con Ed Wood (1994), un affettuoso tributo a colui che viene considerato il peggior regista di tutti i tempi. Il film non scala le classifiche d’incassi, ma fa guadagnare a Burton le migliori recensioni della carriera e due Oscar. Ed Wood era un uomo con una passione segreta per i maglioni d’angora e la maglieria intima femminile. Realizzò film come Plan 9 from Outer Space, un film di fantascienza con dischi volanti realizzati con piatti tenuti sospesi da fili, e Glen or Glenda, un documentario nel quale venivano analizzati i problemi dell’essere un travestito, interpretato dallo stesso Ed Wood. Siamo nel 1954!
Per Ed Wood si ricompone la coppia Burton-Depp. Le straordinarie capacità di Johnny Depp di immergersi totalmente nel personaggio sono una gioia per gli occhi. Depp diventa realmente Ed Wood, trasmettendo tutto l’entusiasmo e la passione che il regista metteva nel dirigere le sue opere. Lo stesso entusiasmo e passione che si notano in Tim Burton, anche se con risultati sicuramente migliori di quelli del povero Ed Wood. Burton lo descrive come un uomo carico di ottimismo, una persona che vede sempre il positivo, anche se si tratta di una singola parola nella peggiore recensione immaginabile. Il suo bizzarro e insolito carattere è affascinante e allo stesso tempo struggente, la sua determinazione è ammirevole tanto che alla fine diventa inevitabile simpatizzare per lui.
Il film non si limitata a raccontare la vita di Ed Wood, è anche la commovente storia di amicizia tra il giovane regista e l'ormai vecchio e ammalato Bela Lugosi (Martin Landau), una storia che richiama il legame di amicizia tra Burton e Vincent Price. Due giovani cineasti, Wood e Burton, che danno ai loro idoli la possibilità di apparire per un’ultima volta sul grande schermo.
Il film successivo si può considerare come un omaggio indiretto ai film di Ed Wood. Per Mars Attack! (1996) Tim Burton si ispira a una collezione di figurine sul tema della fantascienza anni '50-'60 e realizza, con un cast eccezionale, una parodia de La guerra dei mondi e altri classici dell’epoca.
Siamo lontani dagli alieni buoni di spielberghiana tradizione: qui gli extraterresti tornano a essere brutti e cattivi votati al solo scopo di annullare completamente la razza umana. Per opporsi all'invasione, Burton crea una galleria di personaggi bizzarri, ispirati ai cliché dei film di fantascienza classica: il presidente preoccupato dell’opinione pubblica, il petroliere texano che cerca di approfittare della situazione (entrambi interpretati da Jack Nicholson), la first lady (Glenn Close) che non può accettare che i marziani dimorino nella Casa Bianca, e lo scienziato saccente e perennemente ottimista (Pierce Brosnan), anche quando si trova davanti una drammatica e inevitabile realtà, per citarne alcuni.
Burton punta sulla comicità e sull’istrionismo degli attori, mettendo in secondo piano la costruzione di scene di tensione o di orrore. In effetti il film ha poco di fantascientifico, se non l’evocativa colonna sonora del sempre ottimo Danny Elfman e i dischi volanti, simili a quei piatti tanto cari al maestro Ed Wood.
Dopo Mars Attack!, che non ottiene il successo di critica a cui ormai Burton è abituato, il regista si prende tre anni di pausa per ritornare sugli schermi con Il mistero di Sleepy Hollow (Sleepy Hollow, 1999).
Il romanzo La leggenda di Sleepy Hollow, di Washington Irving, nel quale si narrano le avventure dell’umile insegnante Ichabod Crane inseguito da un misterioso cavaliere senza testa, è considerato un caposaldo della letteratura americana. Tim Burton aggiorna la favola, trasformando il personaggio di Ichabod (ancora Johnny Depp) in uno schizzinoso detective teso a dimostrare le sue teorie sulla medicina legale in una città che vive nell’incubo di una forza misteriosa: un cavaliere fantasma (Christopher Walken) che decapita le proprie vittime senza alcuna ragione apparente. Johnny Depp crea un pallido eroe romantico, intimorito e spaventato da tutto, eppure capace di essere stoico e granitico di fronte alla verità e alla giustizia, anche se questa è la più terribile e spaventosa che si possa immaginare.
Il film è ricco di atmosfere cupe e minacciose. Le immagini austere e quasi monocromatiche create da Emmanuel Lubezki accrescono nello spettatore quella sensazione di disperazione e morte che pervade gli abitanti della città. Il film è tanto un intricato giallo quanto un racconto di fantasmi, una coinvolgente favola gotica sfumata di magia e orrore, ma anche una storia velata di romanticismo e poesia.
Il successo di Sleepy Hollow, non viene ripetuto con il remake de Il Pianeta delle scimmie (The planet of the apes, 2001), ispirato dal film e dal racconto originale di Pierre Bouelle (autore anche de Il ponte sul fiume Kwai). Il film si rivela un passo falso nella carriera di Burton. Nonostante l’uso magistrale degli effetti speciali, è privo delle invenzioni narrative e delle visioni che caratterizzano i film di Tim Burton. E' un film didascalico e dalla trama banale, deludente sia per i fan di Burton che per la critica.
Il progetto successivo non può essere più diverso da Il Pianeta delle scimmie. Il regista torna ai suoi temi e alle sue visioni con Big Fish (2003), un adattamento del racconto omonimo di Daniel Fallace. Racconta la storia di un uomo che cerca di ricongiungersi con il padre morente, un tema che Burton sente molto vicino avendo perso entrambi i genitori poco tempo prima. Conosciamo un anziano Edward Bloom (Albert Finney) ormai giunto al termine di una lunga vita ricca di avvenimenti. Avvenimenti che Edward racconta al proprio figlio Will, arricchendoli con tali e tanti abbellimenti e mirabolanti fantasticherie da risultare incredibili se non addirittura falsi agli occhi del figlio.
Ma quanto di ciò che Edward racconta è vero e quanto è solo un modo per rendere la realtà più bella, emozionante e allegra di quanto non sia? Will, come lo spettatore, verrà inesorabilmente avvinto e affascinato dalle avventure del padre, leggendo la realtà apparentemente nascosta eppure incredibilmente visibile di quei racconti meravigliosi, comprendendo quanto la distanza che separa la realtà e l’immaginazione sia qualcosa di indefinibile. Ma in tutto questo non si trova forse la quintessenza di tutta la produzione cinematografica di Tim Burton?
Arriviamo così alle ultime due creature di Burton: La fabbrica di cioccolato (Charlie and the chocolate factory, 2005), remake dell’omonimo film del 1971, e La sposa cadavere (Corpse Bride, 2005).
La storia narrata in La fabbrica di cioccolato, di cui potete leggere la recensione su Fantasy Magazine, è pressoché fedele al romanzo di Rohal Dal. Burton svecchia il personaggio di Willy Wonka, assegnando il ruolo a uno strepitoso Johnny Depp. Il suo Willy Wonka è un personaggio elegante e schizzinoso, ammaliante, allegro ed entusiasta come un bambino, ma anche un uomo profondamente solo alla ricerca di un erede a cui consegnare le redini della sua fabbrica di cioccolato e, anche se nel suo strano modo, di una famiglia che lo accolga.
L’unica libertà che si prende Burton è quella di inserire il rapporto di Willy con il severo padre dentista (Christopher Lee). Un tema, quello del confronto con i propri fantasmi familiari e la ricerca della propria identità che, seppur trattato con argomenti e sensibilità differenti, è ricorrente nei film di Burton; basti pensare a Edward Mani di Forbice, Ichabod Crane e Will Bloom.
La fabbrica di cioccolato è un film divertente, visionario e colorato non privo di momenti di critica e introspezione, che seppur sfumati nell'ironia e nella leggerezza sono presenti e facilmente leggibili dal pubblico.
Con La sposa cadavere Burton ritorna alla tecnica dello stop-motion già usata con successo in The Nightmare Before Christmas. Ispirato a un racconto popolare russo, la vicenda ambientata nel XIX secolo racconta le avventure del giovane Victor in viaggio per raggiungere la fidanzata Victoria, con la quale deve sposarsi. Lungo il tragitto Victor si trova a giocare con un ramoscello al quale infila l’anello nuziale e declama la formula del matrimonio. Il ramoscello si rivela essere il dito di una ragazza assassinata che, improvvisamente, ritorna in vita come fantasma e pretende di essere sposata.
Dietro ai personaggi di Victor e della sposa, si celano Johnny Depp, ormai indiscusso alter ego di Burton, e Helena Bonham Carter, moglie del regista. Un inno all’amore macabro e poetico in puro stile Burton. Da vent’anni Burton ci affascina con le sue visioni poetiche e lunari, i suoi personaggi bizzarri e affascinanti, donandoci con ogni suo film qualcosa di antico eppure familiare; e sempre qualcosa di completamente inaspettato.
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