Il monte Aquila, era quella la sua meta. La montagna della leggenda, la montagna nelle cui viscere regnava So, il Grande Veggente. Questo, almeno, affermavano le vecchie storie del popolo Drove, i racconti che gli anziani rinverdivano attorno ai fuochi nelle serate di quiete atmosferica.Nina si era chiesta molte volte quanta parte di verità contenessero quelle dicerie, e se avesse davvero senso rincorrere una fola. E aveva deciso che sì, ne valeva la pena. Se non altro per allontanarsi da quella vita insulsa che le offriva la comunità, una vita spesa nella monotonia di un nomadismo senza scopo. Sentiva che non doveva consumarla tutta così, la sua esistenza; avvertiva la necessità di modificare il corso del proprio destino, di costruirsi un futuro separato dalla comunità, le cui attività si esaurivano nell’impegno sterile di costruire e smontare ripari catramati per uomini e bestie, mungere capre oppure festeggiare, in orge sguaiate, l’ammazzamento di un maiale.
No, il programma non l’attirava per niente, soprattutto se considerava che quelle attività costituivano l’intermezzo più tranquillo tra fughe e ritirate strategiche, necessarie a eludere le spedizioni punitive del Governatorato. E non l’attirava la contropartita: al momento opportuno, secondo gli usi, suo padre le avrebbe organizzato una fastosa cerimonia nuziale con un capelluto drove odoroso di formaggio, buon partito, muscoloso proprietario di un gregge o di un porcile.
E poi c’era quel sogno ricorrente. Nina ne aveva vissuto molte volte l’atmosfera rarefatta e le tinte innaturali. Le accadeva solitamente nelle notti più turbolente, quando allo scrosciare della pioggia si aggiungevano il fragore dei tuoni e lo schianto degli alberi abbattuti dalle folgori. Nel sogno, si scopriva rinchiusa in una campana di vetro, all’interno della quale sfrecciavano vermi di luce, forme sinuose e policrome che si rincorrevano e si aggregavano in bozzoli pulsanti, grovigli striscianti di colore dalle sfumature sconosciute. La visione, che non era corredata da suoni, attraversava i sonni della ragazza con la rapidità di un lampo. E questo era tutto. Eccetto che, al risveglio, nella testa di Nina sopravviveva l’eco di una voce tuonante: hai conosciuto i colori di So... i colori della mente di So.
Per questo, per tutto questo aveva deciso di fuggire e di avventurarsi fra i monti sulle tracce del Grande Veggente, pur consapevole che il salto, una volta spiccato, sarebbe stato decisivo e non rimediabile: a diserzione avvenuta, suo padre, sua madre Annah e le altre due mogli di Nayumi non l’avrebbero più accettata. A nessuna condizione. E quand’anche avesse scoperto che So, il Grande Veggente, non era mai stato nient’altro che una leggenda, avrebbe cercato ugualmente il proprio futuro lontano dai monti, a Mediterranea o in un’altra megalopoli.
Non ci furono rovesci, e Nina attraversò il canalone senza particolari difficoltà. Correndo, percorse la diagonale di uno spiazzo circolare e affrontò la pendice della piccola altura che faceva da tappo al canalone successivo. Ne raggiunse la sommità e, una volta ancora, si fermò per guardarsi indietro. Il momento era importante, decisivo. Quell’altura costituiva lo spartiacque fra le montagne conosciute e quelle ignote: ancora un passo e, secondo un meccanismo mentale che al gesto attribuiva valore altamente simbolico, la sua azione notturna da semplice tentativo di fuga avrebbe assunto tutti i crismi di una vera diserzione. Nina lo fece, quel passo, si riempì i polmoni e lo fece. E ce ne fu un secondo e un terzo, fin quando la marcia, aiutata dalla pendenza, ritornò spedita.
Il nuovo canalone si presentava sicuramente più buio e claustrofobico del precedente, ma la ragazza vi si addentrò con decisione, allungando la falcata. Così, quando la massa umana l’investì, lei perse l’equilibrio, e rovinò sulle foglie bucherellate di un cespuglio. Il casco, un po' largo per la sua testa, si sfilò e rotolò via, liberando la folta capigliatura.
Nonostante il buio e l’intontimento riconobbe subito l’assalitore. Lo riconobbe dal tanfo, un miscuglio acre di sudore e formaggio di capra. Gesio, senza aspettare che lei si riprendesse, le immobilizzò braccia e gambe, schiacciandola con il peso del corpo muscoloso. Quando la lingua bavosa del drove iniziò a lavarle il collo, la ragazza rabbrividì per lo schifo e tentò di divincolarsi.
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