Il Cerchio di Pietre di Diana Gabaldon (in edizione Tea)
Il Cerchio di Pietre di Diana Gabaldon (in edizione Tea)

Questo intervento, a mio parere uno dei migliori anche perché documentato, arriva con le sue domande precise al nocciolo del problema. A me viene da rispondere: se il libro era evidentemente bello, come dimostrano l'originale inglese e la traduzione italiana, allora è stato il traduttore tedesco a sbagliare qualcosa. Se quel testo proprio non gli andava giù, avrebbe dovuto rifiutarsi di tradurlo. Oppure (ipotizzo) era solo un incompetente, e ha scelto la via del cambiamento come scorciatoia? Mi è capitato di leggere una traduzione in francese di un libro di Diana Gabaldon che conoscevo bene, avendolo tradotto, e ho dovuto constatare che non solo era molto più corta dell'originale, ma anche "liberamente ispirata", e cioè proprio tutta un'altra cosa. Immagino che in simili casi il traduttore agisca anche in base a direttive della casa editrice, che gli avrà detto di tagliuzzare e modificare a suo piacimento, senza affatto preoccuparsi di rispettare ciò che l'autore diceva. Con la Gabaldon io non mi sono mai comportata così, e pensare che la mia traduzione del suo ultimo libro, The Fiery Cross, è risultata di ben 1700 pagine totali. Non l'ho mai fatto – né mi è stato chiesto di farlo – perché non ce n'era bisogno, i suoi libri vengono visti e rivisti per mesi da diversi editor negli USA (ma sempre sotto la sua supervisione) come lei stessa ha affermato nel suo blog, e quindi il risultato non può che essere buono, dal punto di vista stilistico e della trama. Qualche mese fa ho risposto a un'intervista pubblicata sul blog/forum italiano della saga (www.outlander.splider.com) e a un certo punto mi hanno chiesto se avessi mai avuto la tentazione di migliorare i personaggi amati. Ecco la mia risposta:

Se tento di migliorare i personaggi amati? Direi di no, perché la professionalità impone un'estrema fedeltà al testo originale (sempre che sia ben scritto, e questi libri lo sono senza dubbio). Io devo ricreare con la massima precisione il personaggio, così come tutto il resto, nella mia lingua, e mi sento assolutamente al di sopra delle parti.

Dunque, il gusto personale non c'entra affatto. Proprio come farebbe un editor, al quale non credo siano richiesti giudizi soggettivi, le volte che mi è capitato di intervenire sul testo è stato perché ho riscontrato vistosi difetti tipo: ripetizioni continue e superflue; sintassi zoppicante; descrizioni talmente farraginose da risultare quasi incomprensibili; buchi o incongruenze nella trama (e almeno in quel caso occorre segnalarlo in redazione, perché si chieda all'autore se può riscrivere il pezzo) ecc.

Torniamo dunque alla frase incriminata, quella dove dichiaro di "aver tradito a tutto spiano" testi originali mal scritti, allo scopo di migliorarli. A questo punto è chiaro che qui si apre tutta un'altra questione, riguardante il campo dell'editing, più che della traduzione. Ammetto che una frase del genere possa suonare fastidiosa, e me ne scuso con i lettori. Tuttavia  avrete compreso che dopo anni trascorsi a lavorare sugli scritti altrui, uno se ne accorge, quando ha davanti un testo sciatto. Probabilmente succede perché l'editor della lingua originale era assente, o non ha fatto un buon lavoro. E così i guai ricadono sul traduttore.

Scrittori e traduttori hanno ruoli diversi, ovvio, ed è certamente la parola dell'autore quella da rispettare, però entrambi lavorano sulla medesima materia: la pagina scritta.  Non vedo perciò nessuna presunzione nel fatto che un traduttore possa a volte migliorarla, dopo anni di esperienza su testi altrui, bensì solo semplice, appassionato, "mestiere". Al servizio del lettore. Un grande scrittore e studioso come Umberto Eco, nel libro che citerò alla fine, ringrazia pubblicamente i suoi traduttori per avergli segnalato sviste o errori che evidentemente a lui erano sfuggiti.

Se il testo originale non ha bisogno di ulteriore editing, siamo noi i primi a esserne contenti, dato che possiamo limitarci a svolgere il nostro compito. A questo proposito ricopio qui sotto le parole che mi ha scritto una collega, perché mi sembra che confermino quanto volevo dire, mettendo in luce anche un altro aspetto: le differenze di gusto tra i lettori da un paese all'altro. Mi ha dato il permesso di pubblicare uno stralcio della sua email, ma preferisce restare anonima:

[… ] certi libri non si possono proprio tradurre "alla lettera"; bisogna tradire la forma per salvare il contenuto, l'intenzione dell'autore. Non voglio assolutamente essere presuntuosa, ma credo che chi fa il nostro mestiere riesca, dopo un po', a immedesimarsi nell'autore, a entrare nella sua testa e capire dove voleva andare a parare scrivendo una certa cosa. E poi, oggettivamente, ciò che risulta accettabile in un'altra lingua non sempre lo è anche in italiano. Ci sono autori che forse, se scrivessero nella nostra lingua, non verrebbero pubblicati (e allora non si capisce perché vengano tradotti, ma questa è un'altra storia). Credo che i lettori italiani – forse non tutti, ma molti – prestino attenzione anche allo stile, alla "bella scrittura". In certi casi, quindi, è necessario un editing più "spinto". Se non lo facessimo noi traduttori, ci penserebbero i vari revisori. No? Certo che, se potessi scegliere, preferirei lavorare solo su testi che non richiedono questo lavoro aggiuntivo; -)

In conclusione, la mia intervista ha fatto discutere, il che in fondo è positivo, credo. Inoltre ho notato qua e là tra voi il desiderio di saperne di più. Perciò, in attesa delle prossime interviste ad altri traduttori ed esponenti del mondo editoriale su Fantasy Magazine, vorrei consigliare almeno due libri: Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco (ed. Bompiani), un saggio interamente dedicato alla traduzione, impegnativo ma molto interessante, e Il mestiere di riflettere, dove la collega Chiara Manfrinato raccoglie le esperienze di vari traduttori italiani (ed. Azimut libri).

Lascio la parola ai miei colleghi.