Il sortilegio del drago
di Irene Vanni
5.031, 10° giorno dell’8° luna
C’era una volta un uovo che cadde dal cielo. Era blu come la notte e il guscio rifletteva miliardi di case disperse nel firmamento. Liscio, come il velluto, atterrò sui rami e le foglie senza farsi alcun male.
Cadde piano. Dai rami scivolò sulle frasche e dalle frasche sull’humus, dove si adagiò in attesa del giorno.
Dormì fino all’alba, poi cominciò a scuotersi. Si agitò. Sobbalzò. E una crepa ferì i suoi fianchi. Qualcosa, al suo interno, parve stupirsi e l’uovo rimase immobile alcuni istanti. Poi riprese a dibattersi e una nuova crepa incrociò la prima.
Infine, tutto parve sconquassarsi per una forza sotterranea e il drago verde come lo smeraldo schiuse le palpebre sul mondo. Gli occhi grandi si fissarono sui tronchi, poi si posarono sul terriccio; piano piano, le zampette si liberarono dagli ultimi residui di guscio e la terra ne accolse il cammino.
Il piccolo drago saltellò, incespicò e, passo dopo passo, imparò a camminare. Il bosco era accogliente e il cibo non mancava fra i rami materni. Il capelvenere piegava il capo per succhiare la resina dei pini e abbeverarsi di rugiada dalle felci, e il cucciolo lo imitava. Le radici sporgevano con dita adunche dal terreno e il piccolo studiava la direzione dei loro indici per scovare le bacche nascoste tra le frasche.
Poi scesero foglie d’oro e porpora che consigliarono di migrare alla ricerca di altro cibo. Giorno dopo giorno, il drago si faceva largo con le zampette e le fronde si acquattavano stremate dietro di lui, nascondendo il sentiero da cui era partito.
Finché non vide gli uomini. Forti e sorridenti, raccoglievano i frutti della terra. Li scrutò per giorni, settimane, mesi, e vide i raccolti girare al ritmo delle fasi lunari.
Così, dopo averne imparato i gesti, si fece coraggio e si avvicinò a un bambino. Era piccolo, roseo, paffuto e alzò il viso verso di lui, osservandolo con curiosità. Il cucciolo di drago si accorse che si stavano guardando nello stesso modo, così arricciò le labbra squamose sui denti di madreperla e s’inventò un sorriso; poi, si sedette di fianco a lui per giocare, imitare le sue mosse e spendere ogni briciolo d’energia per cercare di somigliargli. Ma una donna corse a riprendersi il piccolo rosa e le sue grida attirarono l’attenzione dei contadini. Il drago verde come lo smeraldo si trovò accerchiato, additato, impaurito.
Quando una mano callosa spuntò sulla sua testa, il cucciolo si scostò. Ma arrivarono altre mani e il piccolo dovette sgattaiolare fra le gambe dei contadini. Avrebbe voluto tornare da dove era venuto, ma le vanghe lo rincorsero troppo a lungo perché potesse rendersi conto della direzione che aveva preso.
Adesso c’erano tante casette davanti a lui, ma il piccolo drago si ritrovò a passeggiare per il paese senza incontrare nessuno. Eppure sentiva tutti gli sguardi su di sé. Bisbigli dietro le finestre. Continuò a camminare e camminare lungo il sentiero sempre più battuto, finché non cominciò a incrociare carri e cavalieri. Questi ultimi incitavano i cavalli alla corsa, mentre i contadini lo indicavano e si ritraevano.
Infine arrivò fra le case di un nuovo villaggio. Tutto era luce. Rumore. E il cibo si nascondeva dietro le vetrine. Avrebbe voluto chiedere da mangiare, da bere, un po’ di attenzione, ma la gente continuava a evitarlo. Provò a chiamarli, ad aggrapparsi alle loro maniche, ma loro si scuotevano i vestiti con orrore.
Il cucciolo scoppiò a piangere. E pianse, pianse, finché non finì tutte le lacrime.
Così riprese la strada del ritorno e consumò le zampette sull’acciottolato. Tornarono i carri che si allontanavano fra le grida dei contadini e i cavalli che nitrivano incitati dai cavalieri.
Fu costretto a passeggiare di nuovo per le vie del paese fantasma, dove tutti c’erano ma nessuno si vedeva.
Infine si ripresentò ai contadini che, questa volta, lo osservarono muti. Immobili, con gli occhi che sembravano voler dire: Vattene e lasciaci in pace!, mentre il bambino lo salutava con la manina paffuta.
Riprese la via per il bosco, dove le frasche e le foglie lo accolsero vibranti e amorevoli; i nodi delle cortecce alzarono le palpebre e fecero la guardia al suo passaggio; il terriccio si ammorbidì sotto i suoi piedi, soffice e ospitale.
E camminò ancora all’indietro, alla ricerca della sua prima dimora. Ma il bosco non seppe aiutarlo. Il cucciolo alzò pietre e sradicò rami, ma le sue lacrime non furono in grado d’impietosire i tronchi e le foglie.
Piangeva, gridava, si disperava e batteva forte i piedini sul terriccio, che si era mangiato quella cosa blu come la notte, liscia come il velluto, che rifletteva miliardi di case disperse nel firmamento.
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