Questa dichiarazione appartiene a Fay Wray, l’attrice protagonista della prima incarnazione cinematografica di King Kong, la quale non ha evidentemente alcun sentore di che cosa l’attende, accettando la proposta del regista Merian C. Cooper.
L’intuizione di quest’ultimo e del socio, Ernest B. Schoedsack, appare infatti piuttosto originale.I due, noti documentaristi, nel 1931 si presentano a una casa di produzione appena fondata, la RKO, sottoponendo al suo presidente David O. Selznick (che sarà l’artefice di Via col vento soltanto otto anni più tardi) un’idea relativamente originale. Ossia una storia basata su un animale di rara potenza e anche d’intelligenza superiore rispetto ai propri simili, in qualche maniera simbolo dell’uomo delle origini.
Lo scimmione si sarebbe trovato in cima a quello che allora era probabilmente l’edificio più alto del mondo, l’Empire State Building di New York, metafora in acciaio, ambizione e stile art decò dei risultati raggiunti e delle aspirazioni ancora da soddisfare dell’uomo contemporaneo. Affidato lo sviluppo del soggetto e della sceneggiatura a Ruth Rose, moglie di Schoedsack, e a James A. Creelman, già collaboratore dei due registi, resta da pensare come realizzare un film imperniato su una creatura interamente frutto di un artificio e, dunque, basato su un’ingente quantitativo di effetti speciali, peraltro tutti da inventare (o quasi).
Nella ripresa i due scenari si fondono in un’unica immagine costituita dai parziali di entrambi. Da segnalare anche l’utilizzo della stop motion o ripresa a passo uno: nel corso di una ripresa gli attori si bloccano in posizioni prestabilite, mentre alcuni oggetti vengono tolti e/o aggiunti alla scena; poi gli attori riprendono a muoversi sino a concludere la ripresa. Viene data così l’illusione di attori e oggetti che appaiono e spariscono misteriosamente.
Nonostante siano state riciclate scenografie di produzioni precedenti (il grande muro dell’isola del teschio proviene dal set di un film diretto da De Mille nel ’27 Il Re dei Re e finirà la sua storia nell’incendio di Atlanta di Via col vento), la lavorazione del King Kong di Merian C. Cooper (il quale si dedica principalmente a filmare gli effetti di O’Brien) e Schoedsack (responsabile del resto delle riprese, girate quasi interamente in studio) dura un anno e mezzo; le riprese vere e proprie addirittura dieci mesi, per 60.000 metri di girato (di cui soltanto 2800 utilizzati) e un costo complessivo di 700.000 dollari.
La strategia di lancio della pellicola è degna di nota. Quando era ancora in corso la stesura del soggetto, Cooper e Schoedsack avevano contattato Edgar Wallace. Inglese, maestro del romanzo poliziesco e uno dei padri del giallo moderno, Wallace godeva all’epoca di straordinaria popolarità.
Impossibilitato a fornire una effettiva collaborazione al film a causa di una improvvisa quanto prematura morte per polmonite nel 1932, Wallace viene ugualmente sfruttato. Nello stesso anno della morte dello scrittore e a pochi mesi dall’uscita del film viene pubblicato a sua firma un romanzo dal titolo King Kong: si tratta di una “novellizzazione” della sceneggiatura di Rose e Creelman, preparata da Delos Wheeler Lovelace. Il romanzo colpisce nel segno, affascinando milioni di lettori, che si trasformano poi in spettatori cinematografici (l’incasso del film in tutto il mondo, nel primo anno di programmazione, sarà di circa 1.800.000 dollari).
Lo scontro, dagli esiti poi non tanto scontati, fra la bella e la bestia è introdotto nell’omonima fiaba: La bella e la bestia in Francia esce addirittura in due versioni, una del 1740 e una del 1756, essendo quest’ultima la più breve e conosciuta. Nell’Ottocento arriva Darwin a conferire dignità scientifica alla stretta parentela che lega l’uomo alla scimmia con il trattato L’origine della specie (1859). Nel Mondo perduto (1912) di Arthur Conan Doyle affiora il tema del paradiso perduto, qui rappresentato da un altipiano della foresta amazzonica capace di racchiudere un mondo preistorico, popolato da dinosauri e scimmie in procinto di divenire uomini.
O’Brien si guadagna l’oscar per gli effetti speciali. Negli anni Sessanta sono i giapponesi a lanciarsi nello sfruttamento del personaggio con l’immancabile King Kong contro Godzilla (1963) di Iroshiro Honda e con King Kong, il gigante della foresta (1967), in cui il gigantesco primate si scontra con un sosia meccanico in cima a un grattacielo di Tokio.
E arriviamo così al film di Peter Jackson del 2005: una ricostruzione filologica accuratissima della pellicola del ’33, costata 207 milioni di dollari e della durata di tre ore. Diciamo subito che il grande neozelandese si è fatto un po’ prendere la mano dalla sua straordinaria capacità di affascinare con le immagini e dalla qualità eccellente degli effetti speciali a sua disposizione. Anche con mezz’ora in meno questo King Kong avrebbe attratto le folle. Se nel lavoro di Cooper e Shoedsack New York faceva una fugace quanto intrigante apparizione attraverso Times Square ripresa di notte e una sequenza dello skyline diurno della città, Jackson indulge nel ritrarre Manhattan con i grattacieli in costruzione, i disoccupati che chiedono l’elemosina e i senzatetto accampati a Central Park: è la Grande Depressione che il New Deal di Roosvelt ha appena cominciato a combattere. Pure l’introduzione della protagonista Ann Darrow va un po’ troppo per le lunghe, anche se la presenza fisica e le qualità recitative di Naomi Watts si rivelano eccezionali.
E’ lei la protagonista assoluta del film, sullo schermo dall’inizio alla fine, dato che Kong – come un vero divo e come avviene nell’originale – compare soltanto a metà. Willis O’Brien, nel 1933, ha fatto un lavoro talmente buono con i mezzi a sua disposizione per gli effetti speciali, da non sfigurare neanche tanto nei confronti dell’elettronica del 2005: quello che gli manca è Andy Serkis. L’attore di cui tutti abbiamo sentito parlare per aver dato vita a Gollum nella saga de Il Signore degli Anelli, dà la gestualità al corpo e l’espressività al muso di King Kong, realizzando un altro capolavoro.
Chi appare spaesato e fuori posto è sicuramente Adrian Brody in un ruolo di eroe che non gli appartiene, prima di tutto fisicamente, ma che non riesce a restituire neanche moralmente. Attraverso di lui i valori di lealtà, di rispetto delle diversità, di umana pietà proprio non passano. Pur non brillando, senza riuscire a essere sempre incisivo, Jack Black nella parte di Carl Denham, ruba la scena a Brody.
Jackson, al contrario, abbandona tale scrupolo, rendendo da subito gli autoctoni “un’angosciosa popolazione cavernicola nera e nuda, spettinata e senza pupille” – come la descrive Natalia Aspesi su la Repubblica – ma si ha poi la sensazione che l’abbattimento di Kong sia una vittoria tanto scontata quanto inutile: la civiltà occidentale tende a distruggere tutto quello che non s’incasella nel suo ordito. Al punto di non saper creare un punto di contatto con ciò che sta al di fuori, che si presenta come alieno.
Nel film del ’33, in tutte le scene con lo scimmione, la povera Fay Wray strilla in continuazione. Peter Jackson, invece, instaura una forma di comunicazione fra il bestione e Ann Darrow, tanto è vero che Naomi Watts danza per lui, scherza per lui, parla con lui. E lui la protegge, la comprende, se ne innamora. Ricambiato prima dalla cattività e poi dai proiettili.Una morale, assai poco consolatoria e lusinghiera per la nostra cultura, sta nell’antico proverbio arabo che compare all’inizio del film di Cooper e Shoedsack: “E la bestia guardò in volto la bella. E trattenne la propria mano dall’ucciderla. E da quel giorno la bestia fu come morta.”
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