«Accusato di aver avvelenato la figlia di un ricco mercante, Elias l'alchimista muore tra orribili torture e atroci sofferenze. Seicento anni dopo, lo spirito inquieto di questo ambiguo personaggio grida vendetta e arriva a possedere gli abitanti di Boscoquieto, un piccolo paese di montagna. Il tutto accade sotto gli occhi di Bryan, un quattordicenne a cui è stato concesso il dono di muoversi lungo il sottile confine che separa il naturale dal soprannaturale. A Bryan e ai suoi poteri è affidato il compito di scoprire la vera personalità del malvagio alchimista e di affrontarlo in una battaglia che spalancherà le porte dell'inferno e libererà sul mondo la malvagità degli spiriti dannati come Elias.»
«Al fianco di Bryan, Morpheus, figlio di un demonio e di una donna umana, saprà iniziare il giovane mago ai misteri della Baia: l'organizzazione che, in perenne lotta con la Comunità Ribelle guidata dal potente Insorta, combatte per garantire alla Terra la necessaria protezione contro le creature delle tenebre, lugubri esseri mostruosi cacciati dagli uomini sotto la superficie del pianeta. Tra apparizioni magiche, attacchi psichici e paesaggi invisibili agli occhi dei comuni mortali, la lotta tra il Bene e il Male procede senza quartiere fino allo scontro finale.»
L’opera prima del giovanissimo Federico Ghirardi, Bryan di Boscoquieto - nella terra dei Mezzidemoni (Newton Compton Editore, 2008), è un’opera ambiziosa ma con evidenti problemi di fondo. Prima di tutto un vuoto narrativo, definibile come mancanza di esperienza nel narrare, che anche il migliore degli editor difficilmente potrà colmare. Il libro cede, qua e là, e spesso, leggendolo, ci si scontra con l’età del suo autore che emerge con prepotenza dalla pagina. Non si resta immersi nel libro, non ci è permesso fare nostre le avventure di Bryan; restiamo invece spettatori indifferenti di una serie lunghissima di eventi a volte potenzialmente piacevoli, ma che ripetuti per oltre 400 pagine finiscono solo per apparire monocromi.
I pensieri dei personaggi principali, certi cliché tipici dell’adolescenza, molti scambi di battute fra protagonista e comprimari, tutto ci ricorda che l’autore iniziò a scrivere questo romanzo a quattordici anni, e che il pubblico a cui è rivolto è quello dei ragazzini più giovani. Questo emerge con forza quando Ghirardi prova a descrivere un’emozione qualsiasi. E’ naturale voler esprimere un’emozione mentre si scrive: è questo infatti che porta una persona qualsiasi a narrare una storia, la ricerca di un’emozione da voler trasmettere agli altri. Prima ancora che la storia in se stessa, si cerca di trasmettere per mezzo di essa un’emozione che ci preme far conoscere. Scrivere di emozioni, però, è sempre problematico. Si rischia di dire piuttosto che mostrare e il lettore riesce a vedere uno scrittore insicuro che prova in tutti i modi a far capire qualcosa di importante.
È così che si cade all’improvviso nell’irreale, nel forzato, nel poco credibile. Le buone premesse del prologo e dell’inizio del primo episodio (il libro è diviso in tre corposi brani, frammentati in giornate) non vengono mantenute con coerenza per tutto il resto del volume, e inevitabilmente il romanzo finisce per assomigliare a un insieme poco omogeneo di sentimenti, sensazioni e vicende adolescenziali affastellati assieme.
È vero, l’autore ha solo diciassette anni. È vero, iniziò a scrivere quest’opera prima a quattordici. Se si dovesse stendere questa recensione tenendo conto dell’età di chi ha lavorato al romanzo si potrebbe senz’altro chiudere un occhio su certe sbavature, e viene quasi naturale perdonare certe incertezze. Ma ovviamente una recensione non deve valutare gli intenti, ma i risultati. E così andiamo a fare.
I dialoghi non sempre sono credibili e a volte per enfatizzare questi ultimi si fanno scelte narrative dettate da qualche ingenuità di troppo, come il lasciare in sospeso frasi e pensieri per tenere alta la tensione narrativa (con l’uso di un linguaggio che spesso e volentieri non si adatta a certi caratteri del libro, soprattutto se adulti). Libro che cede anche nello strutturare certi passaggi di scena, come quando nello stesso paragrafo si salta da un punto di vista all’altro, tanto da creare una certa confusione nel lettore, portato a chiedersi di chi siano i pensieri in questione e mancando così di dosare il punto di vista in terza persona multipla onnisciente.
Ci sono molte regole nella stesura di un romanzo, è vero. A volte troppe per seguirle tutte pedissequamente e con coerenza, e molti dei romanzi dati alle stampe (tutti?) presto o tardi incappano in un errore nato dall'aver mancanto una di queste regole. Altre volte sono gli autori stessi a decidere di svincolarsi da certi dettami, magari per rendersi originali. In questo caso, la scelta davvero audace di voler ignorare coscientemente la regola del "nessun cambiamento di punto di vista nel bel mezzo di una scena”, non è premiata dal risultato. A volte, non sempre, si passa dalla mente di Bryan, a quella di Gionata, a quella di Marta, a quella di Morpheus con una facilità disarmante, quando sarebbe bastato davvero poco per rendere il tutto molto più fluido e avvincente. Il punto di vista più interessante e congeniale al testo è ovviamente quello di Bryan, non seguirlo con costanza fa inevitabilmente vacillare certi passaggi in tutto il romanzo.
Infine resta una certa “irruenza” nel descriverne alcune scene, come i davvero troppi riferimenti sessuali che solo nelle prime 150 pagine a lungo andare strappano anche qualche sorriso (quando questo è evidentemente non voluto dall’autore). Erano davvero così necessari? Tutti quanti? Ci pare improbabile visto il taglio per ragazzi del volume. Senza dubbio si può ribattere che l’età in cui si scoprono certi sentimenti e pulsioni è proprio quella, e che due ragazzini tendono a comportarsi come tali, quindi che tutto nasce nel rispetto della caratterizzazione del personaggio. Forse, sì. Sottolinearlo una volta è giusto, senza dubbio. Ma risultano ben più difficili da digerire certe battute quando gli eventi nel libro iniziano a farsi davvero importanti. Inoltre ci si potrebbe anche domandare cosa avremmo pensato, tanto per fare un esempio inerente il discorso “caratterizzazione e linguaggio nei libri per ragazzi”, se ci fosse capitato di leggere di un Harry Potter dare di gomito a Ron, magari facendo certe colorite allusioni su Hermione e le sue…
Linguaggio d’oggi? Sì, è anche questo. Senza dubbio è così. Con Bryan di Boscoquieto emerge una certa figura di adolescente tipo, che fra l’altro Bryan stesso volutamente non incarna, quasi a creare da subito quell’aura da predestinato che in seguito lo caratterizza. Questo probabilmente è uno dei punti forti del libro, non lo mettiamo in dubbio: un linguaggio odierno e per nulla letterario che potrà piacere molto ai giovanissimi con poche letture alle spalle e in cerca di emozioni immediatamente digeribili. Innegabile che ciò possa avvenire, anche se certe scelte restano curiose.
L’inesperienza che trapela da Bryan di Boscoquieto nasce sicuramente dalla giovane età dell’autore, che per i suoi diciassette anni ha comunque una padronanza linguista maggiore rispetto a molti suoi coetanei, ed è un dato di fatto riscontrabile in quasi tutti gli esordi. L’inesperienza è (quasi) sempre alla base di un’opera prima, soprattutto se l’autore è alle prime prese con parole come: editing, caratterizzazione, coerenza interna, ecc.
Se ci soffermassimo sulle opere d’esordio di autori oggi blasonati (l’elenco è lunghissimo ed evitiamo di farlo), probabilmente resteremmo profondamente delusi. Con Bryan di Boscoquieto accade più o meno la stessa cosa, ma con l’aggravante che a questa inesperienza vengono a sommarsi altre mancanze narrative e stilistiche, che magari con qualche anno di più sulle spalle avrebbero potuto far esordire ottimamente questo giovane autore.
Un libro per ragazzi, dunque, scritto da un ragazzo che parla di ragazzi, e che soprattutto comunica come comunicano i ragazzini d’oggi (non tutti, ma molti). Con riferimenti non troppo velati a produzioni cinematografiche, all’amore adolescenziale in ogni sua espressione, con la passione per le scene forti e a volte anche truculente, macabre.
Resta una domanda a fine lettura, dove fra l’altro il romanzo risolleva un po’ le sue sorti in attesa di un seguito: i ragazzi che leggono, quelli che preferiscono restarsene con un libro in mano piuttosto che andare a dare due calci a un pallone, cercano questo in un romanzo?
44 commenti
Aggiungi un commentoDa incorniciare: per tutti quegli scrittori italiani inediti che continuano a ideare trilogie o saghe. Questo è un messaggio forte e chiaro, ancor più forte perché non pretendeva di esserlo.
Sottoscrivo la risposta di Agar Cioccolato. (A me 'sto nickname fa' impazzire! )
Lasciamo stare... piatto come una tavola da surf. Una sequela di immagini e azioni connesse da un filo di spago.
Non mi piace assai...
Trama un po' misera e non poi così ricca. Scritto in modo spiccio, frettoloso e povero di particolari e punti veramente salienti.
Alcune parti poi sono ridicole, per non dire volgari.
La giovane età dell'autore non salva comunque un'opera di questo tipo.
A mio parere noioso.
Non lo consiglio,
Dream
Ho letto alcune pagine e il modo con cui scrive Ghirardi è elegante, ma la storia non mi ha preso, cioè non mi ha coinvolto. Non sentivo il bisogno di girare la pagina, anzi si creava una situazione di disgusto.
Il grassetto, col tuo permesso, lo incornicio e me lo appendo in camera per i momenti di depressione.
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