I brutti, i vecchi, i malati potevano restare a sputare quello che rimaneva del loro fiato intisichito perché la terra producesse e sfamasse gli invasori; gli altri, i giovani, i belli, quelli la cui pelle era rosa e che avevano ancora la luce delle stelle nello sguardo partivano per le terre degli invasori, dove la loro sorte sarebbe stata di morire senza discendenza e soli, ché di loro non restasse più nulla al mondo se non le ossa calcinate al sole.

Era una guerra dove le piccole bande che fuggivano e si nascondevano ce la potevano fare. Nei villaggi non c’erano mai donne, non c’erano mai bambini, nemmeno polli da portare via. Era come se un incantesimo fosse calato dal cielo a fare il vuoto davanti agli invasori.

Baldassarre aveva sempre più vermi e Cesariello aveva i piedi sempre più piatti, ma erano considerati due eroi e loro raccontarono le panzane più folli, che nessuno osò mai mettere

in dubbio, sulla regalità delle loro origini, il numero di servi e cavalli che avevano tenuto e quanti saraceni avevano sterminato sulla via.

Sentirono dire che a Palermo si stava organizzando il contrattacco e decisero, tutti e tre, di arruolarsi anche loro nel vero esercito dei re cristiani.

Il mondo era sempre grande, la strada era ancora più lunga, e oltre al cane c’erano anche la loro forza e le loro vittorie a riconfortargli il cuore, ma quando la sera calava se ne restavano

stretti e abbracciati, risentendo gli scoppi e le urla della notte della fine del mondo, e le lacrime cadevano nel buio e nel silenzio per le voci che mai più si sarebbero alzate dalle rovine fumanti per dirgli che la minestra era in tavola e che dovevano essere bravi.

Che Bradamante era femmina oramai lo sapevano tutti e questo ulteriormente le spianò la strada, perché tutti i campioni musulmani si guardarono bene dall’affrontare una contesa che non solo in caso di sconfitta, ma anche di vittoria li avrebbe coperti di disonore.

Palermo era lontana. Impiegarono dieci mesi ad arrivare.

Bradamante diventava sempre più alta. Gli stracci che portava si accorciarono sul suo corpo che cresceva e che si allungava; le spalle, squadrate dall’uso della spada, si alzarono e si allargarono. I calzari le divennero piccoli e si sfondarono.

Combatteva scalza, come i paesani che addestrava alla guerra, la sua zazzera incolta si allungò sulla sua faccia sudicia e scurita dal sole, cui davano la luce i suoi occhi che non si abbassavano mai.

Palermo era grande, splendida, piena di palazzi immani, con antiche colonne, archi, volte e architravi che si intersecavano, dividendo il cielo in strane geometrie. Molti degli archi erano spezzati, le volte erano mezze crollate. Gli antichi palazzi ospitavano i lazzaretti.

La città se ne stava crollando, quello che ancora non se ne era crollato tre secoli prima, quando già vandali e visigoti c’erano passati e di loro ancora ci si ricordava. Bradamante e

suoi scudieri ci arrivarono da ovest. La parte orientale della città era già in mano ai mori. Nella parte di centro si combatteva.

Per strada i feriti con i loro lamenti e le bende sudice sulle piaghe mal curate si alternavano alle bancarelle dei frutti di marzapane. C’era un tanfo insopportabile; enormi gelsomini

che grondavano dai muri diroccati mischiavano il profumo dei loro fiori all’odore della putrefazione.

Nelle strade di fango bambini abbandonati si rotolavano con i gatti e con i cani.

Bradamante seguita da Cesariello, Baldassarre e Spartaco si trascinava per la città cercando qualcuno che le indicasse dove erano i capi militari.

Un lebbroso enorme, completamente fasciato in bende sudice con una strana campanella su cui c’erano indecifrabili iscrizioni, la terrorizzò con l’orrore della sua condizione.

Lei gli regalò pane e cipolla, che era tutto quello che aveva, e poi gli fuggì lontano.

I due bambini vagavano persi nei colori e negli odori senza neanche capire bene dove si trovassero e da che parte fosse la via da cercare.

Bradamante li lasciò vicino a un pozzo insieme al cane e si avviò da sola. Per non presentarsi scalza al cospetto delle armate cristiane rubò dei calzari viola con le borchie di cuoio, che erano troppo piccoli e le facevano male.

Cercò il palazzo del governatore.

Lì la stavano ad aspettare.

In effetti la fama della sua spada e del suo coraggio era arrivata, ma si era preferito che lì si fermasse, perché l’armata cristiana teneva già abbastanza guai senza ancora dovere aggiungere che si era ridotta a farsi difendere da chi avrebbe dovuto solo pregare e stare a casa a partorire.

Lei fu ricevuta dal Grande Inquisitore che aveva l’ingrato compito di convincere all’abiura un vincitore, il che è sempre difficile essendo gli sconfitti quelli più propensi a riconoscere di essersi sbagliati di via.

Il Grande Inquisitore doveva spiegare come le leggi di Dio siano inviolabili e come la pietà sia una trappola del demonio, la sua ultima tentazione, affinché le leggi di Dio siano ignorate.

La legge di Dio era che le femmine stiano a casa a partorire e soffrire e che solo vescovi e cavalieri, unti del Signore, possano impugnare la spada.

La legge di Dio non era che i villici si difendano da soli.

La legge di Dio non era una guerra dove campare vale più dell’onore e un mezzo pollastro più di stendardi e bandiere.

Sangue, dolore e lacrime non sono una scusante perché le leggi siano violate.

L’inquisitore dovette spiegare quanto una sconfitta fosse più onorevole di una vittoria conquistata da una figlia del demonio armata di una spada resa invincibile da una stregoneria.

Il palazzo del Governatore era grande. Nei cortili centrali si combatteva. Una parte del palazzo era già in mano ai mori, e ai rumori della battaglia si aggiungevano quelli dei muratori che stavano erigendo una moschea sopra le antiche cappelle che si sgretolavano sotto i loro mazzuoli. Il minareto era già sovrastato da una cupola di turchesi e ori su cui le tortore avevano nidificato, e questa era una fortuna perché di tanto in tanto qualcuna sconfinava in campo cristiano e se la mira era buona si poteva mangiare.

Il Grande Inquisitore attendeva nella sua grande sala dove niente c’era se non le pareti scrostate, un tavolo e un crocifisso enorme, che grondava sangue dalle sue piaghe, perché neanche del figlio suo l’Altissimo aveva avuto pietà.

La pietà è la tentazione, la più grande, la più alta, la più dura da rigettare.

Tutto il resto può essere sacrificato senza strazio e senza dolore. Il Grande Inquisitore sognava talvolta il latte e il miele che non aveva avuto, il sonno che aveva perduto, la donna che aveva rinunciato ad amare, i figli di cui non era stato padre: i sogni gli lasciavano una nostalgia triste, un rimpianto dolce come le foglie di autunno che il vento porta via, come la nebbia mattutina che il sole asciuga.

Era la pietà soffocata che gli perseguitava e inacidiva l’anima, gli straziava la memoria: le urla, il sangue, il dolore che riempivano di angoscia le sue notti e le pause delle sue preghiere.

Quietamente l’inquisitore aspettava la propria morte, che lo venisse a liberare dei suoi ricordi e dell’obbligazione di dover fare la giustizia di Dio: la sua morte gli avrebbe restituito la pietà.

Bradamante era stanca, sperduta e le facevano male i piedi.

Fu con sterminata tristezza che il Grande Inquisitore le parlò del dolore, della dolcissima trappola della pietà. Lui le parlò di Dio, che sempre riaccoglie il suo popolo dopo qualsiasi prova, purché il suo popolo non abbia trasgredito le leggi e la consegna.

Ora c’erano i musulmani. Vandali e visigoti c’erano già stati. E poi erano passati.

Un po’ convertiti, un po’ scacciati.

Anche i musulmani sarebbero passati.

L’inquisitore parlava. Bradamante ascoltava l’inquisitore che parlava. Bradamante capì. Sentiva la voce disperata, si perse dentro gli occhi dell’inquisitore come dentro un lago dove non c’erano né fondo né confini.

La tristezza le colò dentro, stinse la sua anima di guerriero.

Tutto le sembrò follia.

La logica atroce di quel vecchio disperato le scolò dentro e la annientò.

La sicurezza la abbandonò. Il dubbio la travolse. Non era il suo valore che Dio voleva, ma la sua obbedienza e il suo dolore.

Aveva violato il volere di Dio.

La disperazione pervase il suo essere. Tutto il suo essere.

Tutto meno i piedi.

Lì c’erano le vesciche, per i calzari viola che erano piccoli e facevano male.

La voce dell’inquisitore scolò dentro come del miele misto all’assenzio e al fiele, ma tutto non poté riempire e tutto non poté addormentare perché i maledetti calzari non permisero alla coscienza di abbandonarsi e soffocare.

La sua anima di guerriero vacillò e si accartocciò, ma non si spense.

L’inquisitore non si accorse di avere fallito.

Le chiese di consegnare la spada, la sua spada che non perdeva mai.

Lei aveva gli occhi dell’inquisitore nei suoi, tutto il dolore di lui per la legge di Dio violata, ma le facevano male le vesciche ai piedi, si distrasse a cercare di spostare il peso sui calcagni per sollevare gli alluci dalla tortura, ma questo rischiava di peggiorare i malleoli. Si distrasse e non fece in tempo a consegnare la spada.

Il guaito di Spartaco la risvegliò.

Il cane era nei cortili del palazzo insieme ai due bambini.

Arrestati tutti e tre per associazione in stregoneria. Se ne stavano, i due bambini e il cane, in mezzo a quattro paladini che, invece di usare il loro valore per proteggere i villici dai saraceni, preferivano dare la caccia ai violatori delle leggi di Dio, meglio se bambini o cani.

Bradamante si svegliò del tutto, la sua anima di guerriero

risorse, come una fiammella sotto il vento, e incendiò tutto quello che c’era da incendiare; la sua mano si strinse sulla sua elsa invincibile e lei attaccò tutto quello che c’era sulla sua strada. Saltò dalla finestra giù nel cortile, dove tutti si squagliarono come poterono: la strega non era stata disarmata dalla sua malefica spada e qualunque tenzone sarebbe stata, oltre che una sconfitta, un disonore.