«No» disse Bradamante. La paura le aveva attanagliato il cuore, ma per lui era disposta a combattere, anche con il cuore spezzato dal terrore.
«No» ripeté. Era un bel suono. Enne e o. Gran bel suono.
L’ombra scura della Morte si abbatté sul guerriero, che restò esanime e immobile sul suo giaciglio. Tutti indietreggiarono per l’orrore.
«No» disse ancora Bradamante. La paura sparì.
Tutti indietreggiarono meno lei.
Tutti meno lei.
Lei che non si arrendeva mai.
Lei impugnò la sua spada e attaccò.
Ma la sua spada non era più invincibile, e con un solo colpo la Signora con la falce la tagliò in due. Bradamante cadde per terra e la lunga ombra nera si allungò su di lei. Tutti erano fermi. Tutto divenne buio.
E qui Spartaco, il cane, si infuriò come una iena. Si infuriò per la paura, per il continuo farsela addosso, per quel suo continuo dover scappare, davanti a tutto e a tutti.
Spartaco attaccò. Per la prima volta da quando era al mondo mostrò i denti, ringhiò e attaccò.
O forse non fu la furia, forse fu la fame, per quelle lunghe ossa mal spolpate, su cui svolazzava il mantello nero. Forse le due cose. Forse fu il fatto che nessuna regola è assoluta: ogni eroe ha un momento di vigliaccheria; prima o poi i vili si alzano e combattono.
Spartaco attaccò, e per un attimo affondò anche i suoi denti giallastri e cariati nello stinco dello scheletro, perché la sorpresa fu tale che la Morte ebbe bisogno di un attimo per riprendersi: poi la falce calò.
Il bastardino guaì e quella fu l’ultima volta che il mondo udì la sua voce.
Ma quell’attimo di sorpresa bastò: la Morte fu perduta.
In quell’unico attimo il coraggio di Spartaco aveva brillato come una candelina nel buio. La paura non era più un unico monolite: una minuscola crepa si era creata.
«Un’ultima scelta c’è sempre: se non dove e quando, almeno come e perché morire» disse la strega.
«Noi mica sempre siamo moscerini» disse Cesariello.
«E questa, mo’, chi si crede di essere» aggiunse Baldassarre.
Dopo Spartaco vennero i bambini, primi Cesariello e Baldassarre, che ormai si erano addestrati a fare i guerrieri, e poi gli altri, tutti, tutti quelli che sapevano parlare. Si armarono di sassi e bastoni e del nome dei fratelli che avevano perso, dei padri che avevano visto riversi nel sangue, dei cuccioli che erano stati sterminati insieme ai cristiani, dei giocattoli che non avrebbero più avuto.
E dopo i bambini vennero le donne, tutte, con il ricordo di quello che era stato e che mai più avrebbe potuto essere, e sapendo che se qualcosa ancora avrebbe potuto esserci, per loro e per i loro figli, era perché uno dei guerrieri nemici si era fatto corrompere dalla pietà.
Il cerchio del dolore si chiuse di nuovo.
La Morte sentì il gelo sulle sue vertebre scarne, sotto le sue orbite vuote, sotto la volta del suo cranio rimbombò il suono dei sassi e dei bastoni, e per la prima volta conobbe il dubbio e la paura.
Indietreggiò.
Vacillò.
E indietreggiò ancora.
Il cerchio degli attaccanti si strinse.
L’ombra nera si dissolse fra le ombre del sole che tramontava.
Scomparve nel buio sotto gli alberi, dove lo scuro del sottobosco si univa a quello della sera che cominciava.
Bradamante si rialzò. Il cane era ai suoi piedi, aperto in due.
La strega fu la prima a cominciare a darsi da fare. Bisognava curare il saraceno: mandò i bambini a cercare finocchio e malva da far bollire nell’acqua per lavargli le ferite.
Avevano un po’ di miele che avrebbe dato la forza al ferito per riprendersi e aiutato le piaghe a chiudersi. E poi cercarono della legna liscia e diritta per fare le fasciature alle ossa
rotte.
Bradamante si chinò sul ferito e gli lavò la faccia con un po’ di acqua pulita trovata nel vuoto di un albero cavo.
Ognuno dette un pezzo dei pochi stracci che li coprivano per fare delle bende. Forse le ossa rotte non sarebbero tornate diritte come prima, ma un uomo è un uomo anche se la vita lo ha azzoppato.
Seppellirono il cane.
Verso l’alba il ferito si era ripreso abbastanza da riuscire a mangiare.
Bradamante restò china su di lui a bagnargli la fronte e a farlo bere. Il sole brillò dietro la sua testa e filtrò tra i suoi capelli sudici, mentre le lacrime addolcivano di tanto in tanto la sua faccia di guerriero imbattuto. Finalmente lui capì che lei era femmina e ringraziò l’Altissimo per la sua misericordia.
2 commenti
Aggiungi un commentoRacconto tutto sommato molto deludente, che lascia l'amaro in bocca soprattutto perché gli elementi pregevoli ci sono, e non sono pochi.
Lo stile è perfetto, meraviglioso, anche se spesso si indugia nella riproposizione e nella spiegazione dei luoghi comuni, piuttosto che cercare una dizione personale della frase. Alcuni dei personaggi sono fenomenali. Molto bella l'immagine di Bradamante stracciona. Meravigliosa l'idea di sceglierla come capo di una rivolta dei cafoni. Originalissimo il "diavolo" etiope che si finge lebbroso, e commovente la scena del patto con la bimba attraverso la bambola. Più impersonale la figura della curatrice.
Problematico l'inquisitore. Ottimi gli sprazzi d'introspezione ma improbabile, storicamente, il personaggio. Se la De Mari vuole ambientare la vicenda in Sicilia all'epoca della conquista araba dovrebbe tener presente che la Trinacria era territorio bizantino, e a Bisanzio e nelle sue provincie non ci furono mai inquisitori, nè grandi nè piccoli. L'Inquisizione medievale fu concretamente fondata tramite la costituzione Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem, promulgata durante il concilio di Verona del 1184 (tre secoli dopo le vicende descritte dalla nostra autrice) che diede il via alla grande persecuzione dei catari, e fu un istituzione puramente cattolica, e non ortodossa. Ciò non vuol dire che i bizantini non perseguitarono gli eretici e i pagani vuol dire semplicemente che qui, invece di questo Grande Inquisitore vagamente Dostoevskiano, ci starebbe bene un semplice vescovo un po' rigido.
Poi c'è la questione dell'ispirazione. Si parla di richiami alla tradizione dei pupi siciliani. A me sembra di vedere in questo racconto una contaminazione tra Martin e l'armata Brancaleone e nella protagonista un incrocio tra Arya Stark, la Bradamante leggendaria e il signorotto norcino interpretato da Gassman. A ricordarmi i film di Monicelli sono soprattutto l'armata di straccioni e il duello con la Morte.
Altro, ovvio, richiamo è contenuto nel titolo, citazione quasi pedissequa (con solo una "strega" di troppo) del nome della più celebre incisione Dureriana.
Più che come pupi io mi immagino i personaggi quali figurine bidimensionali, le cui gesta siano raccontate in una serie di stampe dal vago sapore tardo-gotico. Figure abbozzate con una certa maestria ma sostanzialmente poco duttili, le cui imprese si concentrano freneticamente in uno spazio ridotto come quelle dei protagonisti dei "Proverbi fiamminghi" riprodotti in copertina.
L'impressione che si riceve dal racconto è quella di aver letto un bigino scritto molto bene di un'opera più lunga.
La narrazione è scorrevolissima, ma solo dalla seconda pagina in poi.
Il prologo è a dir poco tremendo. Per essere la descrizione di un massacro non comunica alcuna tensione, alcun dramma. L'autrice sembra distante mille miglia, ammassare una bella frase dopo l'altra senza preoccuparsi che il lettore senta il pathos della vicenda.
Con la fuga di Bradamante, il racconto prende davvero il via, e procede in modo piacevole fino alla fine.
Ho sentito parecchio il peso dell'assenza del discorso diretto, e si desidera che l'introspezione vada al di là dei pochi sprazzi a noi concessi.
Ho visto la mano di una grande scrittrice, ma la mia impressione generale è che il canto, invece di vibrare liberamente, sia rimasto soffocato in gola per qualche imperscrutabile motivo.
Attirato dall'attente analisi di Uljanka, sono andato a leggermi il racconto. Sono abbastanza in linea con la critica, per quanto abbia provato credo meno delusione rispetto alle potenzialità inespresse per scelta.
Mi sono in effetti chiesto anch'io se questo (comunque bel) racconto non sia in realtà una riscrittura letteraria di una sinossi. Di un progetto a cui l'autrice vorrebbe dare corpo, nella forma di un romanzo vero e proprio.
Se così fosse, mi auguro che qualcuno dia credito alla De Mari anche su questa strada, e ne nasca l'opera completa e appassionante di cui qui possiamo apprezzare l'embrione.
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