Questa dichiarazione appartiene a Fay Wray, l’attrice protagonista della prima incarnazione cinematografica di King Kong, la quale non ha evidentemente alcun sentore di che cosa l’attende, accettando la proposta del regista Merian C. Cooper.
L’intuizione di quest’ultimo e del socio, Ernest B. Schoedsack, appare infatti piuttosto originale.I due, noti documentaristi, nel 1931 si presentano a una casa di produzione appena fondata, la RKO, sottoponendo al suo presidente David O. Selznick (che sarà l’artefice di Via col vento soltanto otto anni più tardi) un’idea relativamente originale. Ossia una storia basata su un animale di rara potenza e anche d’intelligenza superiore rispetto ai propri simili, in qualche maniera simbolo dell’uomo delle origini.
Lo scimmione si sarebbe trovato in cima a quello che allora era probabilmente l’edificio più alto del mondo, l’Empire State Building di New York, metafora in acciaio, ambizione e stile art decò dei risultati raggiunti e delle aspirazioni ancora da soddisfare dell’uomo contemporaneo. Affidato lo sviluppo del soggetto e della sceneggiatura a Ruth Rose, moglie di Schoedsack, e a James A. Creelman, già collaboratore dei due registi, resta da pensare come realizzare un film imperniato su una creatura interamente frutto di un artificio e, dunque, basato su un’ingente quantitativo di effetti speciali, peraltro tutti da inventare (o quasi).
Così, entra in gioco una figura fondamentale: uno dei primi, brillantissimi artigiani degli effetti speciali, Willis O’Brien. E’ lui a inventare e utilizzare per la prima volta in King Kong (1933) il glass shot o maquette. Il trucco consiste nel dipingere uno scenario su un pannello di vetro, che va poi posizionato fra la macchina da presa e la scena tridimensionale a grandezza naturale sullo sfondo, in modo da far apparire ambedue le scene della medesima scala.
Nella ripresa i due scenari si fondono in un’unica immagine costituita dai parziali di entrambi. Da segnalare anche l’utilizzo della stop motion o ripresa a passo uno: nel corso di una ripresa gli attori si bloccano in posizioni prestabilite, mentre alcuni oggetti vengono tolti e/o aggiunti alla scena; poi gli attori riprendono a muoversi sino a concludere la ripresa. Viene data così l’illusione di attori e oggetti che appaiono e spariscono misteriosamente.
Altri accorgimenti sono adottati da Marcel Delgado per la realizzazione dei pupazzi: alti una quarantina di centimetri, hanno alcune parti, come mani, testa e piedi, costruite anche a grandezza naturale. Gli effetti sonori pure richiedono un accurato lavoro, basti pensare che l’urlo di Kong è ottenuto rallentando registrazioni di ruggiti di tigri e leoni e riproducendole al contrario.
Nonostante siano state riciclate scenografie di produzioni precedenti (il grande muro dell’isola del teschio proviene dal set di un film diretto da De Mille nel ’27 Il Re dei Re e finirà la sua storia nell’incendio di Atlanta di Via col vento), la lavorazione del King Kong di Merian C. Cooper (il quale si dedica principalmente a filmare gli effetti di O’Brien) e Schoedsack (responsabile del resto delle riprese, girate quasi interamente in studio) dura un anno e mezzo; le riprese vere e proprie addirittura dieci mesi, per 60.000 metri di girato (di cui soltanto 2800 utilizzati) e un costo complessivo di 700.000 dollari.
La strategia di lancio della pellicola è degna di nota. Quando era ancora in corso la stesura del soggetto, Cooper e Schoedsack avevano contattato Edgar Wallace. Inglese, maestro del romanzo poliziesco e uno dei padri del giallo moderno, Wallace godeva all’epoca di straordinaria popolarità.
Impossibilitato a fornire una effettiva collaborazione al film a causa di una improvvisa quanto prematura morte per polmonite nel 1932, Wallace viene ugualmente sfruttato. Nello stesso anno della morte dello scrittore e a pochi mesi dall’uscita del film viene pubblicato a sua firma un romanzo dal titolo King Kong: si tratta di una “novellizzazione” della sceneggiatura di Rose e Creelman, preparata da Delos Wheeler Lovelace. Il romanzo colpisce nel segno, affascinando milioni di lettori, che si trasformano poi in spettatori cinematografici (l’incasso del film in tutto il mondo, nel primo anno di programmazione, sarà di circa 1.800.000 dollari).
A una prima, distratta visione King Kong può sembrare un film schematico, dove personaggi e dialoghi non rivestono una particolare importanza e dove non compaiono spunti d’interesse, al di là di quelli tecnici di cui abbiamo raccontato. In realtà, il film s’inserisce in una tradizione letteraria di un certo spessore e contribuisce in maniera determinante a crearne anche una cinematografica. E’ possibile far risalire a I viaggi di Gulliver (1726), il primo incontro curioso fra un uomo, un minuscolo eroe, e una scimmia che assume per lui proporzioni gigantesche.
Lo scontro, dagli esiti poi non tanto scontati, fra la bella e la bestia è introdotto nell’omonima fiaba: La bella e la bestia in Francia esce addirittura in due versioni, una del 1740 e una del 1756, essendo quest’ultima la più breve e conosciuta. Nell’Ottocento arriva Darwin a conferire dignità scientifica alla stretta parentela che lega l’uomo alla scimmia con il trattato L’origine della specie (1859). Nel Mondo perduto (1912) di Arthur Conan Doyle affiora il tema del paradiso perduto, qui rappresentato da un altipiano della foresta amazzonica capace di racchiudere un mondo preistorico, popolato da dinosauri e scimmie in procinto di divenire uomini.
Proprio il racconto di Conan Doyle diviene oggetto di una omonima trasposizione filmica del 1925 con la regia di Harry Hoyt, che ha il merito di far esordire quel Willis O’Brien, senza il quale il progetto di Cooper e Shoedsack di otto anni dopo difficilmente avrebbe visto la luce. Molte pellicole da allora si avventurano sulla falsariga di King Kong: a cominciare da Il figlio di Kong che gli stessi Cooper e Shoedsack girano sempre nel ’33, riciclando cast e materiali dell’originale. Poi, sono O’Brien e Shoedsack a realizzare Il re dell’Africa nel 1949, dove ogni elemento originario viene annacquato in una versione consolatoria nella quale lo scimmione diviene un puro elemento da circo dotato pure di connotati eroici.
O’Brien si guadagna l’oscar per gli effetti speciali. Negli anni Sessanta sono i giapponesi a lanciarsi nello sfruttamento del personaggio con l’immancabile King Kong contro Godzilla (1963) di Iroshiro Honda e con King Kong, il gigante della foresta (1967), in cui il gigantesco primate si scontra con un sosia meccanico in cima a un grattacielo di Tokio.
Nel 1976 è Dino De Laurentiis a incaricare il regista John Guillermin della realizzazione di un remake. Il film ha il merito di far esordire Jessica Lange nella parte che fu di Fay Wray e di far vincere un oscar agli effetti speciali di Carlo Rambaldi. I demeriti sono, invece, tanti. A cominciare da una ingiustificata attualizzazione della storia che ha apparentemente l’unico scopo di far abbattere Kong dall’alto delle Torri Gemelle, invece che dall’oramai troppo basso Empire. La voluttà, se non vogliamo dire il comunque casto erotismo del primo film, nel corso del quale lo scimmione tocca in maniera vagamente maliziosa Fay Wray, giungendo a spogliarla in maniera parziale, nel King Kong di Guillermin sono scomparsi. Ancora peggio va con il fiacco King Kong 2 del 1986, sempre dello stesso Guillermin, e con Linda Hamilton.
E arriviamo così al film di Peter Jackson del 2005: una ricostruzione filologica accuratissima della pellicola del ’33, costata 207 milioni di dollari e della durata di tre ore. Diciamo subito che il grande neozelandese si è fatto un po’ prendere la mano dalla sua straordinaria capacità di affascinare con le immagini e dalla qualità eccellente degli effetti speciali a sua disposizione. Anche con mezz’ora in meno questo King Kong avrebbe attratto le folle. Se nel lavoro di Cooper e Shoedsack New York faceva una fugace quanto intrigante apparizione attraverso Times Square ripresa di notte e una sequenza dello skyline diurno della città, Jackson indulge nel ritrarre Manhattan con i grattacieli in costruzione, i disoccupati che chiedono l’elemosina e i senzatetto accampati a Central Park: è la Grande Depressione che il New Deal di Roosvelt ha appena cominciato a combattere. Pure l’introduzione della protagonista Ann Darrow va un po’ troppo per le lunghe, anche se la presenza fisica e le qualità recitative di Naomi Watts si rivelano eccezionali.
L’attrice australiana mostra di sapersi muovere abilmente sui toni drammatici come su quelli giocosi, di avere un volto magnificamente espressivo e di non aver davvero paura di niente! Azzeccata la scelta della voce italiana, quella Claudia Catani che molti ricordano nei panni di Dana Scully in X-Files.
E’ lei la protagonista assoluta del film, sullo schermo dall’inizio alla fine, dato che Kong – come un vero divo e come avviene nell’originale – compare soltanto a metà. Willis O’Brien, nel 1933, ha fatto un lavoro talmente buono con i mezzi a sua disposizione per gli effetti speciali, da non sfigurare neanche tanto nei confronti dell’elettronica del 2005: quello che gli manca è Andy Serkis. L’attore di cui tutti abbiamo sentito parlare per aver dato vita a Gollum nella saga de Il Signore degli Anelli, dà la gestualità al corpo e l’espressività al muso di King Kong, realizzando un altro capolavoro.
Chi appare spaesato e fuori posto è sicuramente Adrian Brody in un ruolo di eroe che non gli appartiene, prima di tutto fisicamente, ma che non riesce a restituire neanche moralmente. Attraverso di lui i valori di lealtà, di rispetto delle diversità, di umana pietà proprio non passano. Pur non brillando, senza riuscire a essere sempre incisivo, Jack Black nella parte di Carl Denham, ruba la scena a Brody.
Si ripete l’intreccio fra il bestione dalla forza sovrumana, re di un mondo incontaminato, che si scontra con il cinismo dell’imprenditore, incarnato da Denham ossia il regista che non guarda in faccia nessuno e non si preoccupa di niente pur di terminare il suo film, simboleggiando l’insensibilità del mondo urbanizzato contemporaneo. Nella pellicola originale, il confronto fra natura e artificio umano pende a favore di quest’ultimo: soltanto l’approccio iniziale con gli indigeni dell’isola del teschio risente di uno scrupolo etnologico, probabilmente figlio del lavoro da documentaristi dei due autori. Poi, l’ordine sociale e morale, i modelli prestabiliti prendono il sopravvento come buoni e giusti e King Kong soccombe, mentre l’Empire ha soltanto qualche vetro rotto.
Jackson, al contrario, abbandona tale scrupolo, rendendo da subito gli autoctoni “un’angosciosa popolazione cavernicola nera e nuda, spettinata e senza pupille” – come la descrive Natalia Aspesi su la Repubblica – ma si ha poi la sensazione che l’abbattimento di Kong sia una vittoria tanto scontata quanto inutile: la civiltà occidentale tende a distruggere tutto quello che non s’incasella nel suo ordito. Al punto di non saper creare un punto di contatto con ciò che sta al di fuori, che si presenta come alieno.
Nel film del ’33, in tutte le scene con lo scimmione, la povera Fay Wray strilla in continuazione. Peter Jackson, invece, instaura una forma di comunicazione fra il bestione e Ann Darrow, tanto è vero che Naomi Watts danza per lui, scherza per lui, parla con lui. E lui la protegge, la comprende, se ne innamora. Ricambiato prima dalla cattività e poi dai proiettili.Una morale, assai poco consolatoria e lusinghiera per la nostra cultura, sta nell’antico proverbio arabo che compare all’inizio del film di Cooper e Shoedsack: “E la bestia guardò in volto la bella. E trattenne la propria mano dall’ucciderla. E da quel giorno la bestia fu come morta.”
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