La strega
La strega era stata cacciata dal villaggio sul mare anni prima.
Erano anni miti. Gli inquisitori si occupavano solo degli eretici; delle streghe si occupava ancora solo la voce comune.
Le avevano bruciato i libri e la casa, l’avevano presa a sassate e le avevano tirato addosso lo sterco di capra che si tenevano per concimare. Lei se ne era andata che respirava ancora, con la ferrea convinzione che avrebbe potuto andare peggio e che era meglio usare il fiato per strisciare via senza perdersi in lamentazioni.
La strega sapeva leggere e scrivere, non si era mai sposata e distillava le erbe: la digitale purpurea per quelli che avevano il fiato corto e la belladonna per quelli che avevano il respiro stridulo, per il mal di pancia e contro i funghi velenosi.
Assisteva ai parti e medicava le ferite. La sua scienza le veniva dal padre medico, che aveva studiato sugli antichi testi dei latini, che erano pagani, e degli ebrei, che erano nemici di Gesù Cristo, e lei oltretutto era femmina, per natura più corruttibile, anzi già corrotta ancora prima di venire al mondo.
Nessuno riuscì poi a ricordarsi chi per primo aveva cominciato a parlare della sua stregonaggine. Quello che fu certo è che nessuno osò opporsi alla diceria, se non altro per non fare la figura dello stolto, di quello che non aveva capito niente:
una costante della storia è che le peggiori ingiustizie avvengono più per imbecillità che per autentica cattiveria.
Da quando la voce cominciò a girare al momento della sua cacciata passarono poche settimane. Lei si trascinò via e alle donne per un attimo si strinse il cuore pensando ai parti
dove più nessuno avrebbe teso le mani per far uscire le testoline incastrate nei corpi delle madri, ai mal di pancia che sarebbero rimasti incurati.
Ma gli uomini non potevano essersi sbagliati.
L’idea della stregoneria mica poteva avere torto.
Forse ora che la figlia del demonio se ne era andata, chissà, forse Domineddio sarebbe stato un poco più clemente, non gli avrebbe più fatto crepare i figli con i polmoni marciti o la dissenteria, avrebbe fatto che gli uomini pescassero di più, picchiassero di meno e non restassero annegati in mare.
A nessuno venne in mente – ma questo a onore loro non sarebbe venuto in mente neanche ai più colti inquisitori dei secoli a venire – che se il demonio le avesse mai dato, a lei, la strega, un qualche straccio di potere, lei lo avrebbe usato per fulminarli mentre la prendevano a sassate; o se le folgori erano troppo, almeno per fargli venire il fuoco di sant’Antonio o il vermocane.
La strega se ne era andata. Aveva trovato rifugio in una grotta tra i castagni, dove si sistemò abbastanza comoda, perché ci aveva portato qualche giorno prima, nell’ovvia previsione di tempi bui, due pentole, un coltello, un po’ di paglia per dormire, una lampada, un orcio di olio, uno di vino, uno di miele e i libri. Quelli migliori. Il resto era andato bruciato. Pazienza. Era ancora in vita.
Come diceva Marco Aurelio, imperatore di Roma, ogni mattina che mettiamo i piedi sul pianeta tirandoci giù dal nostro giaciglio bisogna mettere in conto che i malvagi ci perseguiteranno e che gli imbecilli ci intralceranno la via.
E ogni giorno che possiamo tirare il fiato e andarcene in giro per i nostri affari non ci dobbiamo lamentare, perché al mondo le cose potrebbero andare peggio e prima o poi peggio
andranno.
La strega si sistemò come poté. Tra castagne, funghi, mirtilli e more e qualche leprotto un po’ tonto e un po’ lento, che restava nelle sue complicatissime trappole da ingegnere militare, per mangiare mangiava.
Ora che nessuno la distraeva più con i parti delle femmine e i vermi degli intestini cominciò a battere i boschi per fare uno studio, trascritto su un rotolo di pergamena vergine che aveva ereditato da suo padre, sui funghi tossici e quelli che si possono mangiare. L’opera si dipanò con difficoltà, lentamente, accompagnata da disegni e inframmezzata dalle macchie che faceva con le lacrime, quando pensava ai bambini che sarebbero nati senza di lei che usava l’acqua e
l’olio per farli uscire meglio, e a tutti i vermi che senza di lei sarebbero rimasti negli intestini.
Poi le macchie diminuirono. Dal villaggio qualcuna delle donne, molto prima delle luci dell’alba quando ancora tutti dormivano, si avvicinava per chiedere qualche rimedio e un po’ di consolazione. Una a una vennero tutte.
Portavano piccoli doni. Olio per la lampada. Qualche suppellettile di casa sua che avevano salvato. Mezzo pesce.
Un quarto di pollo. Un terzo di sacco di farina.
Alla fine arrivarono anche gli uomini. In ore più buie e con doni di maggior valore.
Un pesce intero. Un pollo intero. Un intero sacco di farina.
Per qualche infuso o magari un po’ di magia, visto che lei era strega, che tenesse lontana la malasorte o, perlomeno, la spaventasse un po’.
L’opera sui funghi si arrestò e anche le lacrime non sgorgarono più, fino a quella notte, quando dalla sua grotta si videro fuochi che erano troppo alti per essere stoppie che bruciavano e si udirono urla che erano troppo atroci per essere litigi tra comari.
Lei se ne restò lì, accoccolata, al sicuro, con lo stomaco che era un grumo di orrore e le lacrime che le scendevano per quella gente, che l’aveva cacciata, ma restava la sua gente.
Lei non poteva far niente se non restare accoccolata a piangere fino alla notte, che scorse cupa e illuminata dai fuochi dell’orrore, che si dipanavano villaggio dopo villaggio, come
i grani di una catena.
Poi, all’alba, un gruppo di donne e bambini arrivò. Lei si sentì allargare il cuore per la felicità come mai le era successo in vita sua, ma rimase con la faccia seria e tranquilla come se le importasse poco. Distribuì qualche straccio per riparare i bambini dal freddo del mattino e un po’ di castagne secche che rosicchiarono seduti per terra e che erano tutto quello che c’era.
Era talmente felice che non fossero morti tutti come aveva creduto, che nemmeno si arrabbiò per l’imbecillità dei discorsi, ché ancora continuavano a trattarla da strega, mentre le raccontavano come erano andate le cose. Uno dei guerrieri saraceni si era rivoltato contro gli stessi suoi fratelli e le aveva salvate. Loro e i figli loro. Doveva essere l’Altissimo che gli aveva toccato il cuore. Sì, avevano fatto bene a cacciarla, lei che era fattucchiera e aveva letto i libri dei pagani e dei giudei. Per questo Dio era stato buono con loro.
Lei che era strega, perché non gli faceva una fattura ai saraceni?
Così Domineddio si sentiva vendicato e non la faceva bruciare all’inferno da defunta.
Coi morti ci sapeva parlare?
E la lingua degli animali la capiva?
Lei se ne stette zitta, senza né affermare né negare il suo essere strega, medicò le ferite, preparò i decotti per la diarrea e si mise a preparare le trappole per acchiappare qualsiasi
cosa si potesse mangiare.
2 commenti
Aggiungi un commentoRacconto tutto sommato molto deludente, che lascia l'amaro in bocca soprattutto perché gli elementi pregevoli ci sono, e non sono pochi.
Lo stile è perfetto, meraviglioso, anche se spesso si indugia nella riproposizione e nella spiegazione dei luoghi comuni, piuttosto che cercare una dizione personale della frase. Alcuni dei personaggi sono fenomenali. Molto bella l'immagine di Bradamante stracciona. Meravigliosa l'idea di sceglierla come capo di una rivolta dei cafoni. Originalissimo il "diavolo" etiope che si finge lebbroso, e commovente la scena del patto con la bimba attraverso la bambola. Più impersonale la figura della curatrice.
Problematico l'inquisitore. Ottimi gli sprazzi d'introspezione ma improbabile, storicamente, il personaggio. Se la De Mari vuole ambientare la vicenda in Sicilia all'epoca della conquista araba dovrebbe tener presente che la Trinacria era territorio bizantino, e a Bisanzio e nelle sue provincie non ci furono mai inquisitori, nè grandi nè piccoli. L'Inquisizione medievale fu concretamente fondata tramite la costituzione Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem, promulgata durante il concilio di Verona del 1184 (tre secoli dopo le vicende descritte dalla nostra autrice) che diede il via alla grande persecuzione dei catari, e fu un istituzione puramente cattolica, e non ortodossa. Ciò non vuol dire che i bizantini non perseguitarono gli eretici e i pagani vuol dire semplicemente che qui, invece di questo Grande Inquisitore vagamente Dostoevskiano, ci starebbe bene un semplice vescovo un po' rigido.
Poi c'è la questione dell'ispirazione. Si parla di richiami alla tradizione dei pupi siciliani. A me sembra di vedere in questo racconto una contaminazione tra Martin e l'armata Brancaleone e nella protagonista un incrocio tra Arya Stark, la Bradamante leggendaria e il signorotto norcino interpretato da Gassman. A ricordarmi i film di Monicelli sono soprattutto l'armata di straccioni e il duello con la Morte.
Altro, ovvio, richiamo è contenuto nel titolo, citazione quasi pedissequa (con solo una "strega" di troppo) del nome della più celebre incisione Dureriana.
Più che come pupi io mi immagino i personaggi quali figurine bidimensionali, le cui gesta siano raccontate in una serie di stampe dal vago sapore tardo-gotico. Figure abbozzate con una certa maestria ma sostanzialmente poco duttili, le cui imprese si concentrano freneticamente in uno spazio ridotto come quelle dei protagonisti dei "Proverbi fiamminghi" riprodotti in copertina.
L'impressione che si riceve dal racconto è quella di aver letto un bigino scritto molto bene di un'opera più lunga.
La narrazione è scorrevolissima, ma solo dalla seconda pagina in poi.
Il prologo è a dir poco tremendo. Per essere la descrizione di un massacro non comunica alcuna tensione, alcun dramma. L'autrice sembra distante mille miglia, ammassare una bella frase dopo l'altra senza preoccuparsi che il lettore senta il pathos della vicenda.
Con la fuga di Bradamante, il racconto prende davvero il via, e procede in modo piacevole fino alla fine.
Ho sentito parecchio il peso dell'assenza del discorso diretto, e si desidera che l'introspezione vada al di là dei pochi sprazzi a noi concessi.
Ho visto la mano di una grande scrittrice, ma la mia impressione generale è che il canto, invece di vibrare liberamente, sia rimasto soffocato in gola per qualche imperscrutabile motivo.
Attirato dall'attente analisi di Uljanka, sono andato a leggermi il racconto. Sono abbastanza in linea con la critica, per quanto abbia provato credo meno delusione rispetto alle potenzialità inespresse per scelta.
Mi sono in effetti chiesto anch'io se questo (comunque bel) racconto non sia in realtà una riscrittura letteraria di una sinossi. Di un progetto a cui l'autrice vorrebbe dare corpo, nella forma di un romanzo vero e proprio.
Se così fosse, mi auguro che qualcuno dia credito alla De Mari anche su questa strada, e ne nasca l'opera completa e appassionante di cui qui possiamo apprezzare l'embrione.
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