L’unico che fece un tentativo fu l’inquisitore, che si fiondò giù per le scale, ma inciampò nei calzari viola, che Bradamante si era tolta e aveva lanciato il più lontano possibile dalle piaghe dei suoi piedi martoriati.

Il Grande Inquisitore inciampò rovinosamente e cadde, rotolò e rotolò, la sua vecchia testa si ruppe e gli atroci ricordi che conteneva si dispersero lontano da lui insieme alla follia che lo aveva perduto, la boria di essere il tenutario della giustizia di Dio.

Il vecchio uomo morì. Prima di morire si rasserenò: ritrovò l’innocenza e la pietà.

Bradamante, i bambini e il cane correvano per le strade della città.

I bambini non avevano capito un fico di quello che era successo e mentre le frecce sibilavano, le bancarelle di marzapane si rovesciavano sugli agonizzanti e il cane abbaiava,

Bradamante dovette spiegare che, pur di non farsi difendere da loro, la cristianità preferiva schiattare.

Le strade si srotolavano e si raggomitolavano, tra piazze piene di gelsomini e strade tappezzate di capperi in fiore.

Alla fine si ritrovarono stretti tra gli armigeri cristiani che avevano alle spalle e gli assedianti musulmani che avevano davanti.

Il lebbroso enorme che li aveva terrorizzati intervenne in loro favore rovesciando un carro contro gli inseguitori. La sua mole su un fronte e la spada di Bradamante sull’altro dissuasero tutti i possibili assalitori. Il lebbroso disarmò un arciere, si impossessò di una spada e nella confusione si issò con loro sopra un muro. Poi li guidò di tetto in tetto, sopra le cupole dei minareti che già si stavano costruendo, attraverso gli archi e le volte che se ne stavano crollando, fuori, al sicuro, lontano, in mezzo alla campagna, dove gli uccelli cantavano e non c’erano né armate né inquisitori.

In mezzo a un boschetto di limoni si tolse le sue bende da lebbroso e gli altri lo fissarono furiosi e spaventati. Bradamante estrasse la sua spada e gliela puntò alla gola, pronta a sgozzarlo, ma il saraceno fece un gesto strano: dalla bisaccia di velluto ricamata in oro che aveva tenuto nascosta sotto le bende sudice estrasse una bambola di corda ritorta con la testa fatta di creta come i mattoni e loro lo riconobbero.

Era il saraceno buono, quello del villaggio sul mare. Il saraceno di cui avevano sentito parlare. Quello che aveva combattuto per loro. Era lui. Non era né una leggenda né un sogno.

Era vero.

Lo avevano ritrovato. Era con loro.

Bradamante abbassò la spada.

I suoi occhi si persero in quelli del guerriero. In quel momento fu colpita al cuore. Fece quello che succede alle donne giovani, anche se sono ancora quasi bambine. Si innamorò.

Rhug-er Bhar-hid-Amin detto il Diavolo e anche, successivamente, il Reietto, il Cane Vomito della Terra ed Escremento del Mondo faceva di nuovo parte di un’armata, sia pure infinitesimale: due bambini e un ragazzetto incazzoso e ingrugnito, che però aveva un coraggio da leone.

Ai due bambini insegnò a fischiare e tirare con l’arco, mentre il ragazzetto più grande, quello sempre ingrugnito – forse era malato –, se ne stava sempre cupo e fiero per i fatti suoi, qualche volta aveva gli occhi persi nel nulla, qualche volta li aveva pieni di pianto, e neanche faceva con loro a chi faceva pipì più lontano.

Bradamante stava male.

La cristianità non la voleva tra i suoi difensori. Meglio schiattare che non la sua guerra di pezzenti e morti di fame, meglio la morte al disonore.

Pensava alla sua notte sotto la luna, mai più mai più mai più, pensava ai cavalli che aveva rubato ai mori e a quanti bambini ci avevano mangiato.

Pensava a quanto erano stati ridicoli i paladini mentre rovinavano al suolo con tutta la loro ferraglia sotto il carro rovesciato dal moro e a quanto aveva sognato di avere un’armatura

come loro.

Pensava anche che il saraceno enorme che li aveva salvati era un reietto per tutti i suoi, come lei lo era per la cristianità, e che le regole della guerra erano da riscrivere.

Lo guardava tendere il suo arco, senza sbagliare mai, agli uccelli dell’aria, ai pesci dei torrenti e ai conigli delle pianure.

Avevano finito con il pane e cipolla: ora si mangiava carne anche per colazione. I bambini rifiorivano, anzi fiorivano per la prima volta, perché anche quando il castello era in piedi, con le pietanze si andava piano.

Bradamante sentiva il saraceno che fischiava e insegnava ai suoi scudieri a tirare con l’arco e cercava di decifrare la propria faccia bruciata dal sole riflessa nell’acqua delle pozzanghere,

pensava alle croste che aveva sui piedi e ai mesi di fango e sudore che aveva sotto i suoi stracci scuri.

Il suo respiro si fermava davanti ai muscoli che si inseguivano sotto la pelle del moro, lo stomaco le si chiudeva, gli occhi le si riempivano di un pianto insulso che non riusciva più a fermare.

La Morte

Da quando il saraceno si era tolto i suoi stracci sudici e vagava, coperto solo dalle sue brache e dall’arco rubato, per le campagne in fiore, Bradamante era diventata insopportabile.Cesariello e Baldassarre non ne potevano più del suo umore livido e dei suoi pianti improvvisi.

Le avevano giurato fedeltà eterna, ma tutto ha dei limiti e poi la loro era da intendersi come fedeltà in battaglia.

Quando lei gli chiese ingrugnita e scura di fare la guardia ai suoi stracci mentre lei si lavava in un canneto dissero di sì e poi se ne andarono per i fatti loro, nella vaga speranza di trovare un coniglio e dare prova di capacità di arciere.

Bradamante restò sola nell’acqua del canneto, che le portò via le croste dai piedi e il sudore dalle ascelle, e poi, lentamente, mentre le passavano sulla testa le rondini che venivano ad abbeverarsi in volo, lei chiuse gli occhi e si lasciò galleggiare sulla corrente lieve che si muoveva tra le canne, e si sciolsero nell’acqua anche lo scoramento, la tristezza, la

delusione di non essere un paladino, la paura di non essere abbastanza bella e che lui non l’avrebbe voluta mai.

Lei se ne restò lì, con gli occhi chiusi, il fresco dell’acqua che la circondava, la pace che riempiva il suo corpo forte di donna giovane, e tutta la sua paura se ne andò. Lei veniva dalla Cristianità e lui dalla Terra dei Leoni, ma se c’era un Dio, li aveva creati tutti e due.

Doveva solo aspettare. Il momento buono sarebbe venuto, di dirgli che lei era femmina. Non c’era fretta. Non c’era niente che non andasse bene.

Andarono avanti, loro quattro, giorno dopo giorno in quel viaggio che era sempre più lungo e greve, con la pioggia che di nuovo non cadeva, tutti i contendenti da evitare, non solo le armate ufficiali, ma anche gli sbandati, i disertori, i paesani armati di falcetto, le donne armate di coltelli di cucina, i bambini armati di sassi, e tutte le bande irregolari di quella guerra miserabile e senza onore dove si attaccava quando si poteva.

Una banda di bambini incrociò Rhug-er Bhar-hid-Amin, il guerriero, su una scogliera, mentre sia lui che loro cercavano uova di gabbiano. Dall’alto delle falesie, nascosti tra le ginestre, saldarono con le fionde il conto dell’invasione. Lui era armato di arco, ma vide che erano bambini e non tirò.

Uno dei colpi andati a segno lo fece precipitare in basso sulla scogliera dove il suo sangue si mischiò col mare.

Lo raccolsero Bradamante, Baldassarre, Cesariello, gli uomini, le donne dei paraggi, i bambini che avevano tirato che si scusarono: loro non sapevano, non potevano sapere, anche se fino lì era arrivata la leggenda di un gigante moro che combatteva perché la gente campasse e non per la patria o per l’onore.

Dispiaceva a tutti e tutti, loro, mezzo morti di fame, di stenti e di fatica, raccolsero giunchi per fabbricare una specie di giaciglio e portarlo a spalla, un po’ per uno, fino a dove lo si potesse curare.

L’unica che poteva curarlo era la strega. Impiegarono giorni ad arrivare e ogni giorno il guerriero si allontanava di più dalla vita, ogni giorno di più il suo sguardo si appannava, la sua pelle si ingrigiva.

La strega ora regnava su un vero paese. Dove prima c’era stata solo una tana ora c’era un vero e proprio accampamento di donne e bambini, dove le pentole delle castagne secche bollivano e i camicini asciugavano in lunghe file ordinate.

Gli uomini depositarono il ferito davanti alla strega e dopo qualche ora, visto che nessun miracolo succedeva, se ne andarono per i fatti loro.

Bradamante piangeva.

La strega se ne restava immobile a guardare quell’ammasso di ossa rotte e piaghe che scivolava sempre più lontano in un buio opaco da dove nessuno lo poteva più richiamare.

La luce scomparve. Il gelo riempì la radura. Gli uccelli si azzittirono, i neonati tacquero, i vocii delle donne cessarono.

Anche le fronde si fermarono e la brezza calò in un’immobilità assoluta, come solo hanno le statuine di porcellana o gli attori sulla scena, mentre si abbassa il sipario.

Bradamante alzò gli occhi.

Davanti a lei stava la Morte, proprio lei in persona.

Era alta, molto più alta di un uomo, era molto più alta di lei, un enorme scheletro con un mantello sbrindellato che svolazzava e la falce sudicia di sangue raggrumato.

Bradamante non aveva mai avuto paura di nessuno, ma davanti a quel buio, davanti a quel gelo il suo coraggio si infranse, come una scodella di maiolica che cade a terra.

Tornò il ricordo di quella notte, mai più. Tornò il ricordo di tutto il sangue che aveva visto versare. Tornò il ricordo di tutto il sangue che aveva versato. Tornarono le parole dell’inquisitore. Tutto era stato follia. Nulla aveva senso se non aspettare che la vita passasse e si arrivasse alla morte.

«Succede di rado, anche in questi tempi bui, che la Morte si scomodi per qualcuno, forse solo per i re, a volte, neanche sempre, ma Rhug-er Bhar-hid-Amin è stato più di un re: la sua fama di cavaliere e di rinnegato è stata talmente grande che io, la Morte in persona, me lo sono venuto a cercare» disse lo scheletro. La sua voce risuonò dolcissima.