la notte.
Era abituato a stare appostato, ad attendere per ore e ore, anche giornate, se necessario. Era solo in quei momenti. Solo. Lui e il suo arco. Lui, il suo arco e i suoi pensieri. Lui il suo arco i suoi pensieri i gufi le radici delle querce gli animali notturni e i profumi.
Una strana forma di solitudine.
E a volte pensava che sarebbe stato bello rimanere per sempre soli a quel modo, senza mai dovere lasciare la presa sull’arco e scoccare la freccia, soli per un attimo - ma in quella solitudine un attimo poteva dilatarsi e allungarsi, manipolato dai rumori dai profumi dai colori e gusti e riverberi che ti colpivano nell’anima - o per un’eternità - ma in quella solitudine l’eternità smetteva di essere l’eternità, per divenire un’eternità, una fra tante e, quindi, di nuovo un attimo - senza una parola. Tutto sarebbe stato un gesto, gesto evidente e chiaro, gesto vivo. E allora non avrebbe avuto senso parlare del destino, di padroni e di società di dominio. Perché tutto sarebbe stato chiaro. E imprevedibile. E assurdo. E pazzo. E bellissimo. E intenso. E presente. E dentro. E fuori. E vivo.
Una strana forma di solitudine.
Sarebbe stato bello rimanere per sempre soli a quel modo.
Posò l’arco per terra.
E uno nemmeno se ne era accorto. Ed è di nuovo l’alba.
L’arco per terra. Si spogliò. Entrò nell’acqua quasi gelida del fiume. Nel punto più calmo. L’arco per terra, vicino alla riva. Si immerse completamente, con gli occhi aperti. Per un attimo fu tutto blu-verdognolo e ovattato silenzio. Riemerse e fece qualche passo. L’acqua gli lambiva le cosce. Sembrava seta: concreta e inesistente.
All’inizio fu un fruscio tra i cespugli e i rami spinosi, un procedere incerto; all’inizio fu così.
Poi il sospiro della liberazione; poi fu così.
Infine lo stupore; poi fu così.
Non se lo sarebbe mai aspettata, uscire da quel groviglio - non si era nemmeno accorta di avere abbandonato il sentiero principale, quello che era solita fare, quello che portava dagli altri, le era parso di avere fatto solo qualche passo verso la lepre che subito era guizzata come un pesce nel mare verde di foglie, e sembrava facile orientarsi e, invece, c’era voluto più del previsto - uscire da quel groviglio e vederlo lì, una seconda volta - per lei era la prima, ma aveva la vaga e confusa sensazione che non fosse la prima - bellissimo, con quella pelle olivastra, i capelli grigi-blu che parevano emanare una soffusa luminosità azzurrognola sotto il primo sole, le labbra sottili eppure tanto belle, e le pareva di sentire il suo profumo, di pelle di muschio e di acqua e di sole e di corpo scintillante di acqua e sole, ed era bellissimo, lì, nudo col corpo tonico e magro, pareva un giovane arbusto vigoroso e silenzioso. Ed era bellissimo, impossibile non amarlo, perfino gli alberi lo avrebbero amato - e lo amavano, una cosa era certa, lo amavano - e lei stava lì e lo contemplava e il suo sguardo era già amore e il suo stare immobile era già amore e lei era già amore; e non aveva detto alcuna parola.
Giovane arbusto vigoroso e silenzioso. Nudo. Scintillante di acqua e di sole.
Tutto era gesto. Gesto evidente e chiaro. Gesto vivo.
La guardava. Immobile. (Lo guardava. Immobile).
Due sguardi. E ci doveva essere un punto, in quelle due linee visive che partivano da uno all’altra, da una all’altro, in senso opposto, ci doveva essere un punto, in cui quelle due linee dovevano incontrarsi, abbracciarsi in un fugace momento prima di lasciarsi con una lieve carezza per posarsi sulla pelle e chiara e olivastra, pelli sopraffine, pelli di profumi e di sogni; ci doveva essere quel punto silenzioso e invisibile, quel groviglio di forze e attrazioni. Lì era già l’amore.
La guardava. Immobile. E avrebbe potuto dire mille parole e non le disse, non le voleva dire. In quel silenzio dove entrambi respiravano la stessa aria, così vicina, in cui erano immersi come in un lieve soffio poco invadente, che lambisce appena le forme, modesto e delicato. In quel silenzio c’era tutto e niente, tutto l’indicibile e miliardi di cose da dire. Ma non disse nulla: perché era bello starsene lì, con l’acqua che lievemente gli si asciugava sul corpo, con gli occhi di lei che lo toccavano ovunque - li sentiva addosso, sì, poteva sentirli scorrere sui suoi muscoli snelli - e lei che era bellissima in piedi così, col fiatone che pian piano svaniva - ma prima o poi avrebbe dovuto dire una parola, almeno una - e le ciocche di capelli neri fuori posto e ogni capello era un sentiero sconosciuto - e l’incantesimo sarebbe finito, l’attimo rotto, l’attimo dilungato e deforme ritornato attimo fugace - le labbra che disegnavano l’arco di un sorriso incerto se nascere se non nascere se nascere e morire un secondo dopo - e l’amore che era lì, evidente e vissuto, che era in ogni loro gesto, nel loro contemplarsi immobili, sarebbe divenuto amore detto, cantato o ricordato - e avrebbe dovuto dire almeno una parola
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