A quest’ultimo proposito si inserisce allora il discorso sul fenomeno di desolante pochezza accennato poco fa e che vale la pena approfondire unicamente come oggetto di studio sociologico. Si tratta infatti di un'operazione sterile e rancorosa, che sta prendendo piede 'grazie' a qualche manciata di solerti blogger e/o commentatori di blogger e di cui si può fruire ampiamente anche nei commenti al pezzo della signora Lipperini (http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2008/06/26/oh-mamma/#comments): è l’analisi speciosa dei libri di fantasy nostrano, soprattutto esordiente, condotta frase per frase, alla caccia ossessiva di errori e sviste e accompagnata da una comparazione sul “com’è [orrido] questo pezzo e come dovrebbe invece essere [naturalmente secondo la mia indiscutibile autorità di aspirante critico letterario con all’attivo la lettura di un paio di manuali e tanta tanta prosopopea]". Un’opera di minuzia certosina che evidentemente regala ai suoi autori le appaganti  sensazioni di potersi finalmente calare nei quasi leggendari panni di Bartolo o Irnerio, benché i testi su cui viene compiuta ‘l’esegesi’ non vengano certo riguardati col medesimo reverenziale rispetto riservato da quei sapienti di fronte al corpus iuris.

Ebbene, trapiantare operazioni (pseudo) filologiche su questi libri non ha assolutamente senso, e non a caso infatti l'opera filologica si conduce sui giganti della letteratura. Che peraltro, in alcuni casi, non sono stati campioni, loro stessi, di congruenza (si veda Omero, benché sia ampiamente dibattuto se tale figura sia storicamente esistita e se i suoi poemi non siano in realtà frutto di accorpamento di più versioni a opera di varie mani, il che speigherebbe molte 'sviste'). E ancora, non a caso si tratta di operazione che va lasciata agli esperti, che hanno la preparazione e la malizia di distinguere ciò che è superfluo da ciò che non lo è, ciò che è importante da ciò che può essere tralasciato. Altrimenti qualsiasi studentello di seconda liceo si dovrebbe sentire autorizzato a paragonarsi ad Albin Lesky, solo perché ha studiato un po' di grammatica e letteratura greca e in virtù di ciò si sente due spanne più su rispetto al coetaneo che sta frequentando l'istituto tecnico. 

Emblematico, a tal proposito, lo scambio di post fra due commentatori in calce all’intervento della Lipperini e che trae spunto da una contestazione mossa, sempre via post, al romanzo di Chiara Strazzulla, ossia che una locanda non possa verosimilmente servire birra gelata in una foresta come quella descritta perché sarebbe impossibile l’approvvigionamento del ghiaccio (approvvigionamento che, si badi, potrebbe essere spiegato benissimo inventandosi mille soluzioni magiche, ma insistiamo pure a spaccare il capello in quattro e invischiamoci nella querelle di fondamentale importanza esistenziale).

Di fronte a tale ‘accusa’ di incongruenza, il lettore che si firma  Aldo nota, giustamente:

"Ma in un romanzo posso nominare una candela senza dover spiegare come si otteneva e lavorava la cera. Penso che per una bevanda fredda valga la stessa cosa. Altrimenti un libro diventa illeggibile, se ogni volta l’autore deve spiegare tutto. Non è più narrativa".

Ribatte granitico il lettore che si firma Francesco e che concorda invece col rilievo della birra:

"Se le candele le fanno in un monastero sulla punta dell’Everest, oh, come devi spiegarmelo. Se anche c’è un modo ovvio io, lettore, non lo so e non sono tenuto a saperlo. In un mainstream, forse, puoi evitare di spiegarlo. In un fantasy no, perché ‘fa’ il mondo. E’ il genere, baby!"

Già perché, aggiungiamo noi in questa sede, il mainstream è invece ambientato, notoriamente, nel vuoto pneumatico, baby!

Applicando comunque il finissimo ragionamento di Francesco & co. a un qualsiasi libro, poniamo di avere allora una bellissima opera incentrata sulla vita del protagonista Caio, piena di profonde riflessioni sull’esistenza, provvista di dialoghi che andrebbero riportati in tutti i manuali di scrittura, con mirabili intrecci di tematiche e sottotrame, fra cui una struggente storia d’amore da commuovere i sassi. Già a pagina 20 leggiamo però che il nostro eroe, che vive a Milano, si trova un bel mattino a transitare con la sua auto per Corso Vittorio Emanuele. CRASH! La 'sospensione di incredulità' tanto sbandierata a vanvera (perché malcompresa e applicata dunque senza l'indispensabile grano salis), o meglio  la semplice ‘coerenza’ del volume (visto che qui non siamo nel filone fantastico), si squaglia miseramente come una granita in un reattore atomico, perché tutti (?!) sanno che Vittorio Emanuele è ormai zona pedonale dagli anni ’80. E la nostra storia è ambientata addirittura negli anni ’90, talché l’errore è proprio inescusabile, avendo avuto l’autore tutto i tempo per verificare preliminarmente la fondamentale questione sulla disciplina della viabilità milanese. Ah, che disgusto, come si può credere, ora, che Caio si innamori verosimilmente di Sempronia? Davvero insopportabile come prodotti editoriali così scarsi debbano circolare nelle librerie…