Un mese fa moriva Robert Jordan. Il 16 settembre, dopo una dura battaglia contro l’amilodosi, il suo cuore debilitato dalla febbre aveva smesso di battere.

La notizia, comunicata ai fan da suo cugino Wilson tramite il blog dello stesso Jordan, aveva immediatamente fatto il giro del mondo.

 

Qualche giorno dopo Jason Denzel, fondatore e webmaster di dragonmount.com, il sito che ospita il blog, ha confessato pubblicamente un comprensibile disappunto per la scomparsa dell’autore prima del completamento della sua saga. Ma, accanto a questo forse non nobilissimo ma umano sentimento, ha fornito un sentito resoconto dell’impatto della sua morte. A partire dalla reazione degli utenti, talmente desiderosi di ricevere informazioni da far aumentare il numero di accessi al sito rispetto alla norma del 300 per 100.

 

Curiosità di sapere ciò che era avvenuto, certo. Voglia, magari senza troppa speranza, di trovare una smentita a una notizia forse sentita per caso, di seconda mano. E disappunto nel sapere che Robert non potrà più scrivere nulla, non potrà più portare a compimento la sua monumentale opera.

Ma accanto a tutto questo c’era un sentimento forte, legato non allo scrittore ma all’uomo. Perché, per tutti coloro che avevano avuto modo d’incontrarlo, o di leggere le sue parole nel blog, Robert Jordan non era solo una firma in calce a dei libri.

 

James Oliver Rigney Jr, è questo il suo vero nome, amava incontrare il suo pubblico. Da ragazzino aveva vissuto le convention dalla parte di chi desiderava parlare con un autore tanto amato e, divenuto adulto e “passato dall’altra parte”, non aveva perso il gusto per questo genere d’incontri.

Anche durante il tour in Italia del maggio 2004, la sua energia e la sua disponibilità sembravano inesauribili. Torino, Milano, Pavia, Brescia, Roma. Una città dietro l’altra, nell’arco di pochi giorni. Forse anche le stesse domande, come quella sul numero complessivo di libri che avrebbero composto la saga, ripetute da volti sempre nuovi.

E lui paziente, sorridente, a raccontare i progetti futuri e i lavori passati. A chiacchierare con i lettori, incurante del trascorrere del tempo, per rimanere più a lungo con chi proprio non voleva vederlo andar via. E a scherzare su tutto.

Su Harriet, sua moglie, sempre presente al suo fianco. Si divertiva a raccontare di aver inserito in ciascuna delle donne presenti nei suoi romanzi almeno una caratteristica di Harriet. Poteva essere fisica, intellettuale, o anche solo legata ad un’abitudine, ma qualcosa di lei c’era in ciascuna di loro. Ma cosa, non lo avrebbe mai rivelato a nessuno, neanche sotto tortura. E sua moglie da anni stava diventando matta nel tentativo di ritrovare le tracce di sé in Egwene come in Aviendha o in Faile.

Salvo poi riconoscerne l’importanza anche per il suo stesso lavoro. Parlando delle piccole illustrazioni che aprono ogni capitolo, ha raccontato che sono opera di un artista, Mattew C. Nielsen, che le eseguiva su indicazione di entrambi. Ma, per quanto riguardava l’abbinamento fra immagine e capitolo, la scelta era sempre opera di Harriet. Lui, affermava, sarebbe stato molto più banale e prevedibile.

Allo stesso modo, scherzava sulla sua morte. In diverse convention aveva dichiarato di formattare il suo hard disk diverse volte al giorno, in modo da impedire il completamento della saga nel caso di una sua prematura scomparsa. E i fan ricambiavano la cortesia minacciando, in quel caso, di andare a disseppellire le sue ossa nel tentativo di ottenere il finale.

Parole, queste, dette per quel gusto goliardico che ha sempre fatto parte dell’uomo prima che dello scrittore. Tanto è vero che dopo la scoperta della malattia ha dedicato tutte le sue energie alla stesura del volume conclusivo della saga. E, per maggior sicurezza, ha lasciato quaderni di appunti, audiocassette in cui racconta in maniera abbastanza dettagliata ciò che dovrà avvenire in A Memory of Light, dodicesimo e ultimo romanzo de La Ruota del Tempo, e un lungo racconto fatto proprio ad Harriet e a Wilson.

 

Per Jordan la preoccupazione per la sua opera e per i suoi lettori veniva prima di tutto il resto. Più volte ha ripetuto quanto fosse fiero di aver toccato, con le sue parole, la vita di milioni di persone. Così come ha continuato a ripetere, in questi ultimi mesi, che non intendeva lasciare la saga senza quella conclusione che lui ha sempre conosciuto, fin dal primo momento in cui ha iniziato a scrivere di Rand al’Thor e dei suoi amici. E che, anche dopo aver finito quest’ultimo libro, aveva ancora troppe storie da raccontare per potersi permettere di morire.

Con incrollabile ottimismo ha sempre parlato della malattia, delle diagnosi mediche e delle aspettative di vita, dichiarando che con la volontà si può sconfiggere tutto e che contava di lavorare ancora per almeno altri trent’anni.

A questa promessa, Robert, malgrado tutta la sua volontà, non ha potuto tener fede.

 

Jason è stato invitato dalla famiglia Rigney al funerale, in rappresentanza dell’affetto dello scrittore per quei milioni di fan che non hanno potuto essere presenti. Al suo ritorno ha pubblicato sul blog un lungo testo in cui parla dell’accoglienza ricevuta e racconta la cerimonia. All’interno del brano vi sono alcune righe molto significative che riassumono l’intera esperienza: “Sono andato a Charleston per il funerale di Robert Jordan, cogliendo l’opportunità di dire addio a un autore molto amato. Ciò che ho trovato dopo tre giorni trascorsi con la sua famiglia e i suoi amici è molto più di quanto avrei mai immaginato. Mi è stata donata l’opportunità di conoscere molte cose sull’uomo di nome Jim Rigney, una persona molto più affascinante di quanto Robert Jordan avrebbe mai potuto essere.”

La nostra Chiara Codecà ha incontrato Jordan in occasione del giro che aveva fatto in Italia per presentare il suo ultimo libro, due anni fa. Venne anche a Pavia, e Chiara ebbe occasione di cenare con lui e intervistarlo http://www.fantasymagazine.it/interviste/5255/.

Lo ricorda come una persona molto pacata e gentile ma sorprendente, perché l'aria tranquilla nascondeva un senso dell'umorismo pungente. Aveva ricevuto una croce di bronzo al valor militare in Vietnam per aver portato via dalla prima linea un compagno ferito.

Proprio per ricordare la memoria dell’uomo uno dei siti più importanti dedicati a La Ruota del Tempo, ageoflegends.net, ha deciso di organizzare alcuni raduni di fan in una data il più vicina possibile al 17 ottobre. Oggi, infatti, se fosse stato vivo, Jordan avrebbe compiuto 59 anni.

Atlanta, Dallas, Londra, Denver, Washington, Las Vegas, San Louis, San Jose: in tutte queste città si sono riuniti, o si riuniranno, persone che hanno sognato grazie a lui. Che hanno tremato, hanno sperato, e che in qualche modo sono stati toccati dalla sua arte, per condividere i loro ricordi e le loro esperienze.

 

Sempre Jason racconta che, così come aveva sentito di stringere la mano a Perrin, Mat, Elayne e a tutti gli altri la prima volta che aveva stretto quella dello scrittore, altrettanto temeva di vederli cremare insieme a lui. Cosa che non si è verificata, perché Jordan ha dato vita a questi personaggi, e ormai loro sono vivi. Sono dentro chiunque abbia letto i suoi romanzi, e possiedono la magica capacità di unire i lettori a un livello profondo.

 

Per ricordare Robert Jordan e la sua opera a breve FantasyMagazine inizierà la pubblicazione di una serie di approfondimenti dedicati alla Ruota del Tempo e al suo creatore.

Per il momento vi lasciamo con una frase dedicata da Jordan a Rand, e presente sul libretto della sua cerimonia funebre:

 

“È venuto come il vento. Come il vento ha toccato ogni cosa, e come il vento è sparito.”