Lì, da qualche parte ad aspettarli o a rimandare l’appuntamento.
- Una guerra da fare schifo - sentenziò un altro, le mani scheletriche e secche più della legna che ardeva - eppure dobbiamo pur difenderci.
- Loro dicono che ci stiamo appropriando di tutto - disse il calvo - che non possiamo rivendicare alcun diritto sullo sfruttamento delle miniere della Conca Maggiore. E’ solo perché la vogliono loro. Hanno paura di non essere più i dominatori. Bastardi.
Il gufo se ne andò.
Il barbuto lo fissò, poi disse: - Dicono che sappiano comunicare con gli animali e con gli alberi, perfino con le pietre. Io non ho mai capito se sono leggende o se è vero.
- Siamo in guerra e io non capisco più nulla. - Il soldato dalle mani scheletriche ostentava calma ma era agitato nell’intimo. - Quando sei in guerra sei in guerra e basta. Non sei più uomo o donna, sei solo un essere che è in guerra con qualcuno; e non puoi nemmeno pensare dove sia la linea che divide le cose, fai passi indietro, anche piccolissimi, per ricostruire i fatti, e non ti riesce di capire come cazzo sei finito qui, chi è il buono e chi è il cattivo, ognuno ha le sue sacrosante ragioni che valgono più di quelle del nemico, ognuno ha bisogno di uccidere l’altro per potere vivere... se c’è troppa vita l’equilibrio non regge... e non ci sono più ragioni, nessuno mi dica che esiste una qualsiasi porca ragione che valga questo schifo. C’è la guerra e basta. E bisogna combatterla fino in fondo...
- Le ragioni... - una voce emerse dalla sagoma nera di un loro compagno rimasto in silenzio fino a quel momento. - non ci sono più le persone che hanno le loro ragioni, i motivi, ormai non decide più nessuno... è una molle pasta appiccicosa che sta tra la gente e non sapresti nemmeno a chi dare la colpa... chi ha deciso? O ci siamo creati un destino che adesso ci domina? E non sappiamo nemmeno che non riusciamo a liberarci da qualcosa che ci è imposto... ma da chi?
L’elfo, da lontano, li vedeva. Uno sguardo che è una freccia nell’oscurità.
E li sentiva.
Ed è come uno spicchio di sole luminoso quella palla di miliardi di anni di fuoco, poi una falce rossa-rosa-arancio che avanza da dietro la linea delle case fino nei rimasugli di spazio tra le foglie, fin dentro le cortecce degli alberi - è un’alba familiare, conosciuta, quasi monotona, di un giorno familiare, conosciuto, quasi monotono, eppure un’alba tutta nuova, di un giorno tutto nuovo e che per alcuni potrebbe essere proprio quel giorno, la mattina sconosciuta e sconfinata di un incontro come se fosse la prima volta, di una rivelazione, di una nascita o di una morte - e prosegue così, come uno sguardo languido sui cespugli, le bacche e la vita di innumerevoli insetti, a scaldare quelle ore e quei moti (quelle ore che altro non sono che posizioni solari e ombre proiettate e zenit e raggi caldi sulla nuca bollente), ad ascoltare il rumore della vita nascosta in quelle pieghe di terra e di erba, quando, senza nemmeno la possibilità di accorgersene, quel sole si muove, quell’occhio che sembrerebbe proprio un occhio se non fosse per il fatto che se ne sta sempre aperto, e poi d’improvviso è una nuvola poi un’altra e un’altra ancora e succede che quell’occhio comincia a socchiudersi, a velarsi, a farsi opaco e sparire e piangere e la pioggia che scende, che scroscia e fruscia - una pioggia fatta di miliardi di gocce di acqua vecchia senza età, di gocce tutte uguali, ma chissà che non sia proprio una di quelle gocce la goccia, che vengono giù ognuna col suo suono ed è un suono diverso per ogni cosa e ogni superficie, la terra argillosa, la ghiaia, i rovi, il prato fiorito, ogni singolo fiore e petalo, il sentiero, la legna, la pietra liscia, la pietra porosa la stoffa la frutta matura la frutta acerba la frutta marcia caduta i rami i sugheri le pecore lanose i lupi gli scarafaggi i nidi le rondini i tetti gli orti i pomodori ed è un concerto che a volerlo ascoltare ci si perderebbe dentro stravolti dai suoni col volto contorto - una pioggia che è un attimo, come i lampi che strappano il cielo ma dietro c’è ancora cielo e uno nemmeno se ne era accorto, ma quando le nuvole vanno via quella palla di miliardi di anni di fuoco, quell’arancia dalla buccia liscia è già un ciglio che piano piano si chiude, non per il sonno ma per il desiderio del troppo sognare, e sogna di nuovo, come l’inizio, una sfumatura rosso-rosa-arancione, solo che questa volta non è l’inizio ma la fine e uno nemmeno se ne era accorto che l’alba luminosa come un sole non c’è più e quel socchiudersi per sognare è strano, ha il profumo frizzante di un mondo bagnato da poco, come dormire con un occhio chiuso e uno aperto, e uno nemmeno se ne era accorto, forse, che è venuta ad avvolgerlo, forse proprio per lui o nonostante lui, che tutto è scivolato veloce senza sembrarlo, ed è lì, e uno nemmeno se ne era accorto, immensa e densa propensa melensa sopra quello che prima era illuminato
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