darsi da fare ad abbattere il portone, darsi da fare a scalare le mura, non fare un accidente di niente e affidare il lavoro alle frecce incendiate con la pece greca, una volta che il sole di giugno avesse fatto la cortesia di asciugare tutto. Qualcuno fece osservare che, in qualunque bisogna, solo gli stolti faticano potendone fare a meno e la scelta fu per le frecce incendiarie.Il giorno passò, scaldato dal sole, asciugato dal vento: le ore furono lunghe e immobili, gli assedianti a farsi gli affari loro, l’orizzonte vuoto di qualsiasi soccorso. Alla sera la paglia era secca e asciutta come se mai avesse conosciuto l’acqua in vita sua.
Il tramonto fu pieno di rosso e di oro. Il cielo si scurì. Le prime frecce incendiarie si stagliarono con il caldo colore del loro fuoco contro la luce fredda delle miriadi di stelle che brillavano nel cielo estivo.
Alla prima freccia incendiaria che riuscì ad attecchire, il castello si trasformò in una luminaria. La paglia prese fuoco, e crollò su tutto quello che le sottostava: travi di legno, mobili, polli, cavalli, capre, uomini: tutte strutture combustibili, per dirla in termini tecnici, e tutto bruciò anche se con diverse implicazioni cognitive, che tradotto in parole povere vuol dire che i polli di cervello ne hanno meno dei cristiani e, quindi, anche a bruciare e a vedere i propri figli crepare, soffrono meno.
Questo successe solo a notte avanzata. In più i saraceni erano un poco ubriachi, non per il vino, ché non ne avevano bevuto: a loro era vietato; ma per il sangue, per le vittorie: tutto quel loro correre a cavallo per quella terra che altro non aspettava che di essere conquistata con il sangue, il ferro e il dolore.
Erano ubriachi di avere il loro Dio che combatteva con loro e che era contento della loro guerra, veramente convinti, come tutti gli utenti di guerre giudicate sacre e sante, che Dio sia veramente contento dei loro morti ammazzati. Chissà perché a nessuno viene in mente mai che Dio forse ha creato pure gli altri, quelli da sterminare.
E grazie all’ubriacatura di tempo ne impiegarono un sacco, con le micce bagnate e l’anima sbronza: impiegarono tutta quella nottata di pioggerelle, per riuscire a incendiare il vecchio maniero.
Da dentro ebbero il tempo di scavare, con le pale e con le mani, nella polvere che diventava fango, per la pioggia, il sudore che gli colava dalla fronte e il sangue che gli colava dalle mani.
Scavarono alla luce delle frecce incendiarie. Mentre i primi tetti cominciavano a bruciare, si completò una galleria da talpa che passava sotto le mura di cinta e finiva in quello che, se ci fosse stata l’acqua dentro, sarebbe stato il fossato, e che era vuoto sia per la siccità che per l’incuria, e fu una fortuna, perché così i fuggiaschi non si annegarono, ma restarono nascosti dall’ombra delle ciliate e si poterono salvare.
Nessun uomo e nessuna donna poterono infilarsi nel buco, ma i bambini sì e loro scamparono al rogo.
Si salvarono Baldassarre che aveva i vermi, Girolamo che aveva i piedi piatti e lei, Beatrice Adalguisa Matilda Antenora, che per fare prima chiamavano Bradamante.
Era lei che sarebbe poi diventata il flagello degli infedeli, la loro croce, perché lei li combatté con tutte le sue forze, fino a che anche lei non fu colpita al cuore da un saraceno e allora il mondo cambiò.
Lei, Beatrice Adalguisa Matilda Antenora, detta Bradamante, in quella notte di fuoco e di fango, sdraiata con due bambini più piccoli di lei, sotto la ciliata del fossato, mentre i suoi bruciavano vivi e i saraceni inneggiavano al loro Dio, giurò che avrebbe avuto vendetta o sarebbe morta nel tentativo; giurò che mai, finché aveva vita, altro avrebbe fatto che sterminare saraceni.
La notte fu lunga e terribile: loro se ne stavano lì con il colore del fuoco negli occhi, il suo orribile odore nelle narici, il fracasso dell’incendio che li assordava: di continuo qualcosa crollava, qualcosa franava; si sentivano urla; pietre cadevano dagli spalti, non più trattenute da nessuna impalcatura. Travi infuocate li evitarono per un pelo.
Si salvò anche il cane, che si chiamava Spartaco, come l’antico guerriero che aveva detto che la crocifissione era meglio dell’essere schiavi. Era un nome altisonante quanto ingiustificato,
perché la creatura teneva paura anche della sua ombra. In quella notte di fango e di fuoco pure Spartaco riuscì a infilarsi nel buco, ma poi scappò, si dileguò nel buio con il suo terrore e le urla dei saraceni che lo inseguivano, e fu una fortuna perché così non attirò con il suo abbaiare l’attenzione sul fondo del fossato.
Quando l’alba arrivò, il fuoco si spense e gli sterminatori se ne andarono, Bradamante se ne stava nel fosso con i due bambini più piccoli sotto di lei, e lì se ne restò anche quando il sole fu alto e i saraceni lontani, forse per la paura, forse per la speranza che dalle rovine si alzasse una qualche voce a chiamarli, a dirgli che la minestra era in tavola, che era ora di cambiarsi i vestiti pieni di fango e della pipì che si erano fatti addosso.
Solo al tramonto osarono alzarsi e allontanarsi; se ne andarono a cercarsi qualcosa da mangiare e un po’ d’acqua che calmasse la loro sete infinita, con il sogno inutile nel cuore di
qualcuno che li potesse consolare. Non cercarono morti calcinati tra le macerie. Neanche si guardarono indietro. Se ne andarono e basta. Solo quando si alzò la luna lei, Bradamante, si girò, guardò le rovine e pensò alla voce di suo padre, all’odore della pelle di sua madre: non ci sarebbero più stati; mai più, mai più. Si ripeté ancora nella sua testa quelle due parole: mai più, mai più. Le lacrime le scesero lungo la faccia.
Se le leccò per sentirne il sapore, che le restasse impresso come quella notte di luna, quel mai più che le risuonava nel cranio. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai
più. Mai più.
Se ne erano andati tirando dritto, senza levare gli occhi dal fango della strada. Neanche spostavano lo sguardo quando le pozzanghere erano rosse per vedere che ci avevasanguinato, così da non aggiungere altri ricordi a quelli che già avevano dentro e che già li stavano per soffocare.
Traversarono il loro villaggio e poi si accamparono a dormire in mezzo a un prato, sotto l’unico albero che c’era, che era la quercia più grande della regione. Lì passarono la notte, morti di freddo, di fame, di sete, di paura. Lì prima dell’alba li ritrovò il cane, e a loro il suo quieto russare diminuì la paura perché per combattere non combatteva, ma per scappare era un valore, e perciò, se lui era ancora lì, voleva dire che si poteva dormire senza tema.
All’alba si rimisero in marcia. Lasciarono l’ombra della quercia e traversarono un pezzo di terra bruciata e poi un altro villaggio, pieno di mosche e di morti ammazzati, e poi un altro po’ di terra sassosa e poi un altro villaggio annientato, poi ancora un’altra strada in mezzo ai capperi e ai fichi d’india e ancora i resti dell’ultimo dei villaggi cristiani, quello più lontano, quello vicino al mare.
E in questa loro marcia con gli occhi fissi e bassi, che tenevano aperti solo per non inciampare, neanche videro che tra i morti ammazzati dell’ultimo villaggio, quello dove le onde battevano, ce ne stava pure qualcuno saraceno: sulla spiaggia assaliti e assalitori erano in numero pari.
Nel caso se ne fossero accorti, si sarebbero stupiti che dei pescatori fossero riusciti a resistere in qualche maniera, e poi i nemici morti avevano gli inconfondibili segni dei colpi netti e definitivi dati da un guerriero: gli elmi e i crani erano spaccati come meloni e puliti come sassi nel mare, senza le ammaccature e la terra dei colpi di zappa e di roncola delle contese contadine.
Neanche videro che mancavano le donne e i bambini.
Neanche poterono capire che non erano del tutto abbandonati e soli.
Qualcuno aveva combattuto per loro.
2 commenti
Aggiungi un commentoRacconto tutto sommato molto deludente, che lascia l'amaro in bocca soprattutto perché gli elementi pregevoli ci sono, e non sono pochi.
Lo stile è perfetto, meraviglioso, anche se spesso si indugia nella riproposizione e nella spiegazione dei luoghi comuni, piuttosto che cercare una dizione personale della frase. Alcuni dei personaggi sono fenomenali. Molto bella l'immagine di Bradamante stracciona. Meravigliosa l'idea di sceglierla come capo di una rivolta dei cafoni. Originalissimo il "diavolo" etiope che si finge lebbroso, e commovente la scena del patto con la bimba attraverso la bambola. Più impersonale la figura della curatrice.
Problematico l'inquisitore. Ottimi gli sprazzi d'introspezione ma improbabile, storicamente, il personaggio. Se la De Mari vuole ambientare la vicenda in Sicilia all'epoca della conquista araba dovrebbe tener presente che la Trinacria era territorio bizantino, e a Bisanzio e nelle sue provincie non ci furono mai inquisitori, nè grandi nè piccoli. L'Inquisizione medievale fu concretamente fondata tramite la costituzione Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem, promulgata durante il concilio di Verona del 1184 (tre secoli dopo le vicende descritte dalla nostra autrice) che diede il via alla grande persecuzione dei catari, e fu un istituzione puramente cattolica, e non ortodossa. Ciò non vuol dire che i bizantini non perseguitarono gli eretici e i pagani vuol dire semplicemente che qui, invece di questo Grande Inquisitore vagamente Dostoevskiano, ci starebbe bene un semplice vescovo un po' rigido.
Poi c'è la questione dell'ispirazione. Si parla di richiami alla tradizione dei pupi siciliani. A me sembra di vedere in questo racconto una contaminazione tra Martin e l'armata Brancaleone e nella protagonista un incrocio tra Arya Stark, la Bradamante leggendaria e il signorotto norcino interpretato da Gassman. A ricordarmi i film di Monicelli sono soprattutto l'armata di straccioni e il duello con la Morte.
Altro, ovvio, richiamo è contenuto nel titolo, citazione quasi pedissequa (con solo una "strega" di troppo) del nome della più celebre incisione Dureriana.
Più che come pupi io mi immagino i personaggi quali figurine bidimensionali, le cui gesta siano raccontate in una serie di stampe dal vago sapore tardo-gotico. Figure abbozzate con una certa maestria ma sostanzialmente poco duttili, le cui imprese si concentrano freneticamente in uno spazio ridotto come quelle dei protagonisti dei "Proverbi fiamminghi" riprodotti in copertina.
L'impressione che si riceve dal racconto è quella di aver letto un bigino scritto molto bene di un'opera più lunga.
La narrazione è scorrevolissima, ma solo dalla seconda pagina in poi.
Il prologo è a dir poco tremendo. Per essere la descrizione di un massacro non comunica alcuna tensione, alcun dramma. L'autrice sembra distante mille miglia, ammassare una bella frase dopo l'altra senza preoccuparsi che il lettore senta il pathos della vicenda.
Con la fuga di Bradamante, il racconto prende davvero il via, e procede in modo piacevole fino alla fine.
Ho sentito parecchio il peso dell'assenza del discorso diretto, e si desidera che l'introspezione vada al di là dei pochi sprazzi a noi concessi.
Ho visto la mano di una grande scrittrice, ma la mia impressione generale è che il canto, invece di vibrare liberamente, sia rimasto soffocato in gola per qualche imperscrutabile motivo.
Attirato dall'attente analisi di Uljanka, sono andato a leggermi il racconto. Sono abbastanza in linea con la critica, per quanto abbia provato credo meno delusione rispetto alle potenzialità inespresse per scelta.
Mi sono in effetti chiesto anch'io se questo (comunque bel) racconto non sia in realtà una riscrittura letteraria di una sinossi. Di un progetto a cui l'autrice vorrebbe dare corpo, nella forma di un romanzo vero e proprio.
Se così fosse, mi auguro che qualcuno dia credito alla De Mari anche su questa strada, e ne nasca l'opera completa e appassionante di cui qui possiamo apprezzare l'embrione.
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