I fiori di cristallo
di Stefano Andrea Noventa
Ogni anno i draghi di legno giungevano all'Isola, con le ali spiegate ai venti e lunghe zampe diritte e sottili che affondavano nell'acqua, una dopo l'altra, come i millepiedi delle rocce.
Giungevano ignorando le alte scogliere e i furenti marosi, come se non importasse loro della furia della natura. Dai loro ventri uscivano progenie di lucida pietra, contro la quale gli artigli stridevano; cuccioli senza ali che con un suono potevano piegare i venti, con un altro legare le ali e con un altro ancora illuderci che dall'altra parte del mare ci fosse un regno di venti sterminati.
Ma i nostri padri erano saggi e ogni anno ci nascondevano nelle cave più profonde, lasciando che i draghi di legno prendessero quello che volevano: rocce e pietra grigia, i rigogliosi fiori di cristallo che adornavano i fianchi del monte; e incauti cuccioli che non avevano ascoltato le parole dei padri.
Ogni anno i draghi di legno arrivavano.
Ogni anno tranne quello: ne giunse uno solo, piccolo, con una sola ala, e senza zampe. Sul suo dorso c'era un figlio, uno soltanto.
Forse fu proprio per questo che molti di noi non andarono a nascondersi, ignorando i ruggiti degli anziani che ben sapevano di quali inganni fossero capaci i draghi di legno. I grandi vecchi batterono infatti le loro code con forza, scossero le ali per richiamare i venti, e ci spinsero con i musi verso le grotte; ma rimasero in gran parte inascoltati. Soprattutto dai più giovani, quelli come me: quelli per cui un topo delle rocce era una curiosità degna di un paio d'ore di contemplazione.
Quell'anno, ignorammo i nostri vecchi.
Sapevamo che gli antichi padri erano morti nel tentativo di fermare i draghi di legno e i loro strani cuccioli. Nella nostra mente erano scolpiti i terribili racconti della loro disfatta: potevamo rivederne lo stormo lanciato contro i nemici, la furia del branco contro quei nuovi draghi che avevano invaso l'isola. Ma poi... le immense ali dei nostri padri si erano richiuse ed erano precipitati sulle rocce, sollevando frane di polvere e sangue. I draghi di legno erano giunti, attraverso il mare e il cielo, con le loro moli gigantesche, che oscuravano il sole, e sulla nostra isola avevano partorito: la loro progenie aveva schiacciato a terra i fieri colli dei nostri antichi padri, usando lunghe zanne uncinate, e gli aveva tagliato gli artigli; li aveva legati con lunghe liane della foresta e poi li aveva fatti trascinare, da scalpitanti cuccioli senza ali e senza squame, giù nei ventri dei loro padri.
Potevamo quasi sentire i suoni delle bocche di legno che si richiudevano in un sordo tonfo, quando i mostri inghiottivano, insieme ai nostri padri, i loro stessi figli; per poi andarsene.
Quel giorno, il cielo stesso aveva pianto la morte dei nostri cari e i fiori di cristallo erano caduti dalle nubi, simili a lacrime, ammassandosi sull'isola come una coltre di neve che l'inverno non avrebbe mai sciolto per tutti gli anni a venire.
Eppure, ciò che stava accadendo era così inusuale e carico di attrazione, per quelli come me, che risultava impossibile dar retta agli anziani. Era più affascinante di un topo delle rocce. Perciò, nonostante le fragorose grida dei vecchi, fummo in molti a restare acquattati tra le rocce, dove i nostri colori si amalgamavano al fondale del mondo e i nostri occhi riflettevano la variopinta luce dei fiori di cristallo.
Quell'anno il figlio dei draghi del mare era infatti diverso: non era duro come la pietra e lucido come la superficie dell'acqua. Ma aveva una carnagione olivastra, come quella dei piccoli e stupidi draghi delle paludi. Le sue ali azzurre gli avvolgevano il corpo e non sembravano adatte a volare, perché incapaci di restare ferme al soffiare del vento. Non aveva né coda, né corna. Le sue zampe erano piccole, senza artigli. Forse per questo portava un lungo dente legato al fianco, avvolto in uno strato di pelle.
Quando il drago di legno raggiunse l'Isola, suo figlio gli accarezzò la coda e la lunga ala bianca si richiuse su se stessa in un unico gesto. Era davvero strano quel drago: non aveva zampe, e non aveva bocca; non poteva volare, galleggiava soltanto sul pelo dell'acqua. E si lasciava legare dal figlio. Guardai stupefatto la scena: il cucciolo prese una liana e legò l'ala del padre, poi con un’altra liana legò un corno del drago a una roccia lunga e lucida che gettò in acqua. Le mie ali ebbero un fremito di curiosità.
Il figlio del drago scese sulla riva con un piccolo salto, mentre il vento gli frustava le inutili ali azzurre. Si chinò a terra e raccolse con i suoi miseri artigli alcuni ciottoli. Poi li annusò, con fare divertito, e infine li lasciò cadere a terra.
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