Il cavaliere
Le trappole acchiapparono due lepri e per cucinarle si dovette accendere un fuoco. Fu una fortuna perché saraceni nei paraggi non ce ne stavano più, ma Bradamante e i bambini
poterono trovare la strada.
Erano tre bocche in più da sfamare, ma erano pur sempre tre cristiani ancora vivi e tutti furono contenti, mollarono anche qualche castagna secca e tre briciole di lepre, perché anche
i nuovi venuti potessero non crepare di fame.
Baldassarre e Cesariello si misero a piangere, visto che finalmente qualcuno si era trovato per asciugare le loro lacrime:
il mangiare era contato, la consolazione, almeno quella, abbondava.
Bradamante non pianse. Le sue lacrime le aveva finite sotto la luna e indietro non si torna. Tirò fuori da sotto il mantello una spada.
«Rendila invincibile» chiese alla strega con la sua voce resa roca dai giorni di silenzio e disperazione.
Bradamante era femmina e non avrebbe avuto diritto a un’arma, ma suo padre figli maschi non ne aveva avuti e allora aveva insegnato a lei, e lei si era poi esercitata da sola contro i polli e i piccioni del cortile.
Nell’assemblea era calato il silenzio: anche i bambini avevano smesso di frignare. Persino gli uccelli si erano azzittiti.
Era il silenzio totale del cambiamento di stato.
Era che per la prima volta si affacciava l’idea che il destino non erano soltanto gli altri a deciderlo: i re, i guerrieri, i vescovi, la cavalleria cristiana o quella dei nemici, come una manata sui moscerini.
Era che per la prima volta si affacciava l’idea che loro, le femmine e gli infanti dei morti di fame, forse non stava scritto che il destino non se lo facevano mai. Forse non stava scritto che il destino loro altro non fosse che il capriccio di un guerriero, la strada scelta dal suo cavallo in corsa, come una manata sui moscerini.
Forse non stava scritto che loro e i loro figli altra parte mai avessero nella storia se non quella del moscerino.
La strega alla stregoneria non ci credeva, quello che sapeva fare era il decotto di malva contro i vermi e quello di belladonna per il fiato stridulo e lì la sua scienza si arrestava. Restò
impietrita davanti alla richiesta, mentre il silenzio calava, i neonati si zittivano, persino le mosche smettevano di volare.
Lei, la strega, restò lì in mezzo all’assemblea di donne e bambini che da sempre la cacciavano e che ora, tutti, avevano gli occhi a lei: lei, unica fonte di speranza e fiducia. Tutti gli sguardi erano su di lei.
Nessuno l’avrebbe più chiamata figlia di Satana, nessuno le avrebbe più inviato maledizioni. Il gelo della solitudine sarebbe stato del passato come le sassate dei ragazzini. La strega voleva dirlo, cercò di dirlo che lei non era capace, che non si poteva, che queste cose esistono solo nella fantasia degli uomini, perché è troppo atroce accettare che tutta la sofferenza non è per l’odio del demonio, ma solo per il caso. Ma non ce le aveva avute mai in vita sua tutte quelle facce che la guardavano, mai neanche nei suoi sogni più pazzi aveva osato sognarla tutta quella fede.
Disse di sì, era capace, si poteva.
Tra la pentola dove bollivano le castagne secche e la corda su cui asciugavano i camicini dei più piccoli dei bambini tenne la lama della spada sopra del fuoco e poi invocò i suoi spiriti, e siccome i sortilegi delle streghe vere non li conosceva si affidò agli elementi delle filosofia greca e a un po’ di senso comune.
Acqua del mare, acqua in pioggia caduta,
resti per sempre spada imbattuta.
Fuoco che brucia, fuoco che cuoce,
tremi il nemico per la tua voce.
Tremi il nemico per la tua vista,
brezza dell’alba, cupa tempesta.
Terra che nutre, frana che uccide,
a chi non teme fortuna gli arride.
Sempre fortuna arride e viene,
a chi pruriti di amore non tiene.
Ma sofferenza, sconfitta e mestizia
a chi dimentica la giustizia.
A lungo la strega invocò tutti gli spiriti della terra, del fuoco, dell’acqua e dell’aria, perché la giovane guerriera fosse armata contro il nemico: ma l’invincibilità avrebbe protetto la sua spada solo nelle cause giuste e solo finché né la paura né l’amore le avessero toccato il cuore. Tanto nessun cristiano può non sdilinquirsi di terrore davanti ai saraceni e nessuna donna giovane può stare più di tre giorni senza sdilinquirsi d’amore.
Che male c’era? Bradamante si sarebbe illividita di paura e si sarebbe innamorata. Neanche dopo quella pagliacciata la ragazzina sarebbe andata a cacciarsi nelle battaglie armata del suo spiedo rugginoso.
Ma dopo la strega, una dopo l’altra, tutte le donne si alzarono e ognuna ricordò il nome degli uomini e dei figli che aveva perduto; ognuna, una dopo l’altra, ricordò la casa che le era appartenuta, la vita come era stata, anche il nome delle bestie che i nemici avevano ammazzato per mangiarsele o per pura idiozia, ché per i poveri le bestie sono un po’ come
persone di casa, estremo baluardo perché la fame, la miseria e la solitudine non diventino totali.
E dopo le donne parlarono i bambini, quelli che sapevano parlare.
Uno dopo l’altro ricordarono i padri, i nonni, i fratelli, i cuccioli con cui avevano giocato e i giocattoli che avevano avuto, perché tutti i bambini, anche i più miserabili, hanno
un giocattolo, un pezzo di legno o una pietra a cui hanno dato un nome.
E così il cerchio del dolore attorno al fuoco si chiuse.
Il sortilegio attecchì.
La spada di Bradamante divenne invincibile.
Il silenzio lentamente si sciolse, divenne meno granitico, meno statuario. Si ricominciò a sentire il canto degli uccelli, qualche bambino ricominciò a frignare.
Ma erano suoni diversi.
Anche il canto degli uccelli, anche il pianto dei bambini.
Non erano più moscerini.
Il giorno dopo si passò alle parti pratiche della fabbricazione di un guerriero.
Le donne recisero i capelli di Bradamante e trasformarono la sua sottana in un paio di brache, per farla sembrare un uomo, per lo meno un ragazzo, così che almeno i nemici da temere si riducessero agli infedeli, non includessero tutti i maschi che avrebbe incontrato sulla via.
Bradamante partì a piedi, visto che cavalli non ne teneva, insieme a Cesariello e Baldassarre che si consideravano suoi scudieri e che più niente e nessuno avrebbe staccato da lei.
Partirono in tre seguiti da Spartaco, il cane, per ristabilire la giustizia che il mondo aveva perduto.
Il mondo era grande, la strada era lunga, il cane era rognoso, festoso e abbaiante ed era tutto quello che avevano contro lo sconforto e la solitudine.
Bradamante aveva la sua spada.
I primi saraceni che le sbarrarono la via furono piccole bande di disertori, che avevano abbandonato il proprio esercito vincitore non per bontà di cuore verso le vittime dell’invasione, ma per le gravissime sanzioni a chi non rispettava l’interdizione al vino. Loro erano pochi, sporchi, stracciati, con le scimitarre scheggiate, con le facce da avvinazzati, forti più della paura altrui che della valentia loro, sempre meno acclini al cimento a ogni giorno di vino che passava; neanche si reggevano più sui piedi.
Lei era il guerriero, il vendicatore. Neanche per un secondo la paura le toccò il cuore.
La leggerezza della sua spada ne aumentava la velocità e la precisione. I duelli con i polli e i piccioni avevano reso i suoi passi rapidissimi, i suoi scarti duravano infinitesime
frazioni di quelli degli avversari.
Li mise tutti in fuga, perché tutti si squagliavano appena i duelli si mettevano male, cioè subito, disorientati dalla velocità che solo chi ha imparato a combattere nei pollai può avere, annientati dalla dichiarazione, che lei lealmente faceva, sull’invincibilità sua e dell’arma che portava.
Dopo la prima vittoria che liberò un minuscolo borgo di boscaioli da una male armata marmaglia di taglieggiatori e cialtroni, fu applaudita da una folla festante che rapidamente si ammutolì mentre le sue brache sbilenche e asimmetriche si macchiavano di sangue perché in quel momento preciso smise di essere una bambina ed entrò così nella sua vita di donna vera, con le sue perdite a ogni luna.
E ancora dovettero spiegarle che era, ché lei manco lo sapeva.
Così che lei fosse femmina si notò e si riseppe poi in giro, nonostante i suoi capelli arruffati e la sottana trasformata in brache, ma lei restò il guerriero, il vendicatore, il migliore, anzi l’unico cavaliere che mai fosse andato a soccorrerli, stracciato, appiedato, femmina, in compagnia di un cane rognoso e di due ragazzini che erano un castigo di Dio, lei con una spada invincibile e un coraggio da leone, cavaliere senza paura e senza macchia, a eccezione di quelle delle brache.
Anzi, fu proprio la sua pochezza ad aumentarne il valore: se ci riusciva lei, battersi era possibile, vincere si poteva.
Bradamante, Cesariello e Baldassarre liberarono villaggi e fattorie dalla soldataglia, trasformarono bande di ragazzini in truppe d’assalto, armarono le donne con i coltelli da cucina, i contadini con le falci e i bastoni, insegnarono sistemi di segnalazione basati su fuochi, che già facevano greci e romani e che loro avevano imparato dallo stalliere del castello,
che era stato un po’ monaco e sapeva un po’ di latino.
Inventarono e insegnarono una nuova guerra, fatta dalle donne, dai bambini, dagli straccioni e dai poveri, una guerra povera, micidiale, fatta senza armi, fatta di furti e fughe, una guerra impensabile per gli eserciti e i cavalieri, una guerra dove la sopravvivenza valeva più dell’onore e un mezzo pollastro più di una bandiera, perché l’occupazione gli scivolasse sopra, a loro, donne, bambini, straccioni e poveri, come un’ondata sopra un sasso della riva.
La guerra era cambiata. La cavalleria era servita all’inizio per terrorizzare e domare: ora servivano schiavi.
2 commenti
Aggiungi un commentoRacconto tutto sommato molto deludente, che lascia l'amaro in bocca soprattutto perché gli elementi pregevoli ci sono, e non sono pochi.
Lo stile è perfetto, meraviglioso, anche se spesso si indugia nella riproposizione e nella spiegazione dei luoghi comuni, piuttosto che cercare una dizione personale della frase. Alcuni dei personaggi sono fenomenali. Molto bella l'immagine di Bradamante stracciona. Meravigliosa l'idea di sceglierla come capo di una rivolta dei cafoni. Originalissimo il "diavolo" etiope che si finge lebbroso, e commovente la scena del patto con la bimba attraverso la bambola. Più impersonale la figura della curatrice.
Problematico l'inquisitore. Ottimi gli sprazzi d'introspezione ma improbabile, storicamente, il personaggio. Se la De Mari vuole ambientare la vicenda in Sicilia all'epoca della conquista araba dovrebbe tener presente che la Trinacria era territorio bizantino, e a Bisanzio e nelle sue provincie non ci furono mai inquisitori, nè grandi nè piccoli. L'Inquisizione medievale fu concretamente fondata tramite la costituzione Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem, promulgata durante il concilio di Verona del 1184 (tre secoli dopo le vicende descritte dalla nostra autrice) che diede il via alla grande persecuzione dei catari, e fu un istituzione puramente cattolica, e non ortodossa. Ciò non vuol dire che i bizantini non perseguitarono gli eretici e i pagani vuol dire semplicemente che qui, invece di questo Grande Inquisitore vagamente Dostoevskiano, ci starebbe bene un semplice vescovo un po' rigido.
Poi c'è la questione dell'ispirazione. Si parla di richiami alla tradizione dei pupi siciliani. A me sembra di vedere in questo racconto una contaminazione tra Martin e l'armata Brancaleone e nella protagonista un incrocio tra Arya Stark, la Bradamante leggendaria e il signorotto norcino interpretato da Gassman. A ricordarmi i film di Monicelli sono soprattutto l'armata di straccioni e il duello con la Morte.
Altro, ovvio, richiamo è contenuto nel titolo, citazione quasi pedissequa (con solo una "strega" di troppo) del nome della più celebre incisione Dureriana.
Più che come pupi io mi immagino i personaggi quali figurine bidimensionali, le cui gesta siano raccontate in una serie di stampe dal vago sapore tardo-gotico. Figure abbozzate con una certa maestria ma sostanzialmente poco duttili, le cui imprese si concentrano freneticamente in uno spazio ridotto come quelle dei protagonisti dei "Proverbi fiamminghi" riprodotti in copertina.
L'impressione che si riceve dal racconto è quella di aver letto un bigino scritto molto bene di un'opera più lunga.
La narrazione è scorrevolissima, ma solo dalla seconda pagina in poi.
Il prologo è a dir poco tremendo. Per essere la descrizione di un massacro non comunica alcuna tensione, alcun dramma. L'autrice sembra distante mille miglia, ammassare una bella frase dopo l'altra senza preoccuparsi che il lettore senta il pathos della vicenda.
Con la fuga di Bradamante, il racconto prende davvero il via, e procede in modo piacevole fino alla fine.
Ho sentito parecchio il peso dell'assenza del discorso diretto, e si desidera che l'introspezione vada al di là dei pochi sprazzi a noi concessi.
Ho visto la mano di una grande scrittrice, ma la mia impressione generale è che il canto, invece di vibrare liberamente, sia rimasto soffocato in gola per qualche imperscrutabile motivo.
Attirato dall'attente analisi di Uljanka, sono andato a leggermi il racconto. Sono abbastanza in linea con la critica, per quanto abbia provato credo meno delusione rispetto alle potenzialità inespresse per scelta.
Mi sono in effetti chiesto anch'io se questo (comunque bel) racconto non sia in realtà una riscrittura letteraria di una sinossi. Di un progetto a cui l'autrice vorrebbe dare corpo, nella forma di un romanzo vero e proprio.
Se così fosse, mi auguro che qualcuno dia credito alla De Mari anche su questa strada, e ne nasca l'opera completa e appassionante di cui qui possiamo apprezzare l'embrione.
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