Prologo

L’assedio

I mori attaccarono poco prima del tramonto.

L’aria era caldo e polvere. Da quasi due mesi non c’era più stata pioggia e anche la rugiada si era asciugata. Tutto quello che poteva seccare si era seccato. Di vivo erano rimasti solo le mosche e i contadini, ma i contadini ancora per poco: la cavalleria musulmana non era mai passata alla storia per la bontà di cuore.

La cavalleria musulmana apparve all’orizzonte prima che il sole se ne andasse, annunciata da un gran polverone, che sembrò all’inizio una nuvolaglia scura.

I cafoni alzarono dai campi le facce, poco più chiare di quelle dei loro sterminatori, e guardarono l’ombra nera che scuriva l’orizzonte.

Se si fossero trovati meno disperati e con meno fame, si sarebbero forse stupiti di quel temporale, che oltre che tardivo era pure bizzarro: veniva dalla terra e non dal cielo, senza tuoni, né fulmini, né starnazzare di polli. Ma la stanchezza di quel loro vivere li aveva svuotati e nemmeno lo stupore li risvegliò. Quando la polvere fu abbastanza alta da coprire

il sole che era rosso e basso ed enorme, il clamore e gli stendardi divennero chiari, la cavalleria mora ormai era su di loro.

La disperazione e le bestemmie evaporarono, lasciando la decisione ferma quanto inutile di campare ancora.

Nei minuti frenetici durante i quali si cercò di organizzare una resistenza qualsiasi, ognuno chiese misericordia al Creatore, si scusò per le bestemmie di poco prima, la scortesia, quelle insulse dichiarazioni che, per campare così, era meglio schiattare.

Non era vero niente. A loro campare così gli piaceva, anche così, anche da morti di fame, anche con la siccità, il freddo, il ballo di san Vito e il fuoco di sant’Antonio.

Ai contadini campare così gli piaceva: purché si campasse ancora. Purché non si crepasse subito, in quel giorno torrido che loro non volevano più che potesse essere l’ultimo e che invece lo sarebbe stato.

Ovunque si invocò l’inestimabile dono di ancora un po’ di stenti e un po’ di miseria.

Ma il cielo restò sordo, come da sempre era sordo: per la fame, la miseria, i figli morti bambini.

Pure quel giorno il cielo non intervenne, come sua abitudine, e la cavalleria mora macellò tutto quello che si trovò sulla strada, con la stessa facilità e la stessa incuria di una manata sopra un nugolo di moscerini.

Loro creparono tutti, fino all’ultimo bambino pulcioso, fino all’ultimo pollo mezzo morto di fame, persero per sempre il diritto ad ancora un po’ di fame e di infelicità terrena.

Il cielo si coprì di una rete di nuvole sottili, tra le quali le prime stelle cominciavano a brillare; finalmente, sulla polvere impastata di sangue, si mise a piovere.

Dopo il volgo fu la volta dei signori. I mori attaccarono il castello, che se ne stava un po’ più sopra, sull’unica altura che sovrastava la piana, che in realtà non era neanche una collina, ma era comunque qualche cosa.

Anche i signori stavano un po’ più sopra dei cafoni, un po’ meno stracciati, un po’ meno morti di fame. Loro i calzari ce li avevano e tenevano pure, tra tutti, un cavallo, un mulo, due capre, tre conigli e undici galline.

Il castello fu attaccato che ormai era buio. La pioggia attesa da mesi cadde. Non un acquazzone pieno, ma una pioggerellina lieve e disuguale che a qualcosa servì. La paglia si era bagnata e le micce pure, e questo fu una fortuna.

Le mura del maniero, che già prima che l’attacco cominciasse erano le più diroccate di tutta la cristianità, qualche giorno erano in grado di resistere. Forse anche qualche settimana.

Fu la miseria che favorì l’immediatezza della distruzione.

Avevano sostituito i tetti di pietra, danneggiati dal tempo e dall’incuria, con la paglia dei covoni, che non costava nulla.

La paglia era intrecciata insieme ai giunchi raccolti sul greto del fiume e intonacata con la creta: era leggera, facile da trovare, teneva l’umidità, si sostituiva con poca fatica; l’unico difetto era la sua formidabile capacità combustibile. In parole più povere: se le si dà fuoco, la paglia brucia. Brucia subito. Brucia dannatamente bene. Brucia talmente in fretta che la dizione «fuoco di paglia» è stata coniata per indicare qualcosa di violento e breve, che brucia appunto senza lasciare nulla, se non un pugnetto di cenere, come giustamente bruciano i covoni, i tetti di paglia e gli amori che non valgono niente.

Fortunatamente pioveva e per tutta la notte l’assedio si limitò a esserci, senza ulteriori danni per nessuno.

All’alba il vento si alzò, disperse le nuvole e incominciò ad asciugare la paglia dei tetti e le travi del portone, costituito dal ponte levatoio sollevato, dall’altra parte del fossato asciutto che la pioggia aveva solo trasformato in fango.

I saraceni fecero un rapido conto sulle possibili ipotesi: