La Fabbrica di cioccolato, etichettato dai più come film “per ragazzi”, riserva molte sorprese e non fatica ad accogliere consensi anche tra il pubblico meno giovane. Punto di forza della pellicola è la prorompente espressività, trasmessa con grande cura e attenzione per i dettagli, attraverso una sezione musicale stupefacente e un apparato visivo di forme e colori impressionante.
Sin dall'inizio, infatti, è impossibile non farsi rapire dalle note della colonna sonora, che aprono la strada alla prima di molte scene decisamente spettacolari, una specie di prologo in cui viene presentata la misteriosa Fabbrica di Willy Wonka, l'eccentrico proprietario magistralmente interpretato da Johnny Depp.
Charlie (Freddie Highmore), il prototipo del bravo ragazzo, vive con la sua povera (ma felice!) famiglia ai margini della società. Il suo sogno è quello di visitare la fabbrica del cioccolato, chiusa da anni ai contatti con l'esterno.
L'annuncio che cinque fortunati bambini potranno visitarla dopo anni di isolamento, se troveranno il biglietto dorato dentro l’involucro delle tavolette di cioccolato, dà il via a una serie di situazioni esilaranti e spettacolari in cui il regista Tim Burton ci presenta personaggi tra lo stereotipato e l'assurdo.
Tra questi spiccano soprattutto gli Umpa Lumpa e i primi quattro vincitori del leggendario "golden ticket": quattro perfidi bambini che si incontreranno proprio con il buon Charlie nella fabbrica, parenti al seguito, per visitarla guidati da Willy Wonka che ha promesso un misterioso premio.
La storia non riserva grosse sorprese, anzi è facile prevedere cosa accadrà dopo. Tuttavia l'aspetto formale supplisce abbondantemente laddove c’è qualche caduta di tono e attenzione. Nel complesso non ci sono momenti di stanca e il film scorre senza intoppi, tra un flashback e l'altro, dall'inizio alla fine. Il buonismo apparente viene stemperato da diversi elementi caratterizzanti, cupi e ironici, propri di Burton, miscelati senza sbilanciarsi troppo.
Forse il pregio-difetto maggiore dell'opera è proprio questo: proporsi a diversi target di spettatori, piccoli e grandi, per non scontentare (ma neppure entusiasmare) l'uno o l'altro. Del resto, se si accetta lo stile di Burton, lo si deve fare per intero: quelle che appaiono come mancanze possono essere interpretate senza troppe forzature come il frutto di un ragionamento preciso, finalizzato a un ben meditato risultato.
I flashback sul passato di Willy Wonka, per esempio, soddisfano “quanto basta” un buco narrativo da riempire, ma non vanno oltre; il finale apparentemente buonista lascia parimenti interdetti, ma non si può negare che queste e altre scelte (l'assenza di un certo personaggio nel finale, i rapporti sorprendentemente mancanti tra il nonno di Charlie e Willy Wonka, l'ambiguità di quest’ultimo) fanno sì che lo spettatore non si limiti a subire passivamente i colori, le musiche e le spettacolari coreografie, ma si possa porre alcuni interrogativi che vanno oltre la prevedibilità della storia e del finale.
La firma di Burton, insomma, è nascosta dietro un colorato intrattenimento di indubbia qualità, ma è presente.
Il suo particolare espressionismo trova qui sintesi e continuazione, seguendo da un lato la strada già percorsa con le sue precedenti opere (ritroviamo la tristezza noir di Edward mani di Forbice, i paesaggi oscuri di Sleepy Hollow e i deliri di Mars Attacks), dall'altro componendo ex-novo un universo dark-fiabesco, gotico e pop, dai confini sfumati e inafferrabili, un mondo "burtoniano” che riesce a mantenere una sua identità inconfondibile nonostante le innumerevoli contaminazioni e fonti d'ispirazione
In definitiva, se “un film sta negli occhi di chi lo vede”, questo è più valido che mai per La fabbrica di cioccolato. Come per le mitiche tavolette made by Willy Wonka, ce n'è per tutti i gusti.
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