Rapidamente, anche se più goffamente dei romani, gli jurchen si erano spostati sulla sinistra dei soldati che vedevano avanzare. – Li hanno avvistati! – urlò Argyros. – Gregorio, corri da Tekmanios più veloce che puoi!

L’esploratore si lanciò sul suo cavallo al galoppo, ma la battaglia scoppiò prima che potesse raggiungere il generale. Le divisioni nascoste non riuscirono a organizzare l’attacco: colte alla sprovvista, poterono solo lottare strenuamente per difendersi.

Per nulla scoraggiato, Tekmanios cercò si cogliere di sorpresa i nomadi facendo avanzare l’ala sinistra, ma pareva quasi che il khan dei nemici riuscisse a leggergli nel pensiero, perché la sua manovra fu bloccata prima ancora di iniziare. I nomadi non erano più numerosi di loro, ma riuscivano a captare qualsiasi cambiamento tattico non appena Tekmanios lo decideva.

Nel clangore della battaglia si distinse il suono di un corno: l’ordine della ritirata. Si trattava sempre di una manovra delicata, perché occorreva evitare il panico e il caos, e in quell’occasione il pericolo era accresciuto dai nomadi, che inseguivano i romani per sconfiggerli definitivamente.

Tekmanios dimostrò tutta la sua abilità, anche se ormai non importava più che le sue mosse non fossero indovinate. Le truppe, resesi conto che la loro unica salvezza era nel creare un gruppo compatto, gli obbedirono più prontamente di quanto avrebbero fatto in caso di vittoria. L’avanguardia era isolata dal resto dell’esercito e Argyros dovette costeggiare il fiume per ritrovare la strada.

Insieme ai suoi uomini fu il primo a raggiungere l’accampamento, dove venne immediatamente circondato dai soldati rimasti di guardia, smaniosi si conoscere l’esito della battaglia. Nell’udire quelle cattive notizie, fu subito loro chiaro cosa dovessero fare: aggiogarono i buoi ai carri e li disposero intorno al campo come barricata.

Non avevano ancora terminato quando sopraggiunse l’esercito, incalzato dagli jurchen. Diversi animali vennero colpiti e fu necessario abbatterli a colpi d’ascia per evitare che rovesciassero i carri negli spasmi dell’agonia.

I Romani fecero ritorno nell’accampamento a piccoli gruppi, passando attraverso quattro brecce nascoste fra le trincee. I nemici continuarono a colpire e a scoccare frecce fino all’alba, quindi, alla prima luce del giorno, sferrarono l’attacco finale, che fu però prontamente respinto dagli arcieri romani. Ne seguì che i nomadi si portarono fuori tiro e dettero inizio all’assedio.

La sconfitta subita e la notte insonne avevano abbattuto il morale delle truppe, ma Andreas Hermoniakos fece notare che la loro era ormai una posizione vantaggiosa. – Il nostro accampamento è vicino al fiume e nei carri abbiamo scorte per almeno una settimana. Loro cosa mangeranno?

Rammentando la proverbiale sporcizia dei nomadi, qualcuno gridò: – Pidocchi!

Il comandante generale ridacchiò. – Anche se così fosse, tra un paio di giorni dovranno fare ritorno alle loro greggi, se non vogliono morire di fame.

La sua previsione risultò esatta. Non appena il ritiro dei nemici venne confermato, Tekmanios convocò il consiglio degli ufficiali per stabilire le mosse successive.

– Non tollero l’idea di fare ritorno al Danubio a testa bassa, ma sembrava proprio che gli jurchen avessero l’orecchio incollato alla mia bocca quando impartivo gli ordini. Un’altra battaglia come quella e non ci sarà più neppure l’esercito da riportare oltre il Danubio.

– Mi domando come abbiano fatto – mormorò Costantino Doukas. Era stato lui a guidare l’ala che avrebbe dovuto distrarre i nemici. – A meno che il diavolo in persona non abbia rivelato loro le nostre mosse.

Hermoniakos lo guardò con asprezza. – Certuni accusano il diavolo delle proprie mancanze.

Doukas arrossì per l’ira. In qualsiasi altra situazione, Argyros si sarebbe schierato dalla parte del comandante, ma questa volta alzò la mano e attese il permesso di prendere la parola. Tekmanios domandò: – Cosa c’è, Basil?

– Si fa sempre un gran parlare del diavolo, ma credo che in questa circostanza sua eccellenza il signor Doukas abbia ragione. – Hermoniakos, generalmente ben disposto nei suoi confronti, gli lanciò uno sguardo di riprovazione. Senza scomporsi, Argyros parlò del tubo che aveva visto in mano al vecchio jurchen e concluse dicendo: – Per prima cosa ho pensato che ci fosse di mezzo il malocchio.

– Stupidaggini! – esclamò uno dei comandanti di reggimento. – Come avrebbero potuto colpirci con simili incantesimi dopo la benedizione del sacerdote? Dio non l’avrebbe permesso!

– Dio segue i suoi piani, non i nostri – lo rimproverò Tekmanios. – Siamo tutti peccatori e forse le nostre preghiere non sono bastate a cancellare la nostra malvagità.

– Io credo che si tratti di magia – replicò Doukas. – Se non riusciamo a capire cosa sia, i barbari la useranno ancora contro l’impero.

– Se invece ci riusciamo – aggiunse Tekmanios, – il sacerdote potrà esorcizzarla.

Il generale e gli ufficiali si voltarono verso Argyros, facendogli così capire cosa si aspettavano da lui. Argyros si pentì di non aver avuto il buon senso di stare zitto.

– Miserabile vigliacco! – urlò Hermoniakos la mattina seguente, quando Argyros gli si presentò davanti. – Peggio per te se non obbedirai agli ordini del tuo generale!

– No, signore – rispose il comandante degli esploratori, indifferente alla piccola folla che gli si stava avvicinando,– sarebbe peggio se obbedissi, perché il suicidio è un peccato mortale. Preferisco sopportare l’ira del mio signore Tekmanios su questa terra piuttosto che soffrire all’inferno per l’eternità.

– Allora è così che la pensi? Per tutti i santi, se ti rifiuti di fare il tuo dovere, non meriti il tuo grado. Nominerò un nuovo comandante per la tua guardia e di farò degradare a soldato semplice.

Argyros salutò, rigido. Hermoniakos lo guardò a lungo, stringendo i pugni. – Sparisci – disse infine. – Ti salvo dalle frustate solo per il ricordo del tuo valoroso passato.

Argyros salutò nuovamente e se ne andò, facendosi strada tra due file di soldati che si scostavano al suo passaggio. Alcuni lo fissavano, altri si voltavano altrove, uno gli sputò addosso.

Completamente indifferente, Basil montò a cavallo e si diresse verso la tenda di Giustino di Tarsos, il suo ex aiutante, che certo aveva ricevuto l’ordine di sostituirlo.

Vedendolo arrivare, Giustino arrossì e il suo imbarazzo si accrebbe ulteriormente quando Argyros lo salutò. – Quali ordini avete per me, signore? – chiese Basil, rassegnato.